‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

06 febbraio 2017

I Poveri di Cosenza


Futura
Qui si ama

da "Il Quotidiano della Calabria", settembre 2007

‘’I PAZZI aprono strade che poi i savi percorrono’’.
E così è stato quando Futura è stata ideata e voluta, tanto da essere realizzata in breve tempo, come tutte le cose in cui si crede fortemente, per le quali si combattono battaglie, si superano ostacoli, si gioca una partita su più fronti.
Se la società dei consumi ha evitato finora alle nuove generazioni, almeno nell’Occidente industrializzato, di vivere situazioni estreme di bisogno, così non è stato nei decenni che seguirono il dopoguerra, nonostante il boom economico ed il benessere che da esso scaturì.
Di fame ce n’era ancora, forse non in percentuale altissima, ma di poveri che bussavano per un pezzo di pane e non per  una ‘moneta’ come succede oggi, se ne aggiravano tanti per la città degli anni ’50 e ’60. Si sistemavano sui muretti e sotto gli archi, i vari portici cittadini, quando pioveva, in attesa degli avanzi riscaldati, a volte i resti dei pasti ospedalieri, conservati con cura per sfamare i poveri di quegli anni difficili.
C’era sempre qualcuno di buona volontà che si incaricava di prelevare la pasta cotta e congelata dall’Annunziata, di riscaldarla e offrirla ai poveri. I ricordi di molti convergono su quelle figure di indigenti, che spinti dalle necessità di tutti i giorni, bussavano alle porte di case, enti, chiese.
Qualche anno più tardi, le cose cambiarono, ma non in meglio come ci si sarebbe aspettato, poiché ai poveri ‘locali’ cominciarono ad affiancarsi i primi ‘stranieri’ e le bocche da sfamare aumentarono.
Per questo motivo, il 13 maggio 1985, in una vecchia casa situata in corso Mazzini, si diede vita ad un ‘Cenacolo’, una sorta di approdo per indigenti di tutte le razze e religioni, gestita da giovani volontari dalle insolite caratteristiche: non il ragazzo perbene, studioso e di buona famiglia, spinto da puri sentimenti cristiani che si sente in debito perpetuo nei riguardi di chi ha meno di lui, ma da ragazzacci, reperiti per le strade, negli spalti delle tifoserie agguerrite, nei rifiuti umani della città.
Anch’essi esclusi. Si dice che il povero aiuti il povero, questa è la dimostrazione del teorema.
Si assicurava, così, un pasto caldo ai nullatenenti di Cosenza, mentre i volontari, impegnati a far funzionare una struttura del tutto nuova per la città e soprattutto con pochi mezzi, si allontanavano sempre più dalle molteplici devianze che la società genera, in particolar modo per i deboli, i bistrattati, i più soli.
In breve il cenacolo si guadagnò una grande popolarità, mentre la città plaudeva, promuoveva e sosteneva l’iniziativa, fiera di una realtà che la rendeva quasi unica in Italia.

