La nave con la prua a sud
RISUCCHIATA dalla nebbia del
tempo, riaffiora a volte nei ricordi di chi la vide affrontare i flutti delle
miserie umane, superare tempeste, rimanere a galla e tramutarsi in faro di
speranza per tanta gente, fino ad affondare nel mare della burocrazia e
dell’ingenerosità.
C’è una nave a Cosenza che
diverse miglia ha percorso negli anni passati senza mai toccare il mare, si
chiamava Villaggio del Fanciullo ‘’Cristo Re’’. Ospitava ragazzi in condizioni
di disagio.
‘’L’ideale che fin da giovane
spuntò nel mio cuore dopo aver tanto pregato, era togliere dalla strada i
fanciulli, per una bonifica integrale della società di domani, per il trionfo
di Cristo Re’’.
Era il 13 giugno 1950 e così
don Luigi Maletta, parroco della chiesa di san Gaetano in Cosenza, scriveva al
vescovo del tempo, Aniello Calcara, per comunicargli le sue intenzioni in
merito all’erigendo Villaggio del Fanciullo intestato a ‘Cristo Re’. Tre giorni
dopo, 16 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù, la posa della prima pietra in
contrada Caricchio. Era il battesimo della nave al grido di ‘’Salviamo il
fanciullo ed abbiamo salvato la società’’.
Ricco di fede e povero di
borsa, don Maletta, già fondatore del gruppo scout di Cosenza, iniziava la sua
traversata con la certezza che ogni nube si sarebbe diradata. ‘’Terra
all’orizzonte!’’ avrà esclamato da buon capitano, quando un benefattore, Matteo
Fiorentini, donò alla chiesa di san Gaetano il terreno su cui sorse la
struttura. I fondi per la sua realizzazione, invece, giunsero da diversi
benefattori, tra cui molti emigranti residenti in America. La costruzione
avrebbe dovuto rappresentare una nave, simbolo dell’emigrazione stessa.
Nel 1951 si formò un comitato
pro Villaggio del Fanciullo composto dal vescovo Aniello Calcara, dal donatore
del suolo Matteo Fiorentini, dal prefetto Marifisa, dal sindaco della città
Alberto Serra, mentre un comitato parallelo sorse in America sotto la guida del
benefattore Fred Morelli, che si avvalse dell’aiuto indefesso di altri due
italo-americani: Niccolò Lo Franco, vice presidente del comitato e direttore
del giornale ‘’L’Italia’’ di Chicago e mister Vincent Coco, anch’egli
giornalista della stessa testata, originario di Spezzano Sila. In breve venne
organizzata una festa di beneficenza allo Sherman Hotel di Chicago per una
raccolta di fondi, in tutto dieci milioni di lire. Fu nel mese di dicembre di
quell’anno che mister Niccolò venne in Italia per la consegna del denaro
raccolto. In quell’occasione fu organizzato un incontro presso la sala
provinciale di Cosenza e scattate alcune foto durante la serata, che sembra
siano state successivamente riprodotte nel bronzo ‘’a perenne ornamento
dell’opera che egli sposò come propria creatura’’, come si legge su un giornale
dell’epoca.
La nave fu costruita solo per
metà, ancora oggi è possibile identificare, nel lato a sud, la prua ed in
quello di sud-est il ponte. Il flusso di denaro proveniente dall’America, ad un
certo punto si interruppe, forse per via di alcune voci che circolarono a
riguardo delle finalità. Voci rimaste tuttavia infondate, ma che recisero i
rapporti con la comunità italiana d’America. Malgrado ciò, don Luigi,
‘nocchiere in gran tempesta’, realizzò un edificio posto su quattro livelli,
usati nel tempo con modalità diverse e rimasto sempre tale. Il piano
seminterrato era stato adibito a cucina-refettorio; il piano terra comprendeva
i laboratori, la scuola, i servizi, gli uffici amministrativi ed uno spazio per
le attività ricreative. Al primo piano erano posti i dormitori e la chiesa; al
secondo la biblioteca, l’ambulatorio, il guardaroba, il deposito ed un alloggio
privato.
La struttura ospitava minori di
sesso maschile provenienti in prevalenza da Cosenza e provincia, alcuni vi
entravano dalla prima infanzia per rimanervi fino alla maggiore età, allora 21
anni. Il Villaggio era dotato di vari laboratori artigianali diretti da maestri
artigiani che insegnavano il ‘mestiere’: c’era, infatti, una tipografia, una
falegnameria, una fucina ed una fattoria in cui venivano allevati animali da
cortile.
