QUEI briganti del Sud che intimorivano la
popolazione con fatti violenti o con
scellerate condotte contrarie alla morale e alla legge, spesso iniqua,
sono diventati in alcuni casi il simbolo del coraggio virile che tanto ha
affascinato donne e giovani. Eroi contro
ogni convenzione, che ribellandosi al potere
diventavano gli alleati del popolo, i difensori degli ultimi, i paladini di una
giustizia che poco considerava i più deboli. Una sorta di nemesi che colpiva
l'immaginario collettivo, anche di stranieri. Donne in particolare, che non
furono immuni al fascino del brigante, come accadde nella vita di Salvatore
Giuliano e, per altri versi, in quella di Francesco Acciardi, la cui vicenda intenerì la scrittrice olandese Nanny
Klinkert, traduttrice del romanzo “Il Brigante” di Giuseppe Berto. La
scrittrice venne in Italia per conoscere l'ergastolano Acciardi e intraprese
una lunga battaglia per ottenere la grazia, chiedendo aiuto alla moglie del
futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, allora Presidente del
Consiglio e alla signora Reale, parente del ministro di Grazia e giustizia.
Meno noto di tanti altri briganti, Acciardi,
detto 'Cicciu ‘e mare mare', nacque a Grupa di Aprigliano nel 1893. Condusse
una vita normalissima fino a vent'anni, lavorando con il padre nei campi.
Coltivavano un terreno confinante con la proprietà della famiglia Celestino,
della cui giovane figlia, Ida, Acciardi si innamorò. Fu questo l’evento che
segnerà tutta la sua vita.
Di temperamento sanguigno, i suoi problemi giudiziari dovuti
a semplici liti con altri compaesani iniziarono nel 1914. Allo scoppio della prima guerra
mondiale, Acciardi fu arruolato, ma disertò, sebbene per pochi giorni, perché
voleva rivedere la sua fidanzata. Fu arrestato e posto dinanzi alla scelta di
rimanere in prigione o essere arruolato nel battaglione d’assalto in prima
linea. Scelse il fronte con gli arditi, come ha scritto Tonino De Paoli
nell'opera più completa e veritiera sulla vita del brigante, dal titolo
“Processo ai processi”, che ci permette oggi di raccontare la tumultuosa
esistenza di Francesco Acciardi. Dopo il ferimento sul Piave fu decorato con la
medaglia d’argento al valore e con i gradi di sergente e alla fine della guerra
fece ritorno ad Aprigliano. In quegli anni il piccolo centro della presila
cosentina si preparava a vivere una fase dolorosa e comune a quella di tanti
altri paesi meridionali: l'emigrazione verso l'America del Nord e del Sud.
Troppa fame spingeva la gente a cercare una vita migliore in altri paesi e per
chi rimaneva le prospettive non erano rosee.
In questo contesto sociale Acciardi fu accusato di
aver assassinato il compaesano Domenico Abbruzzini, un ricco possidente. Accusa
mai provata, ma ricaduta su di lui per l'acquisto di un fucile nei giorni precedenti
l'omicidio e per il fatto che la vittima aveva da tempo iniziato una relazione
amorosa con la cugina di Acciardi, ostacolata dalla famiglia della giovane perché
Abbruzzini era un gran donnaiolo. Acciardi si dichiarò innocente, aveva un alibi
di ferro: nell’ora del delitto si trovava a Cosenza, in casa di Ida Celestino,
la donna che amava. Ma ella, che non si presentò in aula, sostenne in una deposizione giurata che non lo
frequentava da tempo, tanto più la sera del delitto. Acciardi fu condannato sulla
base di semplici indizi a circa 17 anni di carcere, ridotti poi a sette dai
Regi Decreti. Scontò la pena nel carcere di Cosenza e in quello di Pozzuoli.
Tra i suoi avvocati figuravano Nicola Serra e Luigi Filosa che non riuscirono a
dimostrare ciò che alcuni testi dichiararono in seguito, cioè che la Celestino
aveva confermato loro l'alibi di Acciardi, ma che non lo aveva espresso per paura dei fratelli. La
stessa tesi fu sostenuta da alcuni testimoni oculari che videro Acciardi a
Cosenza la sera del delitto. Il fratello di Abbruzzini scrisse una lettera in
difesa di Acciardi, incapace, a suo parere, di un crimine del genere. Alcuni
oggi sostengono che in punto di morte un compaesano confessò di essere stato
l'autore del delitto per dare una lezione ad Abbruzzini che aveva fatto una
proposta indecente alla propria figlia.