Corso Mazzini, sulla sinistra era il Cenacolo
Perché non erano solo i poveri che bussavano alla porta del cenacolo, quanto la Provvidenza di manzoniana memoria sotto le vesti dei diversi benefattori.
Il solo pane quotidiano, però, non era più sufficiente: case abbandonate ed isolate, cassonetti dell’immondizia, stazioni, tanti luoghi impensati di notte si popolavano per ospitare barboni, extracomunitari a cui serviva un posto per riposare. Le esigenze aumentavano, allora si affittò una modesta costruzione a Cosenza Casali per adibirla a dormitorio e Futura iniziò ad ospitare i poveri anche di notte. 
Si dirigevano là tutti i barboni della città, ma anche gli occasionali e chiunque si trovasse in difficoltà per l’assistenza quotidiana, accolti con gioia e serafico orgoglio dai ‘ragazzacci’ che ormai si sentivano un tutt’uno con la struttura. Un pozzo di solidarietà scavato nel cuore dei poveri e nell’umile, spregiudicata opera di propaganda per autofinanziarsi: dalla raccolta dei rifiuti, alla sensibilizzazione dei cittadini che in breve divennero straordinari affluenti di un fiume in piena, quello della solidarietà.
Abbandonate le sicurezze derivanti dagli agi ed il perbenismo, Futura si buttò a capofitto fra il popolo affamato, senza casa, senza vestito, ammalato non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Lazzari.
’Non sogno mai. Penso tanto alle cose del giorno – racconta uno dei primi ad essere accolti da Futura - ma non sogno. Le persone che incontro hanno tutte problemi, momenti di tristezza. Bene o male, siamo tutti tristi, con i nostri guai. Certe volte stiamo zitti, nessuno ha voglia di fare niente. Ecco, quelle volte vuol dire che tutti quanti siamo molto tristi e stiamo pensando ai nostri problemi. 
Spesso incontro vecchi amici, che conoscevo prima di diventare barbone, ma mi scansano, fanno finta di non vedermi. Io ci rimango male, mi accorgo che si impressionano per come mi sono ridotto.
Ci sono stati momenti in cui ho pensato di morire, quando uno è preso dalla disperazione lo fa. Perché vivere nella disperazione è peggio di uccidersi una volta sola.
Ho sofferto tanto perché sono cresciuto senza mamma e quando uno è sfortunato di mamma è sfortunato di tutto, si ha sempre sfortuna nella vita, ci si sente soli, non si è mai felice. Non trovi veri amici, magari tu parli con qualcuno e poi quello parla male di te. Poi, però, penso che forse è peggio morire. Anche di essere povero, di dormire nelle ville comunali. A volte dormivo nella villa nuova, a volte in quella vecchia o sotto i ponti di via Popilia per ripararmi, tutti i cani mi venivano vicino, dormivano con me. Mi sentivo a disagio perché non ero abituato a questa vita. Provavo vergogna quando qualcuno mi osservava, soprattutto quando incontravo amici e parenti. Non ho mai voluto chiedere l’elemosina. Per mangiare chiedevo aiuto alla gente che conoscevo. Mi arrangiavo da solo, facevo qualche lavoretto saltuario, ogni tanto. Sono rimasto sempre qui. Andare altrove mi metteva paura, sarebbe stato anche peggio, perché il povero è uno che è solo, allontanato da tutti. In questi momenti ci si sente un cane randagio. So cosa vuol dire non poter andare dai familiari, essere ignorato quando ci si incontra in mezzo alla strada e fanno finta di non vederti, di non sentire il tuo saluto, ti scansano quando ti incontrano e dentro ti senti male, umiliato e offeso. Questa è anche povertà, soffrire la solitudine quando la gente ti evita e il non sapere dove andare. Fino a quando hai tutto non si capisce. Devi perderle per apprezzarle le cose e chi non ha sofferto non sa cosa significhi. All’improvviso ti trovi in una situazione di disagio e la mente non sa come reagire. Si perdono una dopo l’altra tutte le cose importanti e ti trascuri. Ti cresce la barba perché non sai dove andartela a fare, non ti lavi perché non hai un posto dove farlo, i vestiti diventano sporchi e si lacerano e c’è quello che ti schifa e passa avanti. Io provavo vergogna dentro di me perché non ero stato io a volermi ridurre in quel modo, io volevo essere felice come tutti. La felicità non lo so cos’è. E’ una bella cosa per chi la conosce, ma per me no. Per i sofferenti la felicità non esiste. Cerco di trovarla, ma non c’è più. Mi sono abituato. Chi soffre può essere felice per qualche momento, ma neanche ci pensa, non ci fa caso. Ora che sono qua, spesso sono più felice, magari dura per sempre. Futura, è un bel nome, fa sperare di felicità’’.
Raccolta l’amarezza dei disperati per convertirla in dolcezza dell’anima e del corpo, il 29 maggio 1990, Futura si costituì in Associazione di volontariato, continuando, pur tra mille traversie, ad accogliere bisognosi di ogni tipo ed a sfamarli al grido di ‘’Povertà non è solo assenza di…, ma è gioia di non avere!’’. Ma le difficoltà non tardarono ad arrivare rendendo sempre più faticosa l’opera di quanti si dedicavano all’Associazione tanto che il 21 giugno 1993, entrò in scena il comune di Cosenza per aiutare Futura. Con una Convenzione. Stabiliva che: ‘’A seguito della mancata fornitura delle derrate alimentari, il Comune ha da più tempo sospeso i servizi dell’ex ECA e dell’ex OMNI, e per non far mancare ai cittadini meno abbienti un servizio di alto contenuto sociale quale la somministrazione di pasti, pattuisce, conviene e concede un contributo annuo, affinché si possa offrire un pasto giornaliero (a mezzogiorno) a tutti i poveri che ne abbiano bisogno’’.
Un contributo comunale, quindi, all’Associazione che si era distinta per la sua opera verso i bisognosi e se è vero che i poveri li avremo sempre tra noi, questi arrivavano a flotte, affamati, a volte ammalati, senza avere un posto dove posare il capo, tanto che in breve divenne indispensabile ingrandirsi.
E così, il 7 aprile 1995, Futura si sciolse per dar vita all’Oasi Francescana.

