25 Luglio 1844
da Il Quotidiano della Calabria, 25 luglio 2012
“Tentai più volte un cantico come un sospir d'amore a voi sacrar”,
sono i primi versi di una poesia di Goffredo Mameli dal titolo “Ai Bandiera”.
La storia dei fratelli veneziani e dei loro compagni sbarcati in Calabria è risaputa
ed è stata ripercorsa tante volte anche dai giornali. Non ve la racconteremo di
nuovo, ma vi proporremo alcuni stralci delle lettere che Attilio ed Emilio
Bandiera indirizzarono ai genitori, a Mazzini e ai giudici nei mesi in cui si
erano rifugiati a Corfù e durante la loro prigionia nelle carceri cosentine.
Non hanno bisogno dei commenti degli studiosi, dei giornalisti o dei critici,
sono l'espressione di patrioti ferventi che non devono essere dimenticati. Solo
i versi in corsivo di Mameli si alterneranno tra gli scritti dei martiri
veneziani.
“Non
è vero che l'Italia sia immatura pella libertà. Se su du essa getterassi uno
sguardo superficiale s'incontreranno una nobiltà indolente, un clero
intollerante, un popolo povero ed ignavio, ma se poco vogliasi approfondare
l'investigazione, si sentirà che dalla Trinacria alle Alpi, oltre che la
gloriosa rimembranza del passato, ferve dovunque un cupo mormorio che invano i
tiranni si studiano di soffocare”. Dallo Statuto
dell'Esperia, società segreta fondata dai fratelli Bandiera.
“Giovare
all'Italia è giovare all'umanità intera. Senza conoscere i vostri principi
concordavamo con essi. Noi volevamo una patria libera, unita, repubblicana: ci
proponevamo fidare nei soli mezzi nazionali, sprezzare qualunque sussidio
straniero e gittare il guanto quando ci fossimo creduti abbastanza forti”.
Attilio Bandiera a
Mazzini, marzo 1844.
“Mia
madre non m'intende, mi chiama empio, uno snaturato, un assassino, e le sue
lagrime mi straziano il cuore, i suoi rimproveri, quantunque non meritati, mi
sono come punte di pugnale, ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che
quelle lagrime e quello sdegno spettano ai tiranni”.
Emilio Bandiera a
Mazzini in occasione della visita della madre a Corfù.
“Signor
Padre, dispero ch'ella voglia accettare questa mia. L'ira sua deve essere
orribile, implacabile, il suo cuore non batterà che di sdegno e di esacrazione
per i suoi figli; pure per l'amore di mia madre non distrugga questo, forse mio
ultimo lamento.
Allorquando
il tempo avrà dalla sua mano inesorabile raffreddato alquanto il bollore
dell'odio suo, chi sa, ella potrebbe ricercarlo questo foglio in cui suo figlio
versò tante lagrime e le più amare forse dell'orrendo calice che il destino gli
serbava quaggiù. E forse questo momento potrebbe essere vicino. Quando un
estraneo le dirà: Signore, il colpevole è sotterra, allora non le sarà contato
a delitto ricordarsi che quel colpevole era suo figlio. Signore, una carriera
opposta percorremmo, la percorremmo, oso dirle, con la stessa devozione, con la
stessa nobiltà. La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza
e voi l'onoraste e la vostra probità, l'elevatezza del vostro operato, giunsero
a mettere anche in dubbio se da quella parte non fosse la giustizia: la mia era
quella dell'Italia, d'una patria caduta, desolata avvilita. Padre mio, non
perdonerete a vostro figlio di essersi fatto campione del debole e di aver
sfidato l'orgoglio dell'ingiusto potente? Codesto perdono scenderebbe come
balsamo sulle piaghe che mi addolorano il cuore, ma egli vi costerebbe troppo.
Perdonato che aveste, ritornereste a vostro figlio il vostro amore e vi
dorrebbe saperlo infelice, e allora, padre mio, alle mie
afflizioni dovrei aggiunger quella d'aver alle lagrime di sdegno fatto
succedere quelle più corrosive dell'affanno. Però, Padre mio, una grazia: sarà
l'ultima e dopo questa non udrete più nulla di me, non vi chiederò più
soccorso, consiglio o compassione. La miseria, gli stenti, gli affanni, i
pericoli mi condurranno prestissimo ad una morte prematura e violenta:
concedetemi che in quel supremo momento, in cui varcherò il ponte che mena là
dove dovranno tacere gli odi ed i risentimenti, concedetemi, Padre mio, che io
muoia prendendomi la vostra benedizione”.
