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25 luglio 2016

Le lettere dei Fratelli Bandiera


25 Luglio 1844


 da Il Quotidiano della Calabria, 25 luglio 2012
“Tentai più volte un cantico come un sospir d'amore a voi sacrar”, sono i primi versi di una poesia di Goffredo Mameli dal titolo “Ai Bandiera”. La storia dei fratelli veneziani e dei loro compagni sbarcati in Calabria è risaputa ed è stata ripercorsa tante volte anche dai giornali. Non ve la racconteremo di nuovo, ma vi proporremo alcuni stralci delle lettere che Attilio ed Emilio Bandiera indirizzarono ai genitori, a Mazzini e ai giudici nei mesi in cui si erano rifugiati a Corfù e durante la loro prigionia nelle carceri cosentine. Non hanno bisogno dei commenti degli studiosi, dei giornalisti o dei critici, sono l'espressione di patrioti ferventi che non devono essere dimenticati. Solo i versi in corsivo di Mameli si alterneranno tra gli scritti dei martiri veneziani.

“Non è vero che l'Italia sia immatura pella libertà. Se su du essa getterassi uno sguardo superficiale s'incontreranno una nobiltà indolente, un clero intollerante, un popolo povero ed ignavio, ma se poco vogliasi approfondare l'investigazione, si sentirà che dalla Trinacria alle Alpi, oltre che la gloriosa rimembranza del passato, ferve dovunque un cupo mormorio che invano i tiranni si studiano di soffocare”.  Dallo Statuto dell'Esperia, società segreta fondata dai fratelli Bandiera.

“Giovare all'Italia è giovare all'umanità intera. Senza conoscere i vostri principi concordavamo con essi. Noi volevamo una patria libera, unita, repubblicana: ci proponevamo fidare nei soli mezzi nazionali, sprezzare qualunque sussidio straniero e gittare il guanto quando ci fossimo creduti abbastanza forti”.
Attilio Bandiera a Mazzini, marzo 1844.

“Mia madre non m'intende, mi chiama empio, uno snaturato, un assassino, e le sue lagrime mi straziano il cuore, i suoi rimproveri, quantunque non meritati, mi sono come punte di pugnale, ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che quelle lagrime e quello sdegno spettano ai tiranni”.
Emilio Bandiera a Mazzini in occasione della visita della madre a Corfù.

“Signor Padre, dispero ch'ella voglia accettare questa mia. L'ira sua deve essere orribile, implacabile, il suo cuore non batterà che di sdegno e di esacrazione per i suoi figli; pure per l'amore di mia madre non distrugga questo, forse mio ultimo lamento.
Allorquando il tempo avrà dalla sua mano inesorabile raffreddato alquanto il bollore dell'odio suo, chi sa, ella potrebbe ricercarlo questo foglio in cui suo figlio versò tante lagrime e le più amare forse dell'orrendo calice che il destino gli serbava quaggiù. E forse questo momento potrebbe essere vicino. Quando un estraneo le dirà: Signore, il colpevole è sotterra, allora non le sarà contato a delitto ricordarsi che quel colpevole era suo figlio. Signore, una carriera opposta percorremmo, la percorremmo, oso dirle, con la stessa devozione, con la stessa nobiltà. La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza e voi l'onoraste e la vostra probità, l'elevatezza del vostro operato, giunsero a mettere anche in dubbio se da quella parte non fosse la giustizia: la mia era quella dell'Italia, d'una patria caduta, desolata avvilita. Padre mio, non perdonerete a vostro figlio di essersi fatto campione del debole e di aver sfidato l'orgoglio dell'ingiusto potente? Codesto perdono scenderebbe come balsamo sulle piaghe che mi addolorano il cuore, ma egli vi costerebbe troppo. Perdonato che aveste, ritornereste a vostro figlio il vostro amore e vi dorrebbe saperlo infelice, e allora, padre mio, alle mie afflizioni dovrei aggiunger quella d'aver alle lagrime di sdegno fatto succedere quelle più corrosive dell'affanno. Però, Padre mio, una grazia: sarà l'ultima e dopo questa non udrete più nulla di me, non vi chiederò più soccorso, consiglio o compassione. La miseria, gli stenti, gli affanni, i pericoli mi condurranno prestissimo ad una morte prematura e violenta: concedetemi che in quel supremo momento, in cui varcherò il ponte che mena là dove dovranno tacere gli odi ed i risentimenti, concedetemi, Padre mio, che io muoia prendendomi la vostra benedizione”. 
A. B. al padre.