Scontata la pena Acciardi fece ritorno ad
Aprigliano, dove nel 1929 fu accusato di tentato omicidio ai danni dell’ex
fidanzata Ida Celestino e quindi condannato ad altri mesi di carcere, in
seguito ai quali fu sottoposto alla più rigida obbedienza per il suo stato di
sorvegliato speciale. Le sue disobbedienze, però, indussero i Carabinieri ad
assegnarlo a una colonia agricola. In questo periodo, estate del 1931, sposò la
sedicenne Emilia Savaglio, detta Miliella. Segnalato come soggetto pericoloso,
il Giudice di Sorveglianza gli impose una cauzione di quattromila lire o in
alternativa due anni di colonia agricola. Non riuscì a trovare la somma e la
sua posizione fu aggravata per aver procurato lesioni a un compaesano e per
aver minacciato un carabiniere. Consapevole della sua situazione, per sfuggire
alla galera si diede alla macchia, seguito a breve dalla moglie. Di giorno
lavoravano duramente e di notte dormivano nei campi, sotto un gelso. Un
contadino, Salvatore Musso, diventò amico fidato dei due coniugi fino alla
notte tra il 22 e il 23 luglio del 1932, quando
Francesco e Miliella, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, fecero
ritorno al loro gelso e a sera caddero in un sonno profondo, interrotto solo
dalla frescura della notte. Francesco, innamorato e premuroso sposo, si svegliò
e coprì la moglie con la sua giacca per poi riprendere sonno, ma due colpi di
fucile lo svegliarono. Si rese subito conto che era stata colpita Miliella e
che la vittima designata era lui. Per quegli strani casi del destino, la giacca
che avrebbe dovuto proteggerla dal freddo l’aveva esposta al pericolo supremo. Scambiata
per Francesco, Salvatore Musso la uccise selvaggiamente. Era incinta di cinque
mesi. Acciardi, nel tentativo di salvarla, aveva gridato la sua resa ai
Carabinieri, pensando fossero stati questi a uccidere la moglie. Ma intorno era
il silenzio, allora intuì che l’autore del misfatto era qualcuno
che abitava nella casa vicina. Fu preso da una vera e propria monomania omicida
che lo indusse a uccidere, nei giorni 24 e 25 luglio, Ida Celestino, i suoi
genitori e altre quattro persone. Alla strage fece seguito, il giorno dopo, il
ferimento di due carabinieri. Poi
fuggì e si nascose nelle vicinanze, qualche settimana più tardi si costituì
volontariamente. Il processo si svolse nella Corte d’Assise di Castrovillari
alla presenza di un numerosissimo pubblico giunto da ogni parte della
regione per guardare negli occhi Acciardi, assassino ed eroe vendicatore nello
stesso tempo che era diventato bandito per amore. L’accusa sostenne che
l’insano gesto del Musso era scaturito da un sentimento di rivalsa contro
Acciardi che lo aveva sottomesso e obbligato a eseguire i suoi comandi. La
difesa, invece, ritenne che il Musso fosse stato allettato dalla taglia posta
per la sua cattura e da una sorta di impunità della quale credeva di potersi avvalere per la
sua collaborazione con la giustizia. Alcuni paesani raccontarono che il Musso,
dopo una violenta rissa con il fratello, fu arrestato e guadagnò la libertà in
cambio della promessa di consegnare Acciardi vivo o morto, poiché i
Carabinieri, nonostante le forze impiegate, non riuscivano a catturarlo.
Memorabile fu l'arringa dell'avvocato Gennaro
Cassiani: “Acciardi negli anni '20 subisce una condanna e grida la sua
innocenza, ucciderà in seguito i Celestino perché la figlia Ida non volle testimoniare
nel processo di Assise di essere stata con lui nell'ora del delitto: un alibi
che significava una sentenza di assoluzione. In conseguenza della condanna è
sottoposto a vigilanza speciale. Dopo qualche tempo è denunciato per una
volontaria trasgressione agli obblighi della sorveglianza. Dove ha peccato
Acciardi? Se ha peccato ha trovato pure la sua riabilitazione sposando una
giovane ragazza di sedici anni e intanto viene chiesta la cauzione di buona
condotta di quattromila lire. C'è dunque una miseria umana capace di inchiodare
la miseria degli uomini sulla croce del delitto? Sì, c'è questa giustizia, perché
il Giudice di Sorveglianza ad Acciardi dice: ‘O la cauzione o la colonia’.
