‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

22 novembre 2015

Luna Nuova





«Amame, bella mia, si me vo amari» andava ripetendo fra sé e sé Peppino dal momento in cui era arrivato al posto di lavoro quella mattina. Sembrava un disco incantato che, con una frequenza regolare, anzi regolarissima, diffondeva nell’aria il ritornello di una bella canzone. Verso sera, quando si riponevano gli arnesi e già si pregustava il momento del riposo, i colleghi-amici di Peppino, o meglio i cumpagni, come erano detti da queste parti, stanchi per la giornata di lavoro sotto il sole cocente, sbottarono in un «E mo’ basta!».
«Non potete capire – replicò Peppino – lo devo dire per tredici giorni e per tredici notti, sette volte la mattina e sette dopo pranzo. Nella notte, nove volte lo ripeto a piedi nudi davanti alla luna. A Natale mi voglio maritare».
I cumpagni, sbigottiti, rimasero attoniti per qualche minuto, incapaci di pronunciare anche una sola parola. Si guardarono tra di loro e non appena compresero la “faccenda” mancò poco che lo prendessero a botte. Goliardicamente, s’intende! Le parole di Peppino suscitarono risate e commenti ironici da parte degli amici, che in breve lo accerchiarono per la solita pacca amicale sulla spalla, un modo di manifestare il consenso per la soluzione scelta. Non era un segreto l’amore di Peppino per Giulia, la bella figlia del farmacista, che non solo non ricambiava i sentimenti, ma aveva troppi grilli per la testa. Dopo un primo momento di euforia, seguì quello della presa di coscienza di tutta la “faccenda”.
“E’ una cosa complicata – sentenziò il più anziano dei cumpagni – la signorina Giulia è diversa da noi, troppo raffinata, troppo istruita, troppo spregiudicata. E’ cittadina lei. Lasciala perdere, non è per te, prenditi mia cognata che è “dei paesi tuoi” e sarà una moglie come serve a te. Così non resterà zitella e non peserà sulle mie spalle. Prenderemmo due piccioni con una fava: tu ti mariti, che ne hai bisogno, ed io mi libero. Di questo anch’io ne ho bisogno, i braccianti come me, come noi, a malapena riescono ad andare avanti. Meno si è in famiglia, più si mangia! Fai così e saremo compari per sempre”. “Voglio Giulia e la avrò. Se mi vuole, meglio per lei, se non mi vuole, mi vorrà!”.
Andò via dai campi, lasciando gli amici dietro di sé. Il sole non bruciava più, era piacevole ora camminare lentamente e pensare a lei, a Giulia, la più bella del paese, la più ammirata, la più chiacchierata. Era diversa dalle altre, forse perché il padre le aveva permesso di andare in città a studiare. Era diventata maestra, aveva assunto i modi cittadini e anche la mentalità. Ora la guardavano con diffidenza e non faceva vita sociale in paese. Non si può dire che fosse stata proprio emarginata, perché sempre la figlia del farmacista era, ma si era progressivamente autoesclusa dalla sua società. D’altronde, che cosa poteva accomunare una signorina di città con la gente del paese che aveva sempre vissuto, ed ancora continuava a farlo, nella convinzione che il mondo fosse solo il loro paese? Anche Peppino si era persuaso di ciò, nonostante fosse giovane, ed aveva impostato la sua vita come quella di suo padre e di suo nonno. Non era curioso, non aveva ambizioni, a parte sposare Giulia.

