‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

30 novembre 2017

Il creatore di anarchie libero dalle finzioni sociali

da "Il Quotidiano del Sud" del 24 novembre 2017

«COSA vuole l’anarchico? La libertà – la libertà per sé e per gli altri, per l’umanità intera. Vuole essere libero dall’influenza o dalle pressioni delle finzioni sociali».
Sono le parole pronunciate in un colloquio tra un uomo d'affari dall'intelligenza vivida e un perplesso interlocutore che, seduti al tavolo di un ristorante, tra il fumo denso e aromatico di un sigaro, dibattono sulla possibilità di conciliare ricchezza e anarchia senza alcuna contraddizione logica. Creare libertà è davvero l'unico modo per essere veramente anarchico? Su questo interrogativo si dipana la trama de “Il banchiere anarchico”, uno stimolante racconto di Fernando Pessoa, che analizza con grande abilità un tema storicamente “sentito”: l’anarchia.
L’uomo d’affari, un banchiere, attraverso un dialogo quasi platonico, in modo limpido, geniale e semplice, rivela al suo interlocutore che è possibile conciliare ricchezza e anarchia. Pessoa, mediante il suo solito gioco del paradosso e della relatività del tutto, delinea alcuni concetti fondamentali dell'anarchismo. Il banchiere sostiene di essere anarchico, ma l’amico ribatte che uno speculatore, un uomo elegante, abile conversatore, può definirsi tale solo attribuendo al termine ‘anarchico’ un significato diverso dal solito. Nel corso del conversazione, simile per tanti versi ad alcuni dialoghi filosofici, si enunciano una serie di argomenti idonei a dimostrare che la fede anarchica del banchiere è in realtà la stessa ostentata dagli operai e dalle classi sociali più povere. 

Il “Banchiere anarchico” compare per la prima volta nel 1922 sulla rivista ‘Contemporanea’. Il racconto mette subito in evidenza il paradosso sottile rappresentato dalla figura del banchiere ‘libertario’, sullo sfondo di un’epoca caratterizzata da ideologie divergenti, che origineranno drammatici rivolgimenti sociali. E se da un lato il racconto sorprende per l’invenzione narrativa, dall’altro, il gusto del paradosso contraddistingue l’opera pagina dopo pagina. Emerge, infatti, in un crescendo di emozioni, la delusione dell’uomo d’affari - e di Pessoa – nei riguardi delle masse e delle rivoluzioni sociali, mentre aumenta la consapevolezza di considerare il singolo come lo strumento per il raggiungimento della libertà attraverso la realizzazione di sé.

Pessoa non vuole convincerci che la sua strada sia quella giusta, ma vuole invitarci a percorrere tutte le strade e ad essere capaci di non rifiutare un cammino. È una chiara indicazione di vita che ci chiama a lavorare individualmente per una crescita interiore, che ci invita ad aspirare a diventare più completi. Questo è il suo lascito alla società, operato con la capacità analitica che gli è propria, con l’abilità a portare il lettore nel dialogo filosofico-politico dell’anarchismo del banchiere, che arriva a palesarsi come estremo anarchismo individualista, non così distante dal pensiero dello scrittore che afferma: «Quello di creatore di anarchie mi è sempre parso il degno compagno di un intellettuale». 