Ma un fremito d'ira stringeam il core, ma soffocava il pianto sulle mie labbra il canto.(G. Mameli)

“Convenimmo correre la sorte. Fra poche ore partiamo per la Calabria. Se giungeremo sani e salvi, noi faremo il meglio che si potrà, militarmente e politicamente. Ci seguono altri diciassette italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese. Ricordatevi di noi, e credete che, se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima convinzione saremo fermi nel sostenere quei principi che, riconosciuti soli atti a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della patria, abbiamo assieme inculcato. Se soccombiamo dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poiché la vita ci fu data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura e la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà, dell'Eguaglianza, dell'Umanità, della Indipendenza e dell'Unità Italia”.
E. B. a Mazzini, giugno 1844.

“L'insurrezione comincia a succedere in Italia ad una lunga e difficile cospirazione. I vostri figli corrono a prendervi parte. Probabilmente soccomberemo, ma
saremo benedetti da tutti i buoni, compatiti dagli indifferenti, vilipesi dai tristi. Voi, nostro padre, sarete inesorabile a perseguitarci con la vostra maledizione? Oh no, voi non siete capace di odiare nessuno e non vorrete odiare due figli che, se hanno errato, lo fecero per troppo vibrato sentire. Non mi estendo di più. Ho tutto detto quando dico che la benedizione di mio padre mi renderebbe sopportabile qualunque esistenza e placida la morte”.
E. B. al padre, giugno 1844.

“Mio caro padre, tra poche ore, se non ci è impedito, partiremo per la Calabria, dove altri prodi figli d'Italia hanno proclamato la rigenerazione della patria. Secondo ogni apparenza, soccomberemo, ma l'esistenza non ci fu forse data per bene impiegarla? La nostra memoria suonerà benedetta tra quelle dei generosi che si dichiararono fautori dell'umanità e della patria. Già questa benedizione da ogni parte ci piove addosso, dovunque ci si esalta come magnanimi. Ma questo applauso da Lei è preso come infame. L'infamia deriva dalle azioni proprie e non dalle altrui voci appassionate. Alla famiglia preferimmo l'umanità e la patria, e noi credemmo d'aver fatto il nostro dovere. E con noi sta il consenso universale: chi statuisce di sacrificare i maggiori interessi ai minori è sempre un egoista. Temperi il suo rammarico dunque, e resistendo alla sua piena cessi di essere ingiusto verso di noi. Le somme cure che mi assediano in questi momenti decisivi mi impediscono d'intrattenermi con Lei come bramerei. Non Le ho scritto dopo le mie da Sira perché seppi che, non più che accordarci il di Lei amore, Ella non vuol più sentirci nominare. Mi ridoni il di Lei affetto in questo supremo momento”.
A. B. al padre, giugno 1844.

PROCLAMA AI CALABRESI

Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Unità.