Amame bella mia si me vo amari, sinnò ti fazzu amari ccu maijia – ripeteva Peppino – e sabato, alla festa ci fidanzeremo. Così deve essere”. Già, la festa di San Giovanni, patrono del paese, ricorrenza in cui gli innamorati si dichiaravano i propri sentimenti e ne facevano partecipi anche le famiglie per poi sposarsi di lì a poco. Peppino aveva i soldi da parte per fare il grande passo, aveva lavorato per questo da quando aveva terminato i suoi studi: licenza elementare. Era qui che aveva conosciuto Giulia e se ne era innamorato subito.
L’amore di Peppino era rimasto saldo nonostante i cambiamenti  dell’adolescenza e i momenti difficili della prima gioventù. Nemmeno la differenza di ceto gli era mai sembrata un ostacolo, era sicuro che Giulia sarebbe diventata sua moglie. Ora più che mai.
“Bella, bella mia, chissà che stai facendo adesso?” pensò Peppino passando sotto la casa dell’amata che era sempre stata indifferente agli sguardi e ai saluti di lui. In paese tutti erano a conoscenza di questo amore unilaterale, ma era meglio così, lei non meritava un bravo ragazzo come Peppino, uno di loro, mentre Giulia era diversa, criticata e mal tollerata. E poi, da quando era tornata in paese indossando una gonna più corta del normale, nessuno le rivolgeva la parola. Malgrado dalla città arrivassero gli echi di una società che stava mutando radicalmente, i paesani non se ne curavano più di tanto e mostravano diffidenza verso ogni modernità, giudicavano male tutte le cose nuove che i giovani cittadini conquistavano giorno dopo giorno. Dalla radio si apprendeva quotidianamente quanto succedeva in diverse università italiane, degli scontri tra i “giovinastri” capelloni e le malefemmine in minigonne che si permettevano di ribellarsi ai genitori, ai professori, ai preti e perfino alla polizia! Era una situazione blasfema, da condannare e da combattere affinché non prendesse il sopravvento e i giorni scorressero sempre uguali, senza cambiamenti che avrebbero minato uno stile di vita ormai consolidato da secoli.

Giulia, con la sua minigonna, non era altro che una malafemmina, tornata dalla città cambiata in peggio, come dicevano gli anziani del muretto, quelli cioè che ad una certa ora del giorno solevano sedersi su un muretto prospiciente la chiesa per passare il tempo. Sempre allo stesso modo: parlare degli altri, mai positivamente. Adesso era la volta di Giulia, delle sue stranezze di ragazza moderna, dei dispiaceri che dava alla madre, donna integerrima e caritatevole, una rosa da cui era nata una spina. Peppino era al corrente della cattiva fama di Giulia, ma non gliene importava poi tanto, convinto com’era che il matrimonio con una persona seria come lui avrebbe riabilitato Giulia agli occhi di tutti. Un matrimonio riparatore della cattiva reputazione della giovane e che avrebbe reso felice Peppino, così innamorato da non comprendere di essere senza speranze. Una persona semplice come lui, senza cultura, senza fantasia, non si poneva troppe domande, lavorava sodo e questo gli bastava. Non andava quasi mai in città per non perdere tempo, il suo mondo era il paesello circondato da campi e boschetti oltre i quali, da poco, era stata asfaltata la strada che portava in città, subito battezzata dai paesani come “via nova”. Ecco, Peppino non si spingeva  nemmeno fino alla via nova per non sentirsi troppo distante dal suo mondo o più vicino alla città dove viveva gente diversa, moderna. Però fino ai boschetti andavo spesso a fare legna e non solo, andava anche a trovare cummari Milia, una donna sempre disponibile ad aiutare chiunque, medico, farmacista e maestra nello stesso tempo. Una magara. Era tenuta in gran considerazione dalla gente del paese per la capacità di diagnosticare le patologie più disparate che a turno colpivano i paesani, per gli unguenti e le polverine che preparava a seconda del caso, per i consigli e le relative parcelle non proprio popolari che esigeva dai suoi clienti. D’altro canto, una cifra modesta avrebbe svilito la sua arte, ma si accontentava anche di pagamenti in natura. Fu felice di aiutare Peppino insegnandogli una formula magica che lo avrebbe di sicuro portato all’altare con Giulia. Però doveva seguire con precisione le regole perché le formule magiche sono cose serie, “riti scientifici”, usava dire la cummari, quasi a voler combinare religione e scienza, non conoscendo in effetti né l’una, né l’altra. Ma di scienza si parlava spesso nell’ultimo periodo e Milia aveva pensato di adeguarsi a tempi. Così consegnò a Peppino una formula antica da recitare giorno e notte e si raccomandò di essere informata sugli sviluppi. Non volle denaro da lui, perché diceva che quando si può fare un’opera buona non bisogna esitare. In realtà, solo i bei giovani usufruivano del suo principio filantropico!