Cosenza, 30 novembre 2017 
© FRANCESCA CANINO

31 ottobre 2017

Tony ed Eugene Gaudio: da Cosenza all’Oscar

da "Il Quotidiano della Calabria", agosto 2012
Quando nel 2010 fu assegnato l’Oscar per la migliore fotografia al cosentino di Marzi Mauro Fiore per il film “Avatar”, ritornò forte alla mente il ricordo di un altro illustre cittadino bruzio, Tony Gaudio, che era riuscito nell’impresa tanto tempo prima. Ma facciamo un passo indietro negli anni.
A Cosenza, nel 1856, Raffaele Gaudio apre un laboratorio artistico fotografico in piazza San Giovanni Gerosolimitano. Siamo agli albori della fotografia, nata in Francia nel 1849, e tanti sono gli appassionati che vogliono farsi riprendere dal magico obbiettivo. Cosenza è una delle città all'avanguardia nella fotografia, Gaudio è autore di diversi brevetti e perfeziona una buona tecnica di ingrandimenti. Negli anni seguenti, i figli lo aiutano nel laboratorio con grande passione e competenza. La fotografia, dagli ingrandimenti alla planotipia al carbone, diventa l'arte della famiglia, tanto che due dei suoi figli, Antonio ed Eugenio, nati rispettivamente nel 1883 e nel 1886, sono toccati dal sacro fuoco del cinema, allora ai suoi inizi.

Nel 1903, Antonio passa dalla camera fissa alla macchina da presa come operatore di un film muto di produzione francese: “Napoleone attraversa le Alpi”, girato probabilmente in Sila. Ha solo vent'anni e produce a Cosenza altri cortometraggi che sarebbe davvero interessante rivedere. Ma la città dei Bruzi si rivela ben presto una piazza angusta per i due giovani e così, nel 1906, decidono di tentare la fortuna in America, la patria del cinema.
Sbarcano a New York e lavorano per alcune agenzie fotografiche come la Life Photo Film Corporation per poi approdare al cinema. Entrano a far parte della Independent Moving Pictures (IMP), dove Eugenio (che intanto aveva voluto 'americanizzare' il proprio nome in Eugene) diventa supervisore dei laboratori, mentre il fratello Antonio (diventato Tony) è nominato capo fotografo. Nel 1915, Eugene si trasferisce in California e, dai laboratori delle camere oscure, passa alle cineprese come direttore della fotografia dell'Universal. Sono gli anni in cui Hollywood vede la luce e Eugene realizza la più conosciuta delle sue prime opere: “Ventimila leghe sotto i mari”, un adattamento per lo schermo del romanzo di Verne.
E' il primo film della storia ad avere meravigliosi effetti speciali, rigorosamente inventati dall’arte fotografica di Eugene Gaudio. Siamo nel 1916, il premio Oscar non esiste ancora, ma il film riceve numerosi premi per la fotografia. In seguito si trasferisce alla Metro e lavora con May Allison e con una delle dive dell'epoca, l'attrice di origine russa Alla Nazimova. Purtroppo la sua brillante carriera viene stroncata da una peritonite. Eugene muore il 1° agosto 1920, a soli trentaquattro anni.

Parallelamente si svolge, fino a quel momento, la carriera di Tony, che lavora per diversi film e nel 1910 diventa capo fotografo della IMP. Cura film con divi importanti come Mary Pickford e nel 1916 è alla Metro come fotografo. Nel 1920 lavora per la Warner Bros e conosce il palermitano Sol Polito, con cui stringe un sodalizio artistico per scoprire nuove tecniche fotografiche. Insieme creano lo stile fotografico dei grandi "crime movie" della Warner, utilizzando una scelta stilistica che propende per una fotografia spoglia e priva di quella patina "glamour" che caratterizza molti film del tempo. Da direttore della fotografia perfeziona il risultato del technicolor e si impegna a rendere ancora più intrigante l'immagine di Bette Davis sulla pellicola, creando le note immagini di soffuso bianco e nero che si chiudono sul viso della diva e di cui possiamo godere ancora oggi.

Tony introduce altre innovazioni: è il primo cameraman a usare la sequenza di montaggio nel famosissimo film “Il segno di Zorro” del 1920. E' tra i fondatori della 'Società americana di cinematografia', di cui sarà presidente dal 1924 al 1925. Lavora con Frank Borzage che ne apprezza la sensitività alla luce e nel 1926 è direttore della fotografia della grande Greta Garbo nel film “La tentatrice”. Nel 1930 dirige la fotografia de “Il piccolo Cesare” con Edward G. Robinson, un successo del genere gangster, con una fotografia nitida ed efficace.