7-2-2017
Francesca Canino

03 febbraio 2017

Il brigante Pietro Corea di Albi

La rivolta dei cafoni:
la storia del brigante Pietro Corea di Albi

di DOMENICO e FRANCESCA CANINO

Pietro Corea di Albi
 da "Il Quotidiano della Calabria", agosto 2013
«Il tempo è mancato e non la volontà». Con queste parole il brigante Pietro Corea confessò i delitti di cui si era macchiato, e che avrebbe ancora voluto compiere, prima di essere mandato al patibolo.
Corea, la sua terribile banda e le violente azioni svolte insieme alla bella amante Rosaria Mancuso erano note in tutta la Calabria post-unitaria. Sembrava inafferrabile poiché, nonostante gli oltre cento delitti commessi, nessuno era mai riuscito a catturarlo.
Pietro Corea era stato sbandato da Garibaldi e ritornato al mestiere di contadino ad Albi, suo paese natio, visse le passioni, l'odio e i sentimenti di vendetta che si erano diffusi tra la popolazione. L'improvvido ordine del General Fanti, Ministro della guerra, che chiamava alle bandiere gli sbandati, eccitò il malcontento e pure l'animo di Corea che, rifugiatosi in campagna, fu per tre anni il terrore del Cosentino e della Calabria media nella sanguinosa 'Rivolta dei cafoni'.
Corea era il capo della 'banda degli Albesi', costituita da Meliti Carmine, Marchese Giuseppe, Bianchi Pietro, Perrelli Pasquale, 'Cirino' Pasquale, Dardano Pasquale e Antonio di Albi - detti rispettivamente “Tabacchera” e “Zaccarella” - e Scavo Giuseppe di Cicala. Avevano dapprima cominciato con le razzie, nel 1861, delle mandrie di Guglielmina e della chiusa di Baracco di Crichi. A dar loro la caccia erano gli squadriglieri di Muraca di Cerva, i Carabinieri, la Guardia Nazionale Mobile, la prima compagnia del 29° Reggimento Fanteria di stanza a Crichi. In seguito erano diventati feroci assassini a causa della povertà e della rabbia provata per il nuovo/vecchio potere costituito e nei confronti di latifondisti, giudici, avvocati. 
Rocco Casalinuovo,
capobanda di Catanzaro

Fedele Strongoli,
capobanda di Mongiana
Favorito dalla natura selvaggia della regione, e dai fedeli manutengoli tra cui il padre, il contadino Francesco Corea, la banda di Pietro, nel maggio del 1865, sequestrò il giudice Savino, il deputato Gallucci e due avvocati che stavano andando in diligenza verso il capoluogo. La fama del bandito, dei suoi complici e delle "gesta" che compiva, sempre accompagnato da Rosaria Mancuso, si diffusero rapidamente.
Ma l’8 dicembre del 1865 fu scovato a Gagliano, in periferia di Catanzaro. Questa la cronaca ripresa dal rapporto dei Carabinieri: “Dopo lunghe indagini e la meticolosa costruzione di una rete di confidenti, il vicebrigadiere Pietro Leone ricevette la soffiata giusta. Alcuni pezzi grossi della banda si nascondevano alla periferia di Gagliano (Catanzaro) dove lui comandava la stazione dei Carabinieri. Leone non perse tempo: con tutti i suoi uomini e con una pattuglia di bersaglieri accerchiò la casa sospetta. Con cautela organizzò l'irruzione nella casa che appariva completamente disabitata. Proprio mentre Leone si apprestava a dare l'ordine di lasciare la casa, il carabiniere Pietro Bonetto scoprì una pietra circolare posata sul pavimento”.
Pietro Gallo,
capobanda di Catanzaro