Peppino prese alla lettera i consigli della magara perché il giorno di San Giovanni era vicino e doveva fidanzarsi. Pensava alla reazione che avrebbero avuto i suoi paesani nell’apprendere la notizia del suo fidanzamento con Giulia, sicuramente sarebbe stato invidiato dai suoi amici e la ‘mmidia' non era cosa buona.
Erano ormai dieci giorni che seguiva la “cura” della cummari, si sentiva vincente e sempre innamorato. Adesso che si trovava sotto la casa di Giulia pensava a cosa avrebbe dovuto dirle la sera della festa, come avrebbe dovuto dichiararle il suo amore visto che non parlavano dalla fine della scuola!
“Sarà il Santo ad aiutarmi, qui è in gioco la formazione di una nuova famiglia!” pensò Peppino e sicuro di ciò se ne tornò a casa. Il mattino seguente, dopo un’altra notte quasi insonne sia per i pensieri d’amore, sia per la formula da recitare nove volte nell’arco della nottata, accusava una certa stanchezza, subito notata dai cumpagni che come al solito iniziarono a prenderlo in giro. L’ironia si sprecava nell’intento di far “scoppiare” l’innamorato, ma Peppino aveva altro a cui pensare.
“Avete sentito che cosa è successo stanotte alla ferrovia di Reggio Calabria?” disse uno di loro. “Ma che ne dobbiamo sapere noi di queste cose? – disse Peppino – Noi siamo braccianti agricoli e basta. Basta!”.

Una strana reazione alla quale seguì un lungo silenzio quasi fino al termine della giornata. Era tormentato dall’indifferenza di Giulia, dai suoi atteggiamenti di ribelle e di ragazza poco seria, a volte aveva paura di non riuscire a realizzare il suo sogno anche se ripeteva la formula alla perfezione. Quella notte non riuscì a riposare, nove volte si alzò per il rito magico da compiere dinanzi alla luna, ma c’erano le nuvole nel cielo che la coprivano e Peppino pensò che fosse un segno nefasto. “Pigliu nu dente de nu niuru cane, n’uossu de muortu chi pagano sia: pigliu na fune de sette campane, na carta scritta de la Sacristia”. 
Si alzò definitivamente prima delle cinque e uscì di casa, attese il giorno, ma non andò nei campi. Aspettò che Giulia uscisse di casa, come ogni mattina e le si avvicinò chiedendole di accompagnarla ovunque stesse andando. Non le diede modo di rispondere che iniziò a parlarle dei suoi sentimenti, del suo dolore per l’indifferenza che gli aveva mostrato. Non riusciva a fermarsi, parlava di tutto ormai, di tutto quello che avrebbe voluto dirle in quegli anni, di come si sentiva ad amare una donna diversa dalle altre, bella e lontana come una stella, un amore che aumentava a dispetto delle malelingue e della differenza sociale. L’avrebbe amata perché ormai era legato a lei da qualcosa di più forte finanche dell’amore stesso. Giulia non si sentiva affatto gratificata dalle parole di Peppino, ma non glielo diede ad intendere, anzi cercava una scusa per sfuggire a quell’amore senza sofferenze per nessuno. Disse che il suo futuro non sarebbe stato al paese, bensì in una grande città del nord d’Italia, dove avrebbe avuto la possibilità di insegnare e di vivere a modo suo. La decisione era stata presa e lui, Peppino, si sarebbe dovuto rassegnare. Invece si sentì invadere dalla rabbia, divenne livido e desideroso di farle provare il male che lei aveva fatto a lui, anzi di più, voleva che tutto il male del mondo lacerasse il suo corpo e la sua anima, imprecava, si batteva il volto con le mani e gridava il suo dolore a voce alta. “A mmenzannotte te fazzu chiamari de Satanassu, ch’è ‘ncommannu a mia, ed a nna cava te fazzu purtari, de notte scura chi lustru nun sia”.