Nel 1930 arriva la prima candidatura all'Oscar per “Gli Angeli dell'inferno”, diretto dal miliardario Howard Hughes. Due anni più tardi, lavora con Howard Hawks nel film “Tiger Shark”. Finalmente nel 1937 vince l’Oscar per il film “Avorio nero”.

L'anno successivo è il direttore della fotografia di un grande kolossal “Le avventure di Robin Hood”, interpretato da Erroll Flynn, che diventa un successo mondiale. Diventa il fotografo abituale di Bette Davis che ne apprezza il lavoro ed è proprio un film con la diva, “Il conquistatore del Messico” che gli fa conquistare la seconda nomination. Una terza candidatura arriva nel 1941 per “Ombre malesi”, in cui Gaudio illumina la Davis con la luce della luna piena, mentre l'ultima è del 1945 per il film “L'eterna armonia” di Charles Vidor.
Tony Gaudio scompare nel 1951 lasciandoci decine di film, di alcuni fu anche regista. Pioniere del cinema delle origini che, partito dalla Cosenza di fine '800, riesce a conquistare il successo a Hollywood con il suo talento visionario, è l'esempio diretto del genio calabrese nel mondo.



Filmografia

 

The Promise di Jay Hunt (1917)

Pals First di Edwin Carewe (1918)

In Wrong di James Kirkwood (1919)
The Song of Love di Chester M. Franklin e Frances Marion (1923)
Declassée di Robert G. Vignola (1925)
Upstage di Monta Bell (1926)
The Gaucho di F. Richard Jones (1927)
Avorio nero (Anthony Adverse) di Mervyn LeRoy e, non accreditato, Michael Curtiz (1936)
Il conquistatore del Messico di William Dieterle (1939)
Il grande amore (The Old Maid) di Edmund Goulding (1939)
Non siamo soli (We Are Not Alone) di Edmund Goulding (1939)
I fucilieri delle Argonne (The Fighting 69th) di William Keighley (1940)
Trovarsi ancora (Til We Meet Again) di Edmund Goulding (1940)
Il vendicatore (Brother Orchid) di Lloyd Bacon (1940)
Knute Rockne All American di Lloyd Bacon (1940)
Ombre malesi (The Letter) di William Wyler (1940)
Una pallottola per Roy (High Sierra) di Raoul Walsh (1941)
La grande menzogna (The Great Lie) di Edmund Goulding (1941)
Con mia moglie è un'altra cosa (Affectionately Yours) di Lloyd Bacon (1941)
Navy Blues di Lloyd Bacon (1941)
Il signore resta a pranzo (The Man Who Came to Dinner) di William Keighley (1942)
I tre furfanti (Larceny, Inc) di Lloyd Bacon (1942)
Wings for the Eagle di Lloyd Bacon (1942)
Convoglio verso l'ignoto (Action in the North Atlantic) di Lloyd Bacon e, non accreditati, Byron Haskin, Raoul Walsh (1943)
Il fiore che non colsi (The Constant Nymph) di Edmund Goulding (1943)
Le spie (Background to Danger) di Raoul Walsh (1943)
Schiava del male (Experiment Perilous) di Jacques Tourneur (1944)
Al tuo ritorno (I'll Be Seeing You) di William Dieterle e, non accreditato George Cukor (1944)
L'eterna armonia (A Song to Remember) di Charles Vidor (1945)
Il figlio di Robin Hood (The Bandit of Sherwood Forest) di Henry Levin e George Sherman (1946)
Non ti appartengo più (I've Always Loved You) di Frank Borzage (1946)
Questo è il mio uomo (That's My Man) di Frank Borzage (1947)
L'affascinant straniero (Love from a Stranger) di Richard Whorf (1947)


Regista  
Sealed Lips (con il nome Antonio Gaudio) (1925)