Calabresi!
Al grido de' vostri fatti, all'annunzio del giuramento italiano che avete giurato, Noi, attraverso ostacoli e perigli, dalla prossima terra d'esilio siam venuti a schierarci fra le vostre file, a combattere le vostre battaglie, ad ammirare la bandiera dell'Italia che avete coraggiosamente sollevato! Vinceremo o moriremo con voi Calabresi! Grideremo come voi avete gridato, che scopo comune è di costituire l'Italia e le sue isole in nazionalità libera, una, indipendente: con voi combatteremo quanti despoti ci combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi. Calabresi, non è epoca rimota quella in cui avete distrutto sessantamila invasori condotti da un italiano, il più grande capitano di Napoleone. Armatevi dell'energia di allora e preparatevi all'assalto degli austriaci che vi riguardano lor vassalli, vi sfidano e vi chiamano briganti. Continuate, o Calabresi, nella generosa via che con splendidi successi avete dimostrato volere unicamente percorrere, e l'Italia resa grande ed indipendente chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua libertà, il primo campo delle sue glorie.
In nome degli esuli sbarcati in Calabria, Attilio Bandiera, Niccolò Ricciotti, Emilio Bandiera. 
“Annunciateci, ve ne preghiamo, tutta la verità; ed innanzi a Dio ed innanzi agli uomini non potrete fare opera più meritoria. Colui che vi scrive queste poche righe sa che immancabilmente è consacrato ad una prossima morte. Il sogno delle sue notti era di spirare sul campo di battaglia, combattendo chi non permette che l'Italia diventi nazione al pari delle altre e riacquisti i propri diritti! Ah! non saranno le baionette tedesche, saranno le palle italiane bensì, che lo ricongiungeranno a Dio! Quale disinganno! E quale dolore? Essere sconosciuto ed oppresso da tale che si stimava fratello! Da quello, di cui in terra straniera, quantunque a torto talora, non si tollerava mai che l'onore calpestato venisse deriso”.
A.B. al procuratore, giugno 1844.

“E la bandiera tricolore, trovata fra i nostri arnesi, imputate, rispettabili signori, a punto di accusa ed a base di condanna? L'averla portata con noi fu naturale conseguenza della presa risoluzione e delle esagerate notizie ricevute. Noi credevamo avviarci verso un paese commosso, credevamo vedere sventolare sulle sue torri lo stendardo della Patria e, volendo mostrarci drappello del nuovo Patto italiano, volevamo innalzare lo stesso vessillo, il quale poi, nè a San Giovanni in Fiore, nè altrove fu inalberato. Se la bandiera italiana fosse stata spiegata, gli Urbani di quella città fratricida o sarebbero stati respinti o avrebbero trovato Emilio Bandiera cadavere accanto ad essi”.
E.B. ai giudici, giugno 1844.

E non ardì il mio genio sui venerandi avelli dei martiri fratelli voce di schiavo alzar. (G. M.)

“Mio caro padre, due sole righe perché sono impedito dal fare di più come vorrei perché i ferri mi stringono le mani e m'impediscono di adoperarle in nessuna maniera. Domani raccoglieremo, Emilio ed Io, le vele nel porto Supremo, entreremo nella Città beata dove non sono tiranni e là pregheremo per Voi ed aspetteremo, perché Dio gode di unire ciò che gli uomini vollero disgiungere. Consci di aver fatto più bene che ci era possibile ed inoltre di aver più sofferto che goduto, noi siamo sereni e tranquilli e riguardiamo alla morte come al fine di una prova difficile. La nostra pena può essere confessata crudele, ma mai infamante. Separiamoci dunque da forti e in modo degno di noi”.
A.B. al padre dopo la sentenza.

“Mia cara Mamma,
Sopportate con rassegnazione questa amara prova, questo acerbo dolore. Ricorrete a Dio e statene sicuri che ottenuto il suo perdono noi pregheremo per Voi, e per i cari che Vi circondano e che non voglio nominare perchè la mia predilezione non sia per esse soggetto di persecuzione. Attestate al mondo intero che Nicola Ricciotti non ebbe alcuna parte alla sciagurata determinazione che ci condusse a morte. Giunto appena a Corfù e diretto da tutt'altra parte, cedette ad una amicizia breve di tempo, ma veemente d'affetto; invitato da noi, con noi volle dividere gloria e pericolo. Beneditelo, miei cari, perché i vostri figli saran morti nelle sue braccia, col solo dolore, ripeto, di avergli domandata una tanto triste fratellanza. L'ultima prova che vi addrizziamo si è di far risonare più che sia possibile questa solenne verità”.
E.B. alla madre dopo la sentenza.

La mattina del 25 luglio 1844, nel Vallone di Rovito presso Cosenza: “Tirate pure -  gridarono al plotone esitante - siamo soldati anche noi e sappiamo che quando s'ha un ordine s'ha da eseguire”.
Fino all'ultimo gridarono “Viva l'Italia”.

L'inno dei forti ai forti, quando sarem risorti sol vi potrem nomar. (G. M.)



© FRANCESCA CANINO