«Amame, bella mia, si me vo amari» andava
ripetendo fra sé e sé Peppino dal momento in cui era arrivato al posto di
lavoro quella mattina. Sembrava un disco incantato che, con una frequenza
regolare, anzi regolarissima, diffondeva nell’aria il ritornello di una bella
canzone. Verso sera, quando si riponevano gli arnesi e già si pregustava il momento
del riposo, i colleghi-amici di Peppino, o meglio i cumpagni, come erano detti da queste parti, stanchi per la giornata
di lavoro sotto il sole cocente, sbottarono in un «E mo’ basta!».
«Non
potete capire – replicò Peppino – lo devo dire per tredici giorni e per tredici
notti, sette volte la mattina e sette dopo pranzo. Nella notte, nove volte lo
ripeto a piedi nudi davanti alla luna. A Natale mi voglio maritare».
I cumpagni, sbigottiti, rimasero attoniti per qualche minuto,
incapaci di pronunciare anche una sola parola. Si guardarono tra di loro e non
appena compresero la “faccenda” mancò poco che lo prendessero a botte.
Goliardicamente, s’intende! Le parole di Peppino suscitarono risate e commenti
ironici da parte degli amici, che in breve lo accerchiarono per la solita pacca
amicale sulla spalla, un modo di manifestare il consenso per la soluzione
scelta. Non era un segreto l’amore di Peppino per Giulia, la bella figlia del
farmacista, che non solo non ricambiava i sentimenti, ma aveva troppi grilli
per la testa. Dopo un primo momento di euforia, seguì quello della presa di
coscienza di tutta la “faccenda”.
“E’ una cosa complicata –
sentenziò il più anziano dei cumpagni
– la signorina Giulia è diversa da noi, troppo raffinata, troppo istruita,
troppo spregiudicata. E’ cittadina lei. Lasciala perdere, non è per te,
prenditi mia cognata che è “dei paesi tuoi” e sarà una moglie come serve a te.
Così non resterà zitella e non peserà sulle mie spalle. Prenderemmo due
piccioni con una fava: tu ti mariti, che ne hai bisogno, ed io mi libero. Di
questo anch’io ne ho bisogno, i braccianti come me, come noi, a malapena
riescono ad andare avanti. Meno si è in famiglia, più si mangia! Fai così e
saremo compari per sempre”. “Voglio Giulia e la avrò. Se mi vuole, meglio per
lei, se non mi vuole, mi vorrà!”.
Andò via dai campi, lasciando
gli amici dietro di sé. Il sole non bruciava più, era piacevole ora camminare
lentamente e pensare a lei, a Giulia, la più bella del paese, la più ammirata,
la più chiacchierata. Era diversa dalle altre, forse perché il padre le aveva
permesso di andare in città a studiare. Era diventata maestra, aveva assunto i
modi cittadini e anche la mentalità. Ora la guardavano con diffidenza e non
faceva vita sociale in paese. Non si può dire che fosse stata proprio
emarginata, perché sempre la figlia del farmacista era, ma si era
progressivamente autoesclusa dalla sua società. D’altronde, che cosa poteva
accomunare una signorina di città con la gente del paese che aveva sempre
vissuto, ed ancora continuava a farlo, nella convinzione che il mondo fosse
solo il loro paese? Anche Peppino si era persuaso di ciò, nonostante fosse
giovane, ed aveva impostato la sua vita come quella di suo padre e di suo
nonno. Non era curioso, non aveva ambizioni, a parte sposare Giulia.
“Amame bella mia si me vo amari, sinnò ti fazzu amari ccu maijia – ripeteva
Peppino – e sabato, alla festa ci fidanzeremo. Così deve essere”. Già, la festa
di San Giovanni, patrono del paese, ricorrenza in cui gli innamorati si
dichiaravano i propri sentimenti e ne facevano partecipi anche le famiglie per
poi sposarsi di lì a poco. Peppino aveva i soldi da parte per fare il grande
passo, aveva lavorato per questo da quando aveva terminato i suoi studi:
licenza elementare. Era qui che aveva conosciuto Giulia e se ne era innamorato
subito.
L’amore di Peppino era rimasto saldo nonostante i
cambiamenti dell’adolescenza e i momenti
difficili della prima gioventù. Nemmeno la differenza di ceto gli era mai
sembrata un ostacolo, era sicuro che Giulia sarebbe diventata sua moglie. Ora
più che mai.