The Price of Success (1925)
















Cosenza, 31 ottobre 2017
© DOMENICO E FRANCESCA CANINO

25 ottobre 2017

L’ordine del tempo


da "Il Quotidiano del Sud", 22 settembre 2017
LA NATURA del tempo è per l’uomo forse il mistero più impenetrabile: fili invisibili lo legano agli altri grandi misteri, come l’origine dell’universo, la natura della mente, il destino dei buchi neri. Carlo Rovelli, fisico teorico, autore di diverse opere scientifiche, nel suo ultimo lavoro “L’ordine del tempo” esplora ‘qualcosa’ della fisica che coinvolge chiunque in ogni istante: il tempo. Se nelle equazioni di Newton era sempre presente, oggi, nelle equazioni fondamentali della fisica, il tempo sparisce e con esso scompare anche l’opposizione tra passato e futuro, mentre si dilegua il presente, unico elemento certo.
Il libro, edito da Adelphi, è diviso in tre parti: nella prima l’autore descrive ciò che la fisica moderna ha compreso del tempo, uno studio che si scioglie fra le dita come un fiocco di neve tenuto in una mano mentre lo si osserva. Al tempo si è sempre pensato come a qualcosa di semplice, che scorre uniforme dal passato verso il futuro attraverso gli orologi che lo misurano e nel suo scorrere si realizzano tutti gli avvenimenti dell’universo, passati, presenti e futuri, di cui il passato è conosciuto, il futuro aperto. Tutto questo è risultato falso. Rovelli sostiene che i profili del tempo si sono rivelati delle «approssimazioni, degli abbagli dovuti alla prospettiva come la piattezza della Terra o il girare del sole» e che l’avanzare delle conoscenze ha gradualmente sfaldato la nozione di tempo, ovvero di quel complesso insieme di stratificazioni che lo compongono.  
La seconda parte è la descrizione di ciò che resta dopo la perdita degli strati, un paesaggio vuoto in cui sembra non esserci alcuna traccia di temporalità. Un paesaggio su cui si concentrano gli studi effettuati dall’autore sulla gravità quantistica, nello sforzo di comprendere e dare un senso a questo paesaggio estremo che è il mondo senza tempo.
Nella terza parte Rovelli immagina che nel mondo senza tempo debba esistere qualcosa che origina il tempo che noi conosciamo e che deve affiorare per noi. È il viaggio di ritorno verso il tempo perduto e come bravi detective si va alla ricerca del colpevole che ha generato il tempo.
Con un linguaggio semplice l’autore conduce il lettore fino «al grande oceano notturno e stellato di quello che ancora non sappiamo », cioè fino al punto in cui egli ritiene arrivi l’attuale sapere sul tempo, partendo da antiche conoscenze espresse da Anassimandro ventisei secoli fa. In un frammento degli scritti del filosofo greco si legge che le cose si trasformano l’una nell’altra “secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo”. Parole che ancora oggi risultano arcane, ma che avvalorano l’idea che tutta la fisica sia la scienza di come le cose evolvono secondo l’ordine del tempo. Per noi, esseri nel tempo, il fluire dei secondi, dei minuti, delle ore è la nenia del tempo che ci culla, ci spaventa, passa troppo in fretta e anche le parole appena pronunciate “il tempo nella sua rapina ha già portato via e nulla torna” (Orazio, Odi I, 11).