I Carabinieri si accinsero a spostare la pesantissima pietra. Bonetto fece appena in tempo a smuovere il sasso che una scarica di fucileria lo uccise sul colpo. La botola venne immediatamente circondata, anche se fu subito chiaro che non sarebbe stato facile portare fuori i banditi dal loro rifugio: andare a prenderli era impossibile, estremamente rischioso aspettare una resa per fame. Fu allora che a qualcuno venne l'idea di affumicarli. Si legge ancora dal rapporto: “Fu trovato un sacco di zolfo, gli si diede fuoco e lo si lanciò nella botola. Quando i briganti si videro piombare addosso quella massa ardente e fumigante, tentarono di spegnerla e di resistere. I loro polmoni cominciarono a bruciare, gli occhi a lacrimare, l'aria cominciò a mancare e in pochi minuti furono costretti alla resa”.
Pietro Bianchi di Catanzaro

Uno alla volta, con le mani alzate, risalirono alla luce dove li attendeva un cerchio di armi spianate. Erano soltanto in quattro, ma tutti temutissimi: Antonio Trapasso, Pasquale Dardano, Pietro Corea e, ultima a uscire vestita da uomo, Rosaria Mancuso, la bellissima amante di Corea. Strettamente legati, i quattro vennero tradotti in cella. Quella notte, quando giunse la notizia che a Gagliano era stato catturato il famoso e temuto capobanda Pietro Corea con altri due banditi e la sua druda, nessuno andò a dormire. Un'onda di popolo rigurgitò verso il borgo per vedere l'uomo che aveva seminato il terrore nelle campagne calabresi. Era un'ora di notte quando arrivò il brigante in manette in mezzo a un formidabile apparato di soldati. Centocinque furono i delitti imputatigli. Gli fu chiesto di difendersi dalle accuse, ma imperturbabile rispose: «Signore, fui richiamato al militare; non volli perché avevo giurato di servire il mio Re. Mi decisi perciò a fare il brigante, come lo si deve fare. L'ho fatto, e mi duole solo di essermi mancato il tempo a compierlo come l'avevo desiderato. Io ho fatto quanto mi accusate; ma volevo farne di più. Il tempo è mancato e non la volontà».
Dinanzi alla cinica confessione del giovane uomo di 27 anni, tutti, ma specialmente gli ufficiali, restarono fortemente impressionati. Dopo pochi giorni fu allestito il patibolo nella piazza principale di Catanzaro. Non fu celebrato alcun processo, solo emesso una condanna a morte. Il giovane brigante barbuto avanzò verso la ghigliottina, impassibile anche davanti alla morte, dinanzi alla quale rimase freddo e deciso. Si avviò verso il supplizio a piè fermo e occhi bassi, guardando l'immagine di un santo che qualcuno gli aveva messo nelle mani legate. Indossava un abito di colore verde, orlato di strisce di velluto, trine e laccettini di seta; il giustacore della medesima stoffa era chiuso in mezzo da un ordine di bottoni e terminava con una pancera guarnita da tre fila di piccoli bottoni d'argento a forma di una esse capovolta.
Eduardo Trapasso,
brigante di Catanzaro

Dopo l'esecuzione, le sue mani, la testa e il cuore furono inviati a Firenze, allora capitale del Regno. Bonetto ebbe una medaglia d'argento alla memoria.
Questo fu solo uno degli episodi accaduti durante la terribile repressione piemontese all'indomani dell'Unità d'Italia, che diffuse il terrore nelle popolazioni meridionali. Tutti coloro che avevano un familiare o un parente brigante che si era ribellato all’invasione dei Savoia vivevano nella paura e nella vergogna. Molti contadini che avevano combattuto con Garibaldi per avere la terra furono vilipesi e traditi e fatti passare come briganti.
Con la famigerata legge Pica del 1863 si rese un inferno il Sud, realizzando un genocidio con un milione di morti, mezzo milione di arresti, cinquantaquattro paesi rasi al suolo, azzeramento dell’apparato industriale, saccheggio sistematico di tutte le ricchezze e venti milioni di emigranti in trent’anni, fenomeno inesistente fino al 1860.
E fu così che da briganti diventammo emigranti.

3 febbraio 2017
© Domenico e Francesca Canino