A. B. al padre.
Ma un fremito d'ira stringeam il core, ma soffocava il pianto sulle mie
labbra il canto.(G. Mameli)
“Convenimmo correre la sorte. Fra poche
ore partiamo per la Calabria. Se giungeremo sani e salvi, noi faremo il meglio
che si potrà, militarmente e politicamente. Ci seguono altri diciassette
italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese. Ricordatevi
di noi, e credete che, se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed
intima convinzione saremo fermi nel sostenere quei principi che, riconosciuti
soli atti a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della
patria, abbiamo assieme inculcato. Se soccombiamo dite ai nostri concittadini
che imitino l'esempio, poiché la vita ci fu data per utilmente e nobilmente impiegarla, e
la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura e la più
santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà,
dell'Eguaglianza, dell'Umanità, della Indipendenza e dell'Unità Italia”.
E. B. a Mazzini, giugno 1844.
“L'insurrezione comincia a succedere in Italia ad una lunga e difficile cospirazione. I vostri figli corrono a prendervi parte. Probabilmente soccomberemo, ma saremo benedetti da tutti i buoni, compatiti dagli indifferenti, vilipesi dai tristi. Voi, nostro padre, sarete inesorabile a perseguitarci con la vostra maledizione? Oh no, voi non siete capace di odiare nessuno e non vorrete odiare due figli che, se hanno errato, lo fecero per troppo vibrato sentire. Non mi estendo di più. Ho tutto detto quando dico che la benedizione di mio padre mi renderebbe sopportabile qualunque esistenza e placida la morte”.
E. B. al padre, giugno 1844.
“Mio caro
padre, tra poche ore, se non ci è impedito, partiremo per la Calabria, dove
altri prodi figli d'Italia hanno proclamato la rigenerazione della patria.
Secondo ogni apparenza, soccomberemo, ma l'esistenza non ci fu forse data per
bene impiegarla? La nostra memoria suonerà benedetta tra quelle dei generosi
che si dichiararono fautori dell'umanità e della patria. Già questa benedizione
da ogni parte ci piove addosso, dovunque ci si esalta come magnanimi. Ma questo
applauso da Lei è preso come infame. L'infamia deriva dalle azioni proprie e
non dalle altrui voci appassionate. Alla famiglia preferimmo l'umanità e la
patria, e noi credemmo d'aver fatto il nostro dovere. E con noi sta il consenso
universale: chi statuisce di sacrificare i maggiori interessi ai minori è
sempre un egoista. Temperi il suo rammarico dunque, e resistendo alla sua piena
cessi di essere ingiusto verso di noi. Le somme cure che mi assediano in questi
momenti decisivi mi impediscono d'intrattenermi con Lei come bramerei. Non Le
ho scritto dopo le mie da Sira perché seppi che, non più che accordarci il di
Lei amore, Ella non vuol più sentirci nominare. Mi ridoni il di Lei affetto in
questo supremo momento”.
A. B. al padre, giugno 1844.
PROCLAMA AI CALABRESI
Libertà, Eguaglianza, Umanità,
Indipendenza, Unità.
Calabresi!
Al grido de' vostri fatti, all'annunzio del giuramento italiano che
avete giurato, Noi, attraverso ostacoli e perigli, dalla prossima terra
d'esilio siam venuti a schierarci fra le vostre file, a combattere le vostre
battaglie, ad ammirare la bandiera dell'Italia che avete coraggiosamente
sollevato! Vinceremo o moriremo con voi Calabresi! Grideremo come voi avete
gridato, che scopo comune è di costituire l'Italia e le sue isole in
nazionalità libera, una, indipendente: con voi combatteremo quanti despoti ci
combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi. Calabresi, non
è epoca rimota quella in cui avete distrutto sessantamila invasori condotti da
un italiano, il più grande capitano di Napoleone. Armatevi dell'energia di
allora e preparatevi all'assalto degli austriaci che vi riguardano lor
vassalli, vi sfidano e vi chiamano briganti. Continuate, o Calabresi, nella
generosa via che con splendidi successi avete dimostrato volere unicamente
percorrere, e l'Italia resa grande ed indipendente chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua
libertà, il primo campo delle sue glorie.