25 10 17
© FRANCESCA CANINO
  


    

23 ottobre 2017

Cosenza, sete senza fine


L’ennesima e grave crisi idrica che ha colpito Cosenza nelle ultime settimane è stata attribuita alla rete colabrodo e alla eccezionale siccità che ha ridotto ai minimi le sorgenti già nel mese di maggio. C’è da dire che tutta la Calabria ha sete, sintomo questo che il sistema idrico regionale presenta falle in troppi punti, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi. Rimaniamo, però, nella città dei Bruzi e analizziamo la situazione e i provvedimenti, quasi nulli, delle ultime ore.
Imputare alla siccità l’emergenza idrica cittadina è un tentativo grossolano di voler trovare a tutti i costi una causa, seppure poco attinente, al problema. Sono diverse, infatti, le zone di Cosenza in cui l’acqua non manca. A risentire degli effetti della crisi è, come sempre, il centro cittadino, con rubinetti a secco da giorni e serbatoi vuoti. I residenti e i titolari delle attività di ristorazione sono stremati e invocano l’aiuto dei Vigili del fuoco e delle loro autobotti. Si deduce, dunque, che la siccità dovuta alle scarse piogge colpisce solo determinati quartieri. Una tesi paradossale. Per lo stesso motivo, è paradossale individuare nelle perdite sulla rete la mancanza di acqua nelle case, considerato che tutta la rete cittadina è un colabrodo. A secco, peraltro, sono anche i rubinetti delle case che ricadono nel percorso della rete che è stata rifatta ultimamente, cioè nel tratto che inizia da piazza Riforma e termina a via Zara.
Il problema è, dunque, più complesso: PARE, infatti, che la causa della grande sete sia da addebitare a delle manovre errate fatte su alcune tubature che servono il centro città. Pare anche che l’intervento sia stato piuttosto rovinoso e che un eventuale ripristino della precedente situazione richieda tempi non proprio brevi.
L’amministrazione comunale ha fatto sapere, un paio di giorni fa, che sarà messo in funzione un serbatoio situato in località Cozzo Muoio e che si procederà alla verifica della potabilità dell’acqua di due pozzi in località Colle Mussano. Si tratta di serbatoi comunali realizzati diversi anni fa, che, da quanto si è appreso, pare fossero fuori uso. Non si è a conoscenza dei motivi per cui solo ora è stata presa in considerazione la possibilità di attingere l’oro bianco dai suddetti pozzi, dopo, cioè, che la città ha trascorso la sua più torrida estate senza acqua e, soprattutto, dopo la gravissima crisi idrica che Cosenza ha vissuto nello scorso mese di gennaio, quando tra Sorical e il comune c’è stato un rimpallo di responsabilità durato per molte settimane. Sarebbe bastato poter usufruire già da allora dei pozzi in questione e assicurare ai cittadini la giusta razione di acqua giornaliera, evitando penurie dannose per i commercianti e disagi per i residenti.  

23 10 2017
©Francesca Canino 


22 settembre 2017

150 anni di giornalismo in Calabria


  

da Il Quotidiano della Calabria, marzo 2012
“IN FATTO di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico. Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio, professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”. È  l’editoriale del primo numero di 'Cronaca di Calabria' (3 gennaio 1895) e il direttore, Luigi Caputo, spiegava così le ragioni che lo spinsero a fondarla. La Cronaca ebbe un ruolo rilevante nel panorama della stampa calabrese post-unitaria, un mare magnum di pubblicazioni preziose e indispensabili, ausiliarie del processo innovatore da poco iniziato.

Oltre 400 periodici risorgimentali furono esposti nella “Mostra della stampa periodica calabrese”, allestita nella Biblioteca Civica di Cosenza nel settembre del 1954, in occasione del “I Congresso storico della Calabria”. Da 'Il Giornale dell'Intendenza della Calabria Citeriore' di Matteo Galdi, alla rara 'Strenna pel Capodanno del 1837' pubblicata a Catanzaro, a 'Il Calabrese' che riuscì a sopravvivere ai moti cosentini del 1844, i giornali testimoniano il fervore della vita intellettuale nella regione che annoverava, tra gli autorevoli giornalisti, figure del calibro di Vincenzo Padula, Domenico Mauro, Bonaventura Zumbini, Pasquale Rossi e tanti altri.