Giulia fuggì via, decise di evitarlo fino al momento della sua partenza per la grande città, si chiuse in casa spaventata per la reazione violenta di Peppino. Solo il giorno della festa uscì e seguì la processione per la via del paese. Sembrava lontano Peppino e Giulia partecipò con piacere ai festeggiamenti. “Un Santo patrono è un Santo patrono, non si può far finta di niente”, pensò fra sé.
Alle nove di sera si diede inizio allo spettacolo dei fuochi d’artificio, forse la parte più magica di una festa popolare e Giulia si appartò per goderseli in pace. Alzò lo sguardo al cielo senza stelle e senza luna, troppe nuvole negli ultimi giorni. Presto i fuochi lo avrebbero ravvivato portando luce e colore negli occhi e nei cuori. Un pensiero interrotto da un movimento fulmineo: Giulia si sentì improvvisamente tirare per la gonna corta, cadde a terra e venne trascinata lontana dalla folla. Nessuno se ne accorse, intenti com’erano ad ammirare i fuochi, nemmeno le sue grida furono udite a causa del fragore degli scoppi. Si accorse che era Peppino ad averla portata lontana dalla gente, in aperta campagna e a spingerla ancora con violenza. Aveva il viso stravolto e biascicava strane parole, incomprensibili, che la facevano rabbrividire. Peppino la condusse in prossimità di un precipizio che delimitava il boschetto e Giulia, in un momento di fredda lucidità, comprese le sue intenzioni e alcune delle parole che pronunciava: “Ed a nna cava te fazzu purtari de notte scura chi lustru nun sia”.

Era tutto inequivocabile, ma Giulia non ebbe il tempo per pensare ad altro perché venne scaraventata con rabbia nel burrone. Il rito doveva essere rispettato. 
Peppino vagò nella notte, pazzo di dolore, prendendosela con la luna che non c'era e negava il suo aiuto agli uomini. Le gridava di uscire dai suoi nascondigli e di aiutarlo. Nessuno lo vide più, ma in paese dicevano di sentire le sue grida in tutte le notti di luna nuova.

22-11-15
©Francesca Canino 

05 novembre 2015

Sguardi a Sud

Donnici, bel suol d’amor

da "Il Quotidiano della Calabria", settembre 2008

CIUFFI di papaveri affiancano il nero asfalto a Sud della città. E’ l’antica strada Consolare che attraverso verdi declivi giunge all’originaria rocca dei Brettii. Qui, negli antichi Campi Dominici, terreni demaniali amministrati dal governatore romano, si rifugiavano i cosentini per sfuggire alle incursioni straniere, formando uno dei Casali più vicini a Cosenza: Donnici. Ea nche uno dei più suggestivi, visto che sorge tra creste e burroni, in un territorio per natura franoso, ricco in passato di acque sulfuree, di mulini a cilindri e case di villeggiatura estiva per i ricchi della città.
Nel 1899, il sindaco Salfi vi inaugurò l’acquedotto del Crati, detto dello Zumpo, che portò ai due Donnici (Superiore ed Inferiore), tre litri al secondo di acqua potabile. Più volte distrutto da forti terremoti che costarono uomini, caseggiati e l’aggregazione al comune di Cosenza nel 1856 (due anni dopo il rovinoso sisma che sconvolse la città), la sua popolazione si è sempre aggirata intorno ai 1300 abitanti. Non gradita da tutti, l’aggregazione si rivelò in breve poco fruttuosa per il disinteresse dell’amministrazione comunale del tempo che le riservò sempre un trattamento marginale, nonostante le risorse del suolo. Già agli inizi del ‘900, era fiorente l’industria dei fichi, del vino, dell’olio, della pasta e una fabbrica di liquori che, con la sua premiata specialità denominata ‘Amaro tonico silano’, sosteneva una distilleria e una raffineria di alcool. Attività produttive, si direbbe oggi, compiute grazie alla fertilità della terra e alla forza delle volenterose braccia dei contadini che non disdegnavano il lavoro pesante e lo difendevano con la fantasia tipica di chi ha pochi mezzi e tanto bisogno. Proprio dalla necessità di proteggere i raccolti in un tempo senza tecnologie, comparirono a Donnici le zucche di Halloween. Non per importazione, solo una pratica rudimentale per tenere lontano i malintenzionati e i predatori notturni dai prodotti ricavati dalla terra. Sembra, infatti, che i contadini del luogo usassero sistemare alcune zucche scavate, con una fonte luminosa all’interno, vicino ai raccolti, in modo da impaurire e allontanare ladruncoli e bestie. Spesso ogni sforzo risultava vano quando si dovevano fronteggiare i capricci del tempo: gli anziani del posto raccontano che molti anni fa, pur non essendo ancora in un periodo dal clima pazzo come oggi, si verificò una nevicata dopo la trebbiatura, cioè a giugno inoltrato, che meravigliò gli abitanti, ma non più di tanto, presi com’erano dalle mille fatiche giornaliere e non ancora tartassati dal ‘bla bla’ mediatico che amplifica ogni evento.