“Bella, bella mia, chissà che stai facendo adesso?” pensò
Peppino passando sotto la casa dell’amata che era sempre stata indifferente
agli sguardi e ai saluti di lui. In paese tutti erano a conoscenza di questo
amore unilaterale, ma era meglio così, lei non meritava un bravo ragazzo come
Peppino, uno di loro, mentre Giulia era diversa, criticata e mal tollerata. E
poi, da quando era tornata in paese indossando una gonna più corta del normale,
nessuno le rivolgeva la parola. Malgrado dalla città arrivassero gli echi di
una società che stava mutando radicalmente, i paesani non se ne curavano più di
tanto e mostravano diffidenza verso ogni modernità, giudicavano male tutte le
cose nuove che i giovani cittadini conquistavano giorno dopo giorno. Dalla
radio si apprendeva quotidianamente quanto succedeva in diverse università
italiane, degli scontri tra i “giovinastri” capelloni e le malefemmine in
minigonne che si permettevano di ribellarsi ai genitori, ai professori, ai
preti e perfino alla polizia! Era una situazione blasfema, da condannare e da
combattere affinché non prendesse il sopravvento e i giorni scorressero sempre
uguali, senza cambiamenti che avrebbero minato uno stile di vita ormai
consolidato da secoli.
Giulia, con la sua minigonna, non era altro che una
malafemmina, tornata dalla città cambiata in peggio, come dicevano gli anziani
del muretto, quelli cioè che ad una certa ora del giorno solevano sedersi su un
muretto prospiciente la chiesa per passare il tempo. Sempre allo stesso modo:
parlare degli altri, mai positivamente. Adesso era la volta di Giulia, delle
sue stranezze di ragazza moderna, dei dispiaceri che dava alla madre, donna
integerrima e caritatevole, una rosa da cui era nata una spina. Peppino era al
corrente della cattiva fama di Giulia, ma non gliene importava poi tanto,
convinto com’era che il matrimonio con una persona seria come lui avrebbe
riabilitato Giulia agli occhi di tutti. Un matrimonio riparatore della cattiva
reputazione della giovane e che avrebbe reso felice Peppino, così innamorato da
non comprendere di essere senza speranze. Una persona semplice come lui, senza
cultura, senza fantasia, non si poneva troppe domande, lavorava sodo e questo
gli bastava. Non andava quasi mai in città per non perdere tempo, il suo mondo
era il paesello circondato da campi e boschetti oltre i quali, da poco, era
stata asfaltata la strada che portava in città, subito battezzata dai paesani
come “via nova”. Ecco, Peppino non si spingeva
nemmeno fino alla via nova per
non sentirsi troppo distante dal suo mondo o più vicino alla città dove viveva
gente diversa, moderna. Però fino ai boschetti andavo spesso a fare legna e non
solo, andava anche a trovare cummari Milia,
una donna sempre disponibile ad aiutare chiunque, medico, farmacista e maestra
nello stesso tempo. Una magara. Era tenuta in gran considerazione dalla gente
del paese per la capacità di diagnosticare le patologie più disparate che a
turno colpivano i paesani, per gli unguenti e le polverine che preparava a
seconda del caso, per i consigli e le relative parcelle non proprio popolari
che esigeva dai suoi clienti. D’altro canto, una cifra modesta avrebbe svilito
la sua arte, ma si accontentava anche di pagamenti in natura. Fu felice di
aiutare Peppino insegnandogli una formula magica che lo avrebbe di sicuro
portato all’altare con Giulia. Però doveva seguire con precisione le regole perché
le formule magiche sono cose serie, “riti scientifici”, usava dire la cummari, quasi a voler combinare
religione e scienza, non conoscendo in effetti né l’una, né l’altra. Ma di
scienza si parlava spesso nell’ultimo periodo e Milia aveva pensato di
adeguarsi a tempi. Così consegnò a Peppino una formula antica da recitare
giorno e notte e si raccomandò di essere informata sugli sviluppi. Non volle denaro
da lui, perché diceva che quando si può fare un’opera buona non bisogna esitare.
In realtà, solo i bei giovani usufruivano del suo principio filantropico!
Peppino prese alla lettera i consigli della magara perché
il giorno di San Giovanni era vicino e doveva fidanzarsi. Pensava alla reazione
che avrebbero avuto i suoi paesani nell’apprendere la notizia del suo
fidanzamento con Giulia, sicuramente sarebbe stato invidiato dai suoi amici e
la ‘mmidia' non
era cosa buona.
Erano ormai dieci giorni che seguiva la “cura” della cummari, si sentiva vincente e sempre
innamorato. Adesso che si trovava sotto la casa di Giulia pensava a cosa
avrebbe dovuto dirle la sera della festa, come avrebbe dovuto dichiararle il
suo amore visto che non parlavano dalla fine della scuola!
“Sarà il Santo ad aiutarmi, qui è in gioco la formazione
di una nuova famiglia!” pensò Peppino e sicuro di ciò se ne tornò a casa. Il
mattino seguente, dopo un’altra notte quasi insonne sia per i pensieri d’amore,
sia per la formula da recitare nove volte nell’arco della nottata, accusava una
certa stanchezza, subito notata dai cumpagni
che come al solito iniziarono a prenderlo in giro. L’ironia si sprecava
nell’intento di far “scoppiare” l’innamorato, ma Peppino aveva altro a cui
pensare.
“Avete sentito che cosa è successo stanotte alla ferrovia di
Reggio Calabria?” disse uno di loro. “Ma che ne dobbiamo sapere noi di queste
cose? – disse Peppino – Noi siamo braccianti agricoli e basta. Basta!”.