I bambini frequentavano le
scuole pubbliche cittadine, ma in poco tempo furono istituite due pluriclassi
delle scuole elementari all’interno del Villaggio, dipendenti dalla Direzione
didattica delle scuole dello Spirito Santo. I ragazzi della scuola media
inferiore e superiore, continuarono, invece, a frequentare gli istituti
cittadini, accompagnati da don Luigi a bordo di una vecchia auto. Un gruppo di
minori con problemi di udito e di linguaggio, frequentava una scuola specialistica
sita in città, precisamente in via Sertorio Quattromani, al palazzo Ferrara,
che operò fino alla fine degli anni ’70.
In media l’istituto ospitò,
negli anni ‘60, circa una sessantina di ragazzi. Questi facevano parte degli
Scout della parrocchia di san Gaetano e d’estate si trasferivano in Sila per le
vacanze, vicino al lago Cecita, in locali che sembra appartenessero alla Curia.
Ad affiancare don Maletta nell’attività assistenziale, vi era un ristretto
numero di persone, tra cui una volontaria, Rosaria Bengardino, che priva di
legami parentali, dedicò la sua esistenza ai ragazzi del Villaggio sin dalla
sua fondazione e fino alla sua morte avvenuta nel 1978. Viveva nell’istituto,
si prodigava per la questua coinvolgendo i fanciulli ed era solita raccontare
come in gennaio si andasse per le case di campagna a riempire il ‘pignatello’,
un recipiente che veniva colmato con il grasso di maiale regalato dai contadini
e che serviva in cucina per l’inverno, quando faceva freddo. Anche il cibo era
poco ed era consuetudine al Villaggio, uccidere il maiale per fare la provvista
di salumi. In quell’occasione si faceva festa. A dire il vero i ragazzi non
erano abituati alle feste, provenendo da realtà familiari disgregate,
emarginate ed estremamente precarie dal punto di vista economico, culturale,
sociale e sanitario. Non erano infrequenti i casi di pediculosi e di scabbia in
alcuni minori all’ingresso nella comunità, oltre alla mancanza di indumenti e
del materiale scolastico. L’età media, intanto, cresceva sempre più e la
maggioranza era costituita da adolescenti. Dopo la chiusura dell’orfanotrofio
Vittorio Emanuele, non esistevano in città o in provincia, istituti in grado di
accogliere ragazzi di età superiore ai 10 anni. I diversi istituti religiosi
presenti sul territorio, si limitavano ad ospitare i minori fino al
completamento delle scuole elementari, mandandoli, nell’età adolescenziale,
allo sbando.
I fanciulli non manifestavano
solo la ribellione propria della loro età, ma soprattutto grande disagio
derivante dalla carenza affettiva, poiché le famiglie di provenienza, spesso,
erano incapaci di trasmettere sentimenti, affetti, valori. La comunità era
divisa in due gruppi: minori con famiglie problematiche, ma comunque ‘normali’
e minori con famiglie assenti e multiproblematiche. Nel periodo delle Feste o
delle vacanze, un gruppetto non rientrava mai a casa e veniva ospitato da
alcuni dipendenti dell’Istituto. Tale stato di cose generava difficoltà nelle
relazioni sociali e nello sviluppo armonico della personalità, tanto che
l’assistente sociale, coordinatrice anche del personale educativo, tentava di
rimediare incrementando le relazioni familiari ed intervenendo con gli altri
organismi preposti, ma in particolare cercava di mantenere rapporti costanti
con i minori per il bisogno che essi avevano di confrontarsi con una figura
femminile. Nonostante le difficoltà, molti ospiti del Villaggio si inserirono
bene nella società, alcuni proseguirono gli studi, altri emigrarono, ma per
tanti la struttura continuò ad essere un punto di riferimento anche dopo la
maggiore età.