In nome degli esuli sbarcati in Calabria, Attilio Bandiera, Niccolò
Ricciotti, Emilio Bandiera.
“Annunciateci,
ve ne preghiamo, tutta la verità; ed innanzi a Dio ed innanzi agli uomini non
potrete fare opera più meritoria. Colui che vi scrive queste poche righe sa che
immancabilmente è consacrato ad una prossima morte. Il sogno delle sue notti
era di spirare sul campo di battaglia, combattendo chi non permette che
l'Italia diventi nazione al pari delle altre e riacquisti i propri diritti! Ah!
non saranno le baionette tedesche, saranno le palle italiane bensì, che lo
ricongiungeranno a Dio! Quale disinganno! E quale dolore? Essere sconosciuto ed
oppresso da tale che si stimava fratello! Da quello, di cui in terra straniera,
quantunque a torto talora, non si tollerava mai che l'onore calpestato venisse
deriso”.
A.B. al procuratore, giugno 1844.
“E la bandiera
tricolore, trovata fra i nostri arnesi, imputate, rispettabili signori, a punto
di accusa ed a base di condanna? L'averla portata con noi fu naturale
conseguenza della presa risoluzione e delle esagerate notizie ricevute. Noi
credevamo avviarci verso un paese commosso, credevamo vedere sventolare sulle
sue torri lo stendardo della Patria e, volendo mostrarci drappello del nuovo
Patto italiano, volevamo innalzare lo stesso vessillo, il quale poi, nè a San
Giovanni in Fiore, nè altrove fu inalberato. Se la bandiera italiana fosse
stata spiegata, gli Urbani di quella città fratricida o sarebbero stati
respinti o avrebbero trovato Emilio Bandiera cadavere accanto ad essi”.
E.B. ai giudici, giugno 1844.
E non ardì il mio genio sui venerandi avelli dei martiri fratelli voce
di schiavo alzar. (G. M.)
“Mio caro padre, due sole righe perché sono impedito dal fare di più come vorrei perché i ferri mi stringono le mani e
m'impediscono di adoperarle in nessuna maniera. Domani raccoglieremo, Emilio ed
Io, le vele nel porto Supremo, entreremo nella Città beata dove non sono
tiranni e là pregheremo per Voi ed aspetteremo, perché Dio gode di unire ciò
che gli uomini vollero disgiungere. Consci di aver fatto più bene che ci era
possibile ed inoltre di aver più sofferto che goduto, noi siamo sereni e
tranquilli e riguardiamo alla morte come al fine di una prova difficile. La
nostra pena può essere confessata crudele, ma mai infamante. Separiamoci dunque
da forti e in modo degno di noi”.
A.B. al padre dopo la sentenza.
“Mia cara Mamma,
Sopportate
con rassegnazione questa amara prova, questo acerbo dolore. Ricorrete a Dio e
statene sicuri che ottenuto il suo perdono noi pregheremo per Voi, e per i cari
che Vi circondano e che non voglio nominare perchè la mia predilezione non sia
per esse soggetto di persecuzione. Attestate al mondo intero che Nicola
Ricciotti non ebbe alcuna parte alla sciagurata determinazione che ci condusse
a morte. Giunto appena a Corfù e diretto da tutt'altra parte, cedette ad una
amicizia breve di tempo, ma veemente d'affetto; invitato da noi, con noi volle
dividere gloria e pericolo. Beneditelo, miei cari, perché i vostri figli saran
morti nelle sue braccia, col solo dolore, ripeto, di avergli domandata una
tanto triste fratellanza. L'ultima prova che vi addrizziamo si è di far
risonare più che sia possibile questa solenne verità”.
E.B. alla madre dopo la sentenza.
La mattina del 25 luglio 1844, nel
Vallone di Rovito presso Cosenza: “Tirate pure - gridarono al plotone esitante - siamo soldati
anche noi e sappiamo che quando s'ha un ordine s'ha da eseguire”.
Fino all'ultimo gridarono “Viva l'Italia”.
L'inno dei forti ai forti, quando sarem risorti sol vi potrem nomar. (G.
M.)
© FRANCESCA CANINO