Acciardi chiede, cerca, invoca, finalmente pare abbia trovato, va a Cosenza, ma
è troppo tardi, deve essere inviato in colonia. Alla sua mente infiammabile si
presenta una sola via di scampo, la via della campagna. La moglie vuole
seguirlo, ha paura dei Carabinieri che ogni sera bussano alla sua porta e segue
il marito. Girano insieme, vagando. I Carabinieri sono sulle piste di Acciardi,
ma cosa ha fatto il brigante Acciardi? Nulla... gli hanno chiesto quattromila
lire e non le ha potute pagare. Il Giudice di Sorveglianza ha voluto dare alla miseria il nome di delitto,
e Acciardi è al bando. Non c'è contro di lui un mandato di cattura, non
potrebbe esserci ed egli intanto batte la campagna come un bandito. E poi la
sera del 23 luglio... è questo il
momento in cui il destino di un uomo può diventare l'urlo possente di una
raffica donde scaturisce sangue, vendetta, disperazione e tutto travolge la
mente di quell'uomo e tutto in lui cede il posto a una forma tipica di
monomania omicida. Acciardi inizia la corsa alla follia. Ecco il valore del
delitto Musso. Ecco il significato vero del danno che ne è significato ad Acciardi.
Che altro sono i delitti di Acciardi se non una conseguenza immediata
dell'uccisione della giovane moglie.
Il dramma è nella realtà: la miseria di un uomo
inchiodata sulla croce del delitto, la carabina di uno sciagurato che spegne
due vite innocenti, l'una fiorita, l'altra dischiusa, il dolore che sanguina,
il dolore che uccide, il dolore che benda gli occhi e fascia la mente...”.
Fu chiesta la pena di morte, ma la Corte mutò
la richiesta, condannando all'ergastolo Acciardi, con l’aggiunta di quattro
anni di isolamento. Una pena di 18 anni fu inflitta a Musso.
Un articolo del marzo del 1947 apparso su ‘L’Europeo’,
così descrisse gli eventi di quella notte: “… la popolazione, nonostante le
uccisioni e il terrore che ispirava la figura del bandito, sentiva in un certo
senso di poterlo giustificare col movente passionale. La patetica fine di sua
moglie, poi, commuoveva in modo particolare e il ricordo del primo processo, in
cui l’Acciardi era stato condannato si pensava su semplici indizi, la
condotta della sua ex fidanzata che non aveva voluto confermare l’alibi, tutto
questo induceva gli animi a sentimenti di compassione e di indulgenza. Insomma
la fantasia popolare stava già creando la leggenda del vendicatore, dell’eroe
che, in un momento di aberrazione, uccideva e faceva strage dei nemici reali o
presunti per salvare l’onore e la memoria della donna amata”.
Acciardi fu rinchiuso nel carcere di Ponza, che
all'epoca era duro e amaro: “Ogni giorno era un lungo giorno, in pochi mesi si
era piegati”, soleva ricordare in paese.
Evase nel '44 in seguito ai bombardamenti e
fuggì al Nord, dove fu arrestato dai tedeschi e deportato in Germania. Fu tra i
pochi fortunati a far ritorno ad Aprigliano a fine conflitto, credendo che la
guerra avesse definitivamente cancellato la sua condanna. Si trovò un lavoro in
un’impresa boschiva, ma girava sempre armato, tanto da allarmare i Carabinieri che decisero di tendergli un
tranello per riportare una certa tranquillità nelle campagne apriglianesi. Gli
chiesero aiuto per la cattura di un pericoloso latitante che si nascondeva
nelle montagne e Acciardi, che conosceva bene quei luoghi, accettò. Ma appena
iniziata la battuta, i Carabinieri lo immobilizzarono e lo riconsegnarono alla
giustizia. Tornò in carcere, prima a Porto Azzurro e poi a Procida, da dove
uscì il 27 agosto 1966 in seguito a un Decreto di Grazia del Presidente della
Repubblica Giuseppe Saragat. Gli fu imposto, però, un periodo di cinque anni di
libertà vigilata. Pochi mesi più tardi sposò Emilia Schiavo e trovò un lavoro
presso una casa editrice di Cosenza. Nel 1976 si accesero di nuovo i riflettori
su di lui: nel mezzo di una discussione esplose un colpo contro la cognata che
fortunatamente rimase illesa. Di nuovo il carcere, anche se solo per un breve
periodo. Durante l’attesa del giudizio, nel carcere di Cosenza a Colle Triglio,
tentò, senza riuscirci, il suicidio. Fu assolto e tornò libero. Morì due anni
dopo ad Aprigliano, il 24 settembre 1978.
Ad Aprigliano ancora ricordano che non ci fu
mai un giudizio unanime su Acciardi, alcuni lo descrissero come un uomo sanguigno
e forte, ottimo tiratore di fucile, altri come un prepotente, altri ancora come
una persona normale che solo le ingiuste vicende subite avevano trasformato in
uno spietato criminale. Non furono tanto i delitti a dargli la denominazione di
brigante, quanto il romanzo di Berto e il film di Castellani girato a Scandale.