Una strana reazione alla quale seguì un lungo silenzio
quasi fino al termine della giornata. Era tormentato dall’indifferenza di Giulia,
dai suoi atteggiamenti di ribelle e di ragazza poco seria, a volte aveva paura
di non riuscire a realizzare il suo sogno anche se ripeteva la formula alla
perfezione. Quella notte non riuscì a riposare, nove volte si alzò per il rito
magico da compiere dinanzi alla luna, ma c’erano le nuvole nel cielo che la
coprivano e Peppino pensò che fosse un segno nefasto. “Pigliu nu dente de nu niuru cane, n’uossu de muortu chi pagano sia:
pigliu na fune de sette campane, na carta scritta de la Sacristia”.
Si alzò definitivamente prima delle cinque e uscì di casa,
attese il giorno, ma non andò nei campi. Aspettò che Giulia uscisse di casa,
come ogni mattina e le si avvicinò chiedendole di accompagnarla ovunque stesse
andando. Non le diede modo di rispondere che iniziò a parlarle dei suoi
sentimenti, del suo dolore per l’indifferenza che gli aveva mostrato. Non
riusciva a fermarsi, parlava di tutto ormai, di tutto quello che avrebbe voluto
dirle in quegli anni, di come si sentiva ad amare una donna diversa dalle altre,
bella e lontana come una stella, un amore che aumentava a dispetto delle
malelingue e della differenza sociale. L’avrebbe amata perché ormai era legato
a lei da qualcosa di più forte finanche dell’amore stesso. Giulia non si
sentiva affatto gratificata dalle parole di Peppino, ma non glielo diede ad
intendere, anzi cercava una scusa per sfuggire a quell’amore senza sofferenze
per nessuno. Disse che il suo futuro non sarebbe stato al paese, bensì in una
grande città del nord d’Italia, dove avrebbe avuto la possibilità di insegnare
e di vivere a modo suo. La decisione era stata presa e lui, Peppino, si sarebbe
dovuto rassegnare. Invece si sentì invadere dalla rabbia, divenne livido e
desideroso di farle provare il male che lei aveva fatto a lui, anzi di più,
voleva che tutto il male del mondo lacerasse il suo corpo e la sua anima,
imprecava, si batteva il volto con le mani e gridava il suo dolore a voce alta.
“A mmenzannotte te fazzu chiamari de
Satanassu, ch’è ‘ncommannu a mia, ed a nna cava te fazzu purtari, de notte
scura chi lustru nun sia”.
Giulia fuggì via, decise di evitarlo fino al momento della
sua partenza per la grande città, si chiuse in casa spaventata per la reazione
violenta di Peppino. Solo il giorno della festa uscì e seguì la processione per
la via del paese. Sembrava lontano Peppino e Giulia partecipò con piacere ai
festeggiamenti. “Un Santo patrono è un Santo patrono, non si può far finta di
niente”, pensò fra sé.
Alle nove di sera si diede inizio allo spettacolo dei
fuochi d’artificio, forse la parte più magica di una festa popolare e Giulia si
appartò per goderseli in pace. Alzò lo sguardo al cielo senza stelle e senza
luna, troppe nuvole negli ultimi giorni. Presto i fuochi lo avrebbero ravvivato
portando luce e colore negli occhi e nei cuori. Un pensiero interrotto da un movimento
fulmineo: Giulia si sentì improvvisamente tirare per la gonna corta, cadde a
terra e venne trascinata lontana dalla folla. Nessuno se ne accorse, intenti
com’erano ad ammirare i fuochi, nemmeno le sue grida furono udite a causa del
fragore degli scoppi. Si accorse che era Peppino ad averla portata lontana
dalla gente, in aperta campagna e a spingerla ancora con violenza. Aveva il
viso stravolto e biascicava strane parole, incomprensibili, che la facevano
rabbrividire. Peppino la condusse in prossimità di un precipizio che delimitava
il boschetto e Giulia, in un momento di fredda lucidità, comprese le sue
intenzioni e alcune delle parole che pronunciava: “Ed a nna cava te fazzu purtari de notte scura chi lustru nun sia”.
Era tutto inequivocabile,
ma Giulia non ebbe il tempo per pensare ad altro perché venne scaraventata con rabbia
nel burrone. Il rito doveva essere rispettato.
Peppino vagò nella notte, pazzo di dolore, prendendosela con la luna che non c'era e negava il suo aiuto agli uomini. Le gridava di uscire dai suoi nascondigli e di aiutarlo. Nessuno lo vide più, ma in paese dicevano di sentire le sue grida in tutte le notti di luna nuova.
Peppino vagò nella notte, pazzo di dolore, prendendosela con la luna che non c'era e negava il suo aiuto agli uomini. Le gridava di uscire dai suoi nascondigli e di aiutarlo. Nessuno lo vide più, ma in paese dicevano di sentire le sue grida in tutte le notti di luna nuova.
22-11-15
©Francesca
Canino