Donnici era ed è un’icona bucolica, dove le grandi famiglie rappresentano le indiscusse protagoniste di un modus vivendi imperniato sui legami familiari e sulla cordialità verso gli ‘stranieri’, destinatari della genuina ospitalità di un popolo estroverso, quello dalla ‘elle’ pronunciata dolce, a guisa di ‘doppia vu’. Non a caso dal 1980, Donnici accoglie in autunno migliaia di persone dai dintorni, per la Sagra dell’uva, festa popolare in grado di coinvolgere il circondario, sebbene sia nata con scopi diversi. E già, perché questa è anche la terra di Bacco, ricca di antichi vitigni che danno il rosso ‘cerasuolo’, riconosciuto vino Doc dal ’71. Ma la scarsezza della produzione e la mancanza di capacità manageriali e di spirito di cooperazione, hanno impedito il decollo di questo importante comparto dell’economia donnicese. In questo contesto, la funzione della Sagra si è discostata, negli anni scorsi, dall’originario disegno che la indicava come momento propulsore per il reparto vinicolo e occasione propositiva per lanciare il prodotto su larga scala. Oggi qualcosa è cambiato, la mancanza, però, di uno sforzo comune in tutto il settore agricolo ha causato l’abbandono delle terre, intensamente coltivate in passato tanto da rifornire la città di prodotti ortofrutticoli, vista la fertilità dei luoghi ancora oggi ‘invasi’ dalla superba macchia mediterranea.

Preservata negli anni ’70 dal Piano Regolatore Vittorini, che destinò il Sud della città a zone agricole, ciò aprì ben presto un dibattito politico che avrebbe segnato il futuro dell’area urbana. Sembra che proprio in quegli anni, svariati interessi politici ed economici spingessero la DC a proporre uno sviluppo urbanistico a Sud, fortemente osteggiato dalla Sinistra (socialisti e comunisti), contraria alla costruzione edilizia in queste zone, destinate a rimanere agricole. Intanto, le trasformazioni sociali impoverivano l’agricoltura e la mancanza di un progetto complessivo da parte delle Istituzioni ne impediva il rilancio. In questo quadro, che vedeva opposti lo sviluppo edilizio alla conservazione non si realizzò il passaggio tra le due parti, probabilmente perché i risultati politici non sarebbero stati immediati. Le conseguenze sono tuttora visibili: oltre all’emigrazione dei giovani verso i paesi viciniori alla ricerca della casa in cui vivere, non si è realizzato lo sviluppo agricolo, nonostante le diverse risorse e il riconoscimento del vino Doc.