Un numero esagerato di periodici se si considera l'analfabetismo del tempo, ma, di contro, adeguato alla 'intellighenzia' calabrese, desiderosa di conoscenza e partecipe della vita politica in ragione della loro natura ribelle. Molti di questi storici giornali sono ancora custoditi nelle Biblioteche calabresi, ma il cospicuo patrimonio richiede, oggi, una tutela maggiore affinché non si disperda la cronaca del passato. Fatti e firme considerevoli rivivono quando si sfogliano le vecchie pubblicazioni che proiettano il lettore nella storia più recente della propria terra.
Nelle Biblioteche e negli Archivi regionali sono disponibili una parte dei giornali risalenti al periodo 1811-1870, epoca in cui la stampa calabrese, rispecchiando latenti energie e aspirazioni risorgimentali, era l'espressione della politica e della vita quotidiana. Nonostante sembrasse limitata alla sfera locale, si inserì ideologicamente nel vasto campo delle rivendicazioni nazionali.

A Cosenza, solo tra il 1860 e il 1916, si contano 230 pubblicazioni, tra cui periodici letterari, storici, pedagogici e alcuni a sostegno di posizioni elettorali o ecclesiastiche. L'arrivo di Garibaldi nell'agosto del 1860, oltre a liberare il Sud dai Borboni, conferì alla stampa una nuova funzione: tra il 1860 e il 1870, infatti, i giornali locali espressero tutto l'impegno del popolo meridionale che stava entrando a piccoli passi nell'agone politico unitario.
Nel 1870, ormai terminate le aspirazioni risorgimentali, erano sorte nuove situazioni sociali, finanziarie, industriali e commerciali che la stampa proponeva a tutto il paese. In questo periodo videro la luce anche i giornali umoristici e quelli a sfondo satirico come 'Il Microscopio', 'Le Facce toste' o ‘La Zanzara di Vibo Valentia. Con una diversa valutazione dei fatti e dei protagonisti della vita pubblica italiana, i giornali satirici attiravano l'attenzione con l'uso della satira, del frizzo mordace, della barzelletta. Il risultato era la risata del lettore e nel contempo la riflessione verso i fatti e le persone che stavano progettando il futuro. 


Tra i numerosi periodici custoditi nella Biblioteca Civica di Cosenza, non passa inosservato 'L'Avanguardia' del 1876, diretto da Domenico Bianchi, che durante la sua lunga vita condusse diverse battaglie per l'abolizione della tassa sul macinato e per il mancato sussidio governativo alle popolazioni danneggiate dal terremoto del 1887, chiamando in causa i responsabili. Il giornale sostenne anche la richiesta dell'acquedotto sul Crati per la città, chiedendo la concessione dei laghi silani.
Gli ultimi lustri dell'800 furono contrassegnati dai primi problemi cui dovette far fronte il Governo italiano. Scorrendo le pagine dei periodici ci si imbatte in notizie o lotte intraprese per la risoluzione di questioni generate o aggravate dall'Unità. I cronisti descrissero minuziosamente le condizioni dei contadini che chiedevano le quotizzazioni dei quarti silani, mentre si levava un forte grido di indignazione per ''l'esorbitante incrudelire del fisco''. La pressione fiscale costituiva uno dei motivi conduttori della stampa del tempo, accanto a notizie raccapriccianti di altro genere riportati insieme a parole di condanne. In particolare, una notizia fece tanto scalpore: l'assassinio di un operaio (ottobre 1897) arrestato per l'attentato Acciarito: “Il povero Frezzi soccombette nelle carceri della questura a terribili battiture soministrategli dalle guardie di polizia. Il suicidio Frezzi fu simulato buttando gli assassini il corpo dall'alto, quando era già cadavere o boccheggiante. Sotto i Borboni e l'Austria la polizia non giunse mai a simile efferatezza''. Un anno dopo i veri responsabili furono individuati nei clericali.