Berto apprese la storia da un articolo pubblicato sull’Europeo e il suo romanzo,
tradotto in dodici lingue, divenne un best seller negli Usa, mentre duecentomila
copie furono vendute nell’ex URSS. Nel 1961, dal romanzo fu realizzato un film
dal regista Renato Castellani che fu presentato alla Mostra cinematografica di
Venezia. ‘Il Giorno’ del 31 agosto 1961 scrisse: “E’ a nostro parere un film da
Leone d’oro”. La storia del brigante, dopo il Decreto di Grazia, negli anni
’60, fu trasmessa a puntate sulla radio nazionale.
Si ringrazia Tonino De Paoli per le foto e le notizie
9-3-2015
©Francesca
Canino
"...i Carabinieri che decisero di tendergli un tranello per riportare una certa tranquillità nelle campagne apriglianesi. .....". Questa è una balla grande quanto una montagana. La verità è che Acciardi incuteva paura nel territorio e approfittava di questo per poter estorcere tranquillamente quanto gli serviva per vivere. Mio padre Carabiniere Francesco Cavallaro, fu incaricato di contattarlo per tentare di capire le sue intenzioni. Attraverso un parente dell'Acciardi, se non ricordo male un vigile urbano, mio padre fu convocato di notte e andò da solo e disarmato all'appuntamento in una cascina in campagna. Acciardi non si presentò, ma mio padre ebbe l'impressione che stava nascosto in casa e che l'appuntamento serviva solo per studiare le sue mosse. Per qualche ora rimase a conversare con alcuni amici e parenti del "brigante", poi verso l'alba, gli dissero che Acciardi aveva avuto un contrattempo e per questo non era arrivato. Dopo qualche giorno fu lo stesso Acciardi ad andare incontro a mio padre in una stradina di campagna nei pressi di Aprigliano, si presentò o lo elogiò per il coraggio che aveva avuto nell'accettare il suo invito. Dopo cominciarono a frequentarsi e si incontrarono spesso nei boschi della Sila, dove organizzarono anche delle gare di tiro tra "amici". Mio padre era tiratore scelto e Acciardi, anch'egli ottimo tiratore, si divertiva moltissimo in queste amichevoli sfide. Poi un giorno il capitano dei CC di Cosenza convocò mio padre e gli diede l'ordine di arrestarlo. Non fu facile obbedire a quell'ordine, visti i rapporti amichevoli che si erano fra di loro instaurati, ma il dovere gli impose di farlo e così dovendosi incontrare a qualche chilometro da Pedace (se non ricordo male) mio padre decise di arrestarlo coadiuvato da un altro carabiniere, e così fu. Il racconto di mio padre è sempre stato improntato dalla responsabilità del dovere e la rabbia di doverlo compiere ma lo fece. Quando prese l'Acciardi da un braccio e gli disse "Ciccio ti devo arrestare", quest'ultimo ebbe un moto di stizza e tentò di afferrare la pistola che teneva nella cintura dei pantaloni, ma fu bloccato e, senza ammanettarlo, fu condotto alla caserma più vicina che era quella appunto di Pedace (?) e da lì poi a Cosenza. Per questa azione mio padre fu promosso appuntato e gli fu conferito un Encomio Solenne. Negli anni successivi partecipò anche alla cattura di altri latitanti fra cui un certo Cavaliere che aveva ucciso 17 persone fra cui un prete e in quel caso gli fu assegnata la medaglia di Bronzo al Valor Militare. Quando Acciardi fu finalmente libero nel 1966, si incontrarono a Cosenza e si salutarono da persone serie e civili. Questa è la storia terminale. Io sono nato ad Aprigliano e all'epoca dei fatti avevo solo un anno. Mio padre non aveva piacere a parlare di questi fatti e lo fece solo quando ormai era in pensione e prossimo alla fine della sua vita. Pochi giorni prima di morire, mi confidò che in parte era pentito dei sacrifici che aveva fatto per servire e difendere uno stato le cui leggi spesso niente avevano a che fare con la giustizia.
RispondiEliminaIl mio servizio si basa sulla testimonianza della gente del luogo e su alcuni scritti. Non è stato facile ricostruire una storia di cui esistono poche tracce. Se qualcosa non corrisponde alla realtà è da attribuire alla difficoltà a reperire i dati dopo molti anni dagli accadimenti, non per raccontare balle.
EliminaFrancesca Canino
La mia precisazione non voleva inficiare il lavoro che lei sicuramente ha portato avanti in modo egregio, ma su questa storia ne ho sentite di cotte e di crude, se in qualche modo l'ho offesa la prego di volermi scusare.
EliminaCordiali saluti
Antonio M. Cavallaro