Oggi si auspica un progetto di recupero per le attività agricole, a sostegno di iniziative quali l’agricoltura biologica o lo sfruttamento in termini industriali delle acque dello Zumpo, tra le migliori d’Europa. La contrada dalle venti contrade, e oltre (di tanti borghi è, infatti, formata), offre anche un paesaggio ‘verde’ che alcuni del posto vorrebbero utilizzare come richiamo turistico mediante la realizzazione di un agriturismo. Tali progetti, insieme ad una forte cooperazione, potrebbero costituire le basi per uno sviluppo non ordinario, invece le zone a Sud rimangono abbandonate a se stesse e tirate fuori dai media e dagli amministratori per fantomatiche opere colossali che distolgono l’attenzione dalle reali emergenze. Sarebbe necessario un piano ad hoc per le frazioni che non riguardi esclusivamente l’edilizia, ma che sia in grado di sviluppare le risorse naturali e umane presenti in questi luoghi, non una propaggine della città, ma un’alternativa ad essa, fondata sulla propria secolare identità.
Domenico Bisceglia

Dalle fonti storiche si apprende che il cittadino più celebre di Donnici fu Domenico Bisceglia, avvocato, nato nel 1756, incarcerato nel 1794 per aver sostenuto le ragioni dei Casali cosentini sui territori della Sila. Sospetto ai Borboni per le sue idee repubblicane, fu arrestato a Cosenza e incarcerato a Napoli dove, nel 1799, divenne uno dei principali esponenti della Repubblica Partenopea. Caduti i Borboni, fu deputato del popolo ed esercitò le funzioni di Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Restaurato il governo borbonico, alla caduta della Repubblica Partenopea, fu perseguitato e morì sul patibolo in piazza del Mercato a Napoli, il 28 novembre 1799. 

Il culto di San Michele

La leggenda vuole che secoli addietro, mentre gli abitanti di Piane Crati tornavano da Cosenza trasportando una statua di San Michele per la loro chiesa, furono costretti a fermarsi a Donnici a causa di un temporale. La statua del santo fu sistemata in una chiesetta e quando il cielo si rasserenò, la statua era diventata pesantissima e intrasportabile. Rimase a Donnici e ne divenne il patrono.

5-11-15

©Francesca Canino

   

05 ottobre 2015

DOSSIER Sulla sanità calabrese e cosentina


SANITÀ IN CALABRIA

NELLE scorse settimane, la lettura dei dati sull'aumento della spesa (+31% nel periodo 2011-2014) ha attestato l’inefficacia della presenza del commissario e del sub-commissario alla sanità in Calabria. Essi non solo gravano sui cittadini per il costo dei loro lauti stipendi, ma soprattutto non ottengono alcun risultato nonostante i tagli e il rigore nelle spese. Dovrebbero, quindi, spiegarci come si è verificato l'aumento del 31%. Il servizio sanitario riduce le prestazioni, si pagano a caro prezzo persone per mettere a posto i conti della sanità e nonostante i vari tagli (chiusura di ospedali, tagli di prestazioni, ecc.) la spesa aumenta. Non è matematico, quindi i conti sono stati fatti male.
La struttura commissariale voluta, o imposta, dal ministero dell’Economia e da quello della Sanità, visto i risultati ottenuti fino ad oggi, dovrebbe abbandonare l'incarico (con notevole risparmio di fondi regionali) e restituire quanto ingiustamente percepito. Ma la mancanza dei risultati del loro lavoro è il frutto dell’incapacità delle persone incaricate o è il frutto di una precisa volontà? Il dubbio sarà sciolto non appena qualcuno avanzerà “l’idea innovativa” di privatizzare la Sanità (perché il privato è più efficiente… il pubblico, invece, è stato reso inefficiente da chi avrebbe dovuto renderlo efficiente). Oggi la sanità si basa sulla buona volontà dei singoli operatori, senza un progetto senza idee; ad esempio, non è una buona idea, se si vuole contrastare la migrazione sanitaria (con costi esorbitanti all’anno), chiudere gli ospedali di confine.
Il fallimento della sanità commissariata è una realtà di cui tenere conto, specialmente dopo le ultime decisioni che hanno prorogato l'incarico di Scura fino al 2018. Perché? La Regione ha davvero ancora bisogno di un commissario? A che punto è il Piano di rientro dal debito sanitario? A quanto ammonta oggi il debito calabrese? Possiamo vedere le carte?
In attesa che qualcuno ci illustri l'attuale situazione, esaminiamo una serie di problematiche del Sistema sanitario regionale, con particolare riferimento alla città di