Tra i maggiori periodici si annoverano il Bruzio, diretto da Padula dal 1864, il Calabrese, bisettimanale diretto da Vitari, Conflenti e Accattatis, il Monitore Bruzio, giornale ufficiale della Calabria Citeriore e Cronaca di Calabria, gazzetta bisettimanale delle tre province calabresi. Il primo pose al centro la questione della Sila, ma vi trovarono spazio anche veri e propri saggi, poesie, racconti e una disamina sui problemi della regione, dalla discussione delle condizioni delle carceri all'analisi di alcune categorie parassitarie (Gl'impiegati al cospetto di Cosenza). Padula compì un'analisi sulla situazionme economica del Meridione, sulle industrie, sui terreni comunali, sulle quotizzazioni e le usurpazioni. Vasta eco ebbe la risposta a una lettera sul Bruzio inviata dal brigante Pietro Bianco, a cui Padula offrì aiuto. Per questo motivo fu a lungo attaccato dal Corriere di Calabria che lo accusò “di fare la invereconda apologia di un brigante”.



Il Calabrese uscì per una arco di circa quarant'anni, subendo tre lunghe interruzioni. Dal gennaio 1861 riprese le pubblicazioni accennando ai movimenti contadini e descrivendo la situazione del brigantaggio. Vi trovarono spazio gli scritti di Bonaventura Zumbini, Francesco Martire, Ferdinando Campagna. Nata come rivista erudita di epigrafia, storia, traduzione dei classici e critica letteraria, verso la fine cercò di soddisfare anche esigenze scientifico-letterarie e informative. Di diverso genere le pubblicazioni in linea con la Sinistra meridionale, che appoggiarono Luigi Miceli nella sua campagna elettorale e si impegnarono per scagionarlo dalle accuse di essere coinvolto nello scandalo della Banca Romana. Ripresero le pubblicazioni de 'La Fata Morgana' di Reggio, del 'Corriere di Calabria' diretto da Francesco Martire e de 'La Libertà' di B. Zumbini.



Nel 1885 nacque a Cosenza 'Cronaca di Calabria'. Da corso Telesio, sede della redazione, il fondatore e direttore Luigi Caputo pose sempre in primo piano i diritti e gli interessi dei calabresi. Con regolarità raccontò la vita sociale, politica, economica e religiosa delle tre province, riservando uno spazio marginale alle notizie dei corrispondenti da Roma e Napoli. Riconobbe le pesanti responsabilità del Nord Italia per gli alti profitti dei suoi industriali ai danni degli agricoltori del Sud; denunciò lo stato di abbandono in cui versavano le regioni meridionali, attribuendone le gravose responsabilità agli ‘’alti papaveri della burocrazia settentrionale’’, ben sistemati nella direzione degli affari nei diversi Ministeri (1915); espresse, inoltre, disaccordo sull’impresa africana, affermando che l’esercito nazionale doveva difendere i confini della patria e la sua indipendenza e che il denaro del paese doveva servire ai bisogni, al progresso. Nel settembre del 1943, la ‘Cronaca’ interruppe le pubblicazioni per poi riprenderle nel 1952. Inossidabile, la gazzetta calabrese giunse fino al 1963: la guerra faceva parte ormai del passato, il presente era una società segnata dal boom economico che generava nuove situazioni di disagio. Le pubblicazioni proseguirono, seppure irregolarmente, fino al 1977, anno che segnò la chiusura definitiva di una storica voce calabrese.


