Mille voci l’hanno raccontata, più mani l’hanno scritta, qualcuno l’ha anche rappresentata. La vita di Francesco Acciardi non si è esaurita nell’arco della sua esistenza, ma ha varcato i confini della sua terra e superato i limiti del suo tempo. Non era un eroe, un santo, un benefattore o uno scienziato. E nemmeno un poeta. Era un brigante. L’ultimo.
A tramandare le gesta
di “Cicciu e mare mare”, come era
chiamato ad Aprigliano (Cosenza), suo paese natale, sono stati in primis quelli
che lo avevano conosciuto di persona o di fama. Mille voci.
In seguito, si sono aggiunti giornalisti, scrittori e registi a immortalare la figura di un brigante del Sud che ha guadagnato le pagine de “L’Europeo” nel 1947 grazie a Ferrante Azzali, ha ispirato il romanzo di Giuseppe Berto “Il Brigante” e l’omonimo film di Renato Castellani. Qualche anno più tardi, invitato a “L’ora della verità” dal giornalista Gianni Bisiach, Acciardi ha fatto la sua apparizione sul piccolo schermo. In tempi più recenti, la sua vita è stata narrata da Tonino De Paoli in “Processo ai processi” e nel 2012 “Il Quotidiano del Sud” ha pubblicato a mia firma un domenicale sulla vita del brigante (http://francescacanino.blogspot.com/2015/03/lultimo-brigante-francesco-acciardi-di.html). Dieci anni dopo, il romanzo di Berto è stato riproposto da Neri Pozza Editore, corredato da un’ampia postfazione firmata da Gabriele Pedullà che ha analizzato il romanzo, la vita di Acciardi, il contesto storico, le motivazioni che hanno indotto l’autore del romanzo a scrivere di Sud e briganti.
Giuseppe Berto, venuto a conoscenza delle gesta di Cicciu ‘e mare mare, ha narrato la storia di Michele Rende, un giovane veterano di guerra che, tornato nel paese natale è ingiustamente accusato di omicidio e si dà alla macchia, diventando un brigante. Inizia così il suo inferno che lo lascia senza alcun margine di scelta. La voce narrante è quella di un ragazzo, Nino, di cui Michele sposerà la giovane sorella, uccisa perché scambiata per il brigante. Sullo sfondo del romanzo il Sud ancora sconosciuto, povero, ancorato a schemi obsoleti che diventa coprotagonista nella storia di avventura, amore e dolore del brigante. La storia di Michele Rende è quella di Acciardi, seppure con molte differenze. Ed è su queste vicende che il professore Gabriele Pedullà si è soffermato, ha esaminato l’opera di Berto, analizzato il mondo e i fatti degli anni ‘60, periodo favorevole per il romanzo che fu tradotto in dodici lingue. E se i briganti restano “sempre i più nobili tra i delinquenti, perché sono gli unici a possedere una storia” (W. Benjamin), Acciardi è entrato nella storia del Sud più a sud d’Italia per la sua vita segnata da eventi tristi, melodrammatici. Saranno stati proprio questi, ha ipotizzato Pedullà, ad attrarre Berto, che si è avvicinato alla figura del brigante dopo averla scoperta su L’Europeo e ne ha immortalato le gesta in un romanzo che è rimasto un unicum nella sua opera. Ha scritto Pedullà: “Non è comunque privo di significato che, volendo scrivere un romanzo neorealista, piuttosto che soffermarsi su un riformatore sociale qualsiasi, Berto si sia rivolto alla figura, per eccellenza anarchica, del brigante: un individualista radicale che si guadagna la simpatia dei paesani prendendo le armi da solo contro i prepotenti, secondo un vecchio topos delle storie di banditi… e un uomo con il carattere di Berto potrebbe essere stato conquistato proprio da questa immagine dell’eroe solitario che si erge a difesa dei più deboli, mettendo al servizio della collettività la propria riluttanza a conformarsi agli imperativi ai quali sottostanno tutti gli altri”.
Un libro di battaglia
nell’intenzione di Berto, forse voluto per sostenere il movimento contro il
latifondo nel momento in cui le campagne diventavano teatro di accesi scontri sociali
e il ruolo dei briganti, “spaventosi e
seducenti”, “nobili e profondamente corrotti, ma sempre romanticissimi”, restituivano un'immagine
esotica della società meridionale. Ma, si chiede Pedullà, il termine brigante
può ancora andar bene per il protagonista del romanzo? Michele Rende è un
brigante “nuovo”, ha compreso che le ingiustizie subite non dipendevano dalla
cattiveria dei singoli individui, ma dal marciume imperante nell’intero assetto
sociale. Ed è per questo che l'avvocato Gennaro Cassiani, difensore di
Acciardi, nella sua arringa ha pronunciato parole indimenticabili: “C'è dunque una miseria umana capace di
inchiodare la miseria degli uomini sulla croce del delitto?”.
La vicinanza del protagonista alle fasce proletarie ha fatto ritenere che l’opera di Berto fosse “un romanzo di stretta osservanza marxista”. Ma forse l’autore ha voluto solo descrivere realisticamente, quasi da cronista, una stagione di lotte che ha caratterizzato e insanguinato la Calabria. E oltre alla miseria del Sud afflitto dal latifondo - ha fatto notare Pedullà - dal romanzo emergono la Resistenza come esperienza decisiva nell’educazione politica delle plebi diseredate e il pervertimento della legge in strumento di repressione sociale.
Rimane, tuttavia, ancora sconosciuto il motivo che ha spinto Berto a raccontare una storia forte, tragica, rappresentativa di un Meridione che tentava di liberarsi dal suo passato di miseria, a cui, paradossalmente, sembrava invece dover rimanere ancorato. I parallelismi tra la figura dello scrittore Giuseppe Berto e del bandito Francesco Acciardi, seppur sembrino iperbolici, non sono da escludere. Entrambe le personalità sono specularmente complesse, ognuna spinta da un differente “sacro fuoco” che ne ha delineato i destini, rendendo immortale la loro opera.
Cosenza, 16 maggio 2023
© Francesca Canino