Migranti minori non accompagnati, 118
scomparsi
Da Il
Quotidiano del Sud del 15 luglio 2017
Nei primi giorni di luglio, 217 minori non
accompagnati, provenienti da diverse zone dell’Africa subsahariana, sono
sbarcati nel porto di Corigliano. Immediatamente sistemati nel locale
palazzetto dello Sport, sono stati trasferiti, nei giorni seguenti, in altre
strutture idonee. Dall’inizio dell’anno ne sono scomparsi 118. Sulla loro sorte
non si sa nulla. È questo il dramma degli sbarchi dei minori soli: eludono i
controlli, scarsissimi a dire il vero, e scappano con l’intenzione di
raggiungere qualche familiare o solo per abbandonare la struttura che li
ospita. Ciò che accade dopo l’allontanamento preoccupa tutti, si spera che gli
adolescenti non finiscano nella rete della prostituzione, dei caporali, della
criminalità e soprattutto si scongiura che vengano adescati per prelevarne gli organi.
Anche nei mesi scorsi si sono verificati fughe di minori, dei quali si sono
perse le tracce per sempre.
Le storie
Ed
ecco l’esperienza di alcuni giovanissimi migranti sbarcati in Italia tra sofferenze
e violenze raccontate dagli stessi ragazzi tramite un mediatore culturale. C’è M.,
che viene dalla Costa d’Avorio, dove ha frequentato la scuola per dodici anni, poi
ha lasciato la famiglia perché doveva accompagnare una zia in Niger. «Rimane lì
perché è difficile far ritorno a casa – dice il mediatore – e gli suggeriscono di
andare in Libia. Incontra una persona che gli fa attraversare il Sahara con altra
gente. Soffre per il caldo, la sete, la fame e le bastonate ricevute dalle
guide armate prima di essere accompagnato in un carcere libico, a Shaba, dove vengono
picchiati tutti i giorni per sei mesi. Ci sono famiglie intere con bambini,
tutti subiscono lo stesso trattamento, ci sono malati, molti perdono la vita
davanti a lui e sono buttati nel deserto, ci sono donne incinte. Le prigioni sono
dei posti tutti chiusi, senza finestre, con persone che stanno male. Vede gente
morire proprio accanto a lui e donne incinte che muoiono perché non possono
partorire. A M. viene data la possibilità di telefonare alla madre e
chiedere tremila dollari per essere liberato: la madre li manda tramite un
amico di famiglia che gestisce questo genere di viaggi. Dopo otto mesi, una
mattina alle 3, tanti ragazzi sono mandati sul gommone per attraversare il
mare, la prigione deve essere svuotata, serve per i nuovi arrivi».
Anche
R., eritreo, ha una storia triste da raccontare, conosce poco l’inglese e spera
di andare via per lavorare a Roma o a Milano, i suoi amici sono all’estero, in
Germania, ma non sa che deve rimanere in una struttura fino a 18 anni. «Nel suo
paese non esiste la democrazia – racconta il mediatore - non c’è lavoro, né
libertà. I ragazzi che lasciano la scuola li mandano subito a fare i militari. R.
scappa di casa, come tanti qui, e la sua famiglia non ne sa niente, viene
avvista quando si trova già in Libia, sono preoccupati, è l’unico figlio. Sono
i suoi amici a convincerlo a scappare, gli dicono che in Italia è tutto bello, che
c’è libertà. La famiglia gli fa avere tremila dollari tramite un amico, per
evitare che lo uccidano. Dopo otto mesi trascorsi in un capannone, dove lo
picchiano con i bastoni di ferro e dove mangia una volta al giorno, giunge in
Italia e spera di trovare un lavoro.
Il
suo conterraneo, Mo., dice spesso che non vuole pensare alla sofferenza dei
mesi scorsi: botte e 5500 dollari per lasciare la Libia, dopo aver raggiunto il
Sudan e incontrato persone che organizzano questi viaggi. Attraversa il deserto
in auto, c’è gente del Sudan e della Libia alla guida. Ora è in Italia, ma
vorrebbe lasciarla per raggiungere i suoi amici. Tante volte pensa alla famiglia,
si è pentito del viaggio perché ha sofferto troppo e oggi dice che sarebbe
stato meglio rimanere con la mamma.
B.,
invece, proviene dal Senegal, dove alcuni canali tv spiegano come fare per
raggiungere la Libia. È stato un suo paesano che fa questo lavoro ad
accompagnarlo in Mali, qui, un gruppo di senegalesi e nigeriani lo ha condotto
in Libia e dopo un mese di prigione è stato messo su un barcone. Chi non ha
denaro o viene ucciso o può essere costretto a mettersi alla guida dello scafo.
Fra questi ragazzi, c’è un somalo che non riesce a comunicare – conclude il
mediatore – perché parla solo il dialetto della sua zona. Nessuno lo capisce,
quindi, è impossibile sapere qualcosa sul viaggio che ha fatto o sulla sua vita
in genere».
8
agosto 2017
© Francesca
Canino