Del vecchio Villaggio, oggi,
rimane la struttura grigia e rovinata, quasi un vascello fantasma se si
considera che le ricerche effettuate (presso la parrocchia di san Gaetano,
l’Archivio della Curia arcivescovile, l’Archivio provinciale e l’ex Baliatico,
l’Archivio comunale, l’Archivio di Stato, le Biblioteche) per reperire atti,
fotografie o altre prove documentali a testimonianza dell’operato che
l’Istituto svolse negli anni passati, sono risultate vane. La storia, però, è
rimasta nella memoria e nel cuore di chi ha prestato servizio presso la
struttura, grazie a loro è stata possibile raccontarla e rivivere il viaggio
della nave con la prua rivolta verso sud.
Le traversie burocratiche
Negli anni ’70 le entrate finanziarie costituite
dalle rette della Provincia e dell’Enaoli (ente che assisteva le vedove e gli
orfani dei lavoratori, in seguito soppresso), diminuirono, divenendo inadeguate
ad assicurare le necessità primarie dell’ente assistenziale e a garantire i
nuovi parametri sociali, pedagogici e culturali imposti dalla crescita sociale
del tempo. Don Luigi fu costretto a rivolgersi alle Istituzioni locali. Gli
subentrò l’Ente Comunale Assistenza (ECA), retto da un Consiglio di
Amministrazione nominato dal Consiglio comunale di Cosenza, che riorganizzò la
comunità assicurando il vitto e stanziando dei contributi per il perseguimento
delle finalità. Distaccò anche una parte del personale comunale presso il Villaggio,
tra cui un’assistente sociale. Era la fine del 1971. Gradualmente furono
assunte alcune figure professionali per migliorare gli intenti dell’opera: un
direttore, degli istitutori, un cuoco, un guardiano notturno, una
guardarobiera, alcuni inservienti. Furono sollecitati altri Enti per avere dei
contributi (Comune, Provincia, Regione, Cassa di Risparmio di Calabria e di
Lucania).
Sulla base di una convenzione, fu incaricato il
medico comunale per le visite periodiche e per i problemi di salute dei minori.
Anche i pasti venivano decisi secondo tabelle dietetiche prestabilite. Intanto,
per garantire una qualità migliore della vita, vennero aumentati gli spazi
riservati al dormitorio, abolendo i letti a castello e diminuendo il numero
degli ospiti (40 circa). E’ in questo periodo che per favorire la
socializzazione dei minori, due classi elementari vennero trasferite nella
scuola integrata di via Negroni. Le difficoltà economiche erano ancora tante e
verso la metà degli anni ’70 si avviò la procedura, lunga e difficile, per il
riconoscimento di Ente Pubblico, ossia di IPAB (Istituto Pubblico Assistenza e
Beneficenza) dopo che il fondatore, don Luigi, rinunziò alla proprietà privata.
Qualche anno più tardi morì. Nel 1977 si ebbe il riconoscimento, ma nello
stesso anno venne soppresso l’ECA dalla legge nazionale per gli enti
considerati inutili. Il nuovo Ente ‘Villaggio del Fanciullo’, preparò un
proprio regolamento organico e fu nominato un commissario ad acta da parte della Regione Calabria.
Al personale dipendente, al quale si era anzitempo
unito quello dell’orfanotrofio Vittorio Emanuele, fu applicato per la prima
volta un regolare contratto. Ma le rate pagate dalla Regione per ogni minore,
sempre in ritardo, si rivelarono insufficienti a coprire il bilancio. Iniziò,
così, una nuova stagione di proteste per assicurare l’assistenza ai minori e
rivendicare le spettanze del personale, mentre aumentavano i bisogni dei
ragazzi, specialmente quelli di ordine psicologico.
Verso la fine degli anni ’70, la situazione
economica dell’Ente apparve insanabile. Intanto, l’art. 25 della Legge 616/77,
in base al quale era stata portata a termine la procedura di passaggio
dell’Ente sotto la gestione del comune di Cosenza, fu dichiarato
incostituzionale. Nella struttura rimasero pochi minori, quelli con più
problemi ed il personale non percepiva lo stipendio. Inevitabilmente si decise
di chiudere alla fine del 1985. Solo all’ultimo momento si venne a conoscenza
della legge sulle Opere Pie del 1890, che prevedeva il passaggio dei beni
immobili degli Enti che non potevano proseguire le loro finalità, e per
estensione il personale, al comune sul cui territorio era situato, quindi al
comune di Cosenza.
Oggi i locali sono utilizzati come Centro sociale,
denominato Neo Ex Villaggio del Fanciullo.
5 marzo 2007
© Francesca Canino