Numerosi furono i giornali che già dal primo numero resero evidente la loro principale preoccupazione. Nel caso di 'Azione radicale' del 1908, il bersaglio della redazione fu la sempre più invadente presenza dei cattolici nella vita locale, entrati anche nei consigli comunali. Dilagava l'anticlericalismo e la propaganda ai diversi candidati politici, senza esclusione di commenti diretti a denigrare o, al contrario, ad esaltare il politico per il quale spesso un giornale vedeva la luce, per spegnersi subito dopo le consultazioni elettorali. Cronaca e denunce a carattere municipale, dunque, sulle pagine dei giornali calabresi, ma anche cronaca letteraria, recensioni, lotta all'analfabetismo, vita paesana, denuncia della carenze idriche a Cosenza e delle condizioni dei lavoratori. Spesso ci si occupava dei contadini della Sila, ma fra gli avvenimenti che in quegli anni destarono maggiore indignazione ci fu l'eccidio di Firmo: “In seguito ad alcune manifestazioni di protesta avvenute a Firmo, causate dal difetto di raccolto, dal disagio della classe lavoratrice impossibilitata al pagamento delle imposte, Firmo protestò contro la Fondiaria e la forza pubblica sparò sulla folla. Le autorità, organizzate nella mistificazione del vero e in difesa del delitto si affannarono a gridare che i Carabinieri furono assaliti dalla folla e costretti a sparare”. Siamo nella lunga età giolittiana che a Cosenza favorì la nascita di nuove pubblicazioni per dibattere, con frequenza regolare, la questione meridionale, il problema dell'emigrazione, della disoccupazione, dei terremoti e della malaria. Tra la girandola di notizie colpisce la situazione creatasi nell'ospedale di Cosenza, nel quale, come riportò 'L'azione democratica' (1914), fu criticato l'operato dell'amministrazione per la tolleranza alle lunghe assenze del direttore Migliori e fu difeso, invece, il corpo sanitario.


Nacque in questo periodo il 'Corriere di Calabria', soppresso quando il regime fascista lo definì 'pericolosamente liberale', dando inizio alla stampa di regime di cui la Calabria non fu immune. Periodici come 'Il Popolo di Calabria', 'Il Fascio' e 'Milizia fascista' furono, insieme a tutta la stampa italiana del Ventennio, la più potente e persuasiva fabbrica di consenso del regime fascista.  
Con lo sbarco degli Alleati a Reggio, Carlo La Cava, un intraprendente comunista, fondò il quotidiano 'Calabria libera', mentre 'Il Corriere di Calabria' riprendeva le pubblicazioni. Nel 1944 furono chiusi tutti i quotidiani di partito e aperto 'Il Tempo', ma solo nei primi mesi del '45 si aprì uno spiraglio per la stampa con la nascita di alcuni settimanali comunisti: 'Ordine proletario' a Cosenza e 'Il Lavoratore' a Reggio.
Negli anni '50 la Calabria passò da cinque quotidiani al solo 'La Voce di Calabria' per effetto di una crisi che si riacutizzò nella prima metà degli anni '70. Il 15 settembre del 1951 fu fondata a Messina la 'Gazzetta del Sud' che subito conquistò i lettori calabresi spodestando i quotidiani napoletani e romani diffusi nella regione.


Alla fine degli anni '70 il ruolo della stampa fu rivalutato e i giornali divennero il mezzo con cui la politica poteva comunicare con l'opinione pubblica. Sorsero in questo periodo, tra gli altri, 'Il Giornale di Calabria' e più tardi 'Oggisud', un tabloid di cronaca cittadina per ogni città capoluogo. Nell'ultimo decennio del '900 videro la luce 'Il Quotidiano della Calabria', 'Il Domani', 'La Provincia cosentina' e alcune testate sportive.



Oggi, a 150 anni dall'Unità d'Italia, il numero dei giornali calabresi è di gran lunga diminuito. Si risente della crisi che sembra colpire ciclicamente le pubblicazioni. Le notizie, non più stampate clandestinamente né gridate dagli strilloni per le strade, sono virtualmente 'strillate' sul web, la grande redazione-edicola universale e gratuita. Un recente fenomeno che sta subentrando alla carta stampata, creando una rivoluzione nel mondo dell'informazione alla pari di quella avvenuta con l'invenzione di Gutenberg.


22 9 2017


© FRANCESCA CANINO