COSENZA

NELL'INDIFFERENZA delle Istituzioni e dei cittadini incede e si consuma la tragedia dell'Annunziata. Dilaniata dai morsi famelici del sistema sanitario regionale – laddove per sistema è da intendersi la regia che muove le risorse, destinandole in gran parte nelle tasche di registi e commedianti da questi assoldati – e defraudata di tante sue funzioni per invidia o ripicca o indolenza, l'ospedale di Cosenza soffre oggi per gli sprechi, per le scelte sconsiderate e per il clientelismo estremo che subisce ormai da molti anni. A pagare, questa volta, non sono come sempre 'solo' i cittadini, ai quali deve essere riconosciuto il grande demerito di disinteressarsi delle sorti del proprio ospedale, sono anche i medici che subiscono sulla propria pelle le conseguenze di un sistema malato. Terminale. Subissati da una richiesta di salute che proviene da tutta la provincia, costretti a lavorare in numero ridotto e a fronteggiare le pecche strutturali del vecchio ospedale, i medici temono che una siffatta situazione possa a breve diventare la scaturigine di tragiche vicende. Come quella del sangue infetto, per esempio.

SINTESI - Ottobre 2012: un pool di ispettori ministeriali evidenziò all'interno del Centro trasfusionale dell'Annunziata di Cosenza gravi criticità: scarse condizioni igieniche e seri problemi di ordine strutturale. Gli ispettori romani rilevarono 65 irregolarità, 17 delle quali indicate come gravi. All'Azienda ospedaliera di Cosenza furono concessi 15 giorni di tempo per risolvere i problemi meno gravi e 30 per quelli più critici. Solo a giugno 2015, dopo diversi interventi strutturali, le condizioni del Centro migliorarono e consentirono di ottenere l'accreditamento. Nel luglio del 2013, il decesso di un settantacinquenne rendese a causa di una trasfusione di sangue infetto, aprì un capitolo doloroso della sanità cosentina.

Tra le criticità messe nero su bianco dagli ispettori, era stata inserita anche l'impossibilità di catalogare le sacche di sangue e la loro provenienza. Un dato non di poco conto se si considera che poco prima del decesso del settantacinquenne nel luglio 2013 si era verificato un evento sentinella: un uomo di quarant'anni era stato contagiato da una sacca proveniente dal centro Avis di San Giovanni in Fiore. L'uomo si salvò grazie alla tempestività delle cure prestategli. Dopo questo incidente, la direzione sanitaria richiamò tutte le sacche provenienti da San Giovanni in Fiore, ma qualcuna sfuggì ai controlli infettando il settantacinquenne. Le indagini porteranno alla scoperta di un batterio killer, la serratia marcescens, sul beccuccio del contenitore del sapone lavamani.
In seguito al decesso dell'uomo per la trasfusione di sangue infetto, giunse a Cosenza Giuliano Grazzini, direttore del Centro nazionale sangue che, munito di mandato ministeriale, riscontrò il permanere delle criticità del 2012, rilevando pure che, dopo oltre un anno, gli interventi compiuti non erano stati risolutivi. Il rischio per il Centro trasfusionale di Cosenza era quello di non essere accreditato e subire un ulteriore depotenziamento, poiché senza accreditamento in ospedale si sarebbero potuti effettuare solo i prelievi e le trasfusioni, ma non la lavorazione del sangue che invece sarebbe stata fatta altrove.
Solo a fine giugno 2015 sono stati accreditati i Centri trasfusionali regionali, tra cui Cosenza. Ma qualcosa non è stata considerata: il commissario Scura, infatti, ha emanato il decreto per l'accreditamento dei servizi trasfusionali che nei fatti ripropone il decreto dell'ex commissario Scopelliti di oltre un anno fa. Quest'ultimo stabiliva per i servizi trasfusionali di Castrovillari, Polistena e Lamezia un'apertura limitata alle ore mattutine. Il nuovo decreto rinvia, dunque, l'effettiva attuazione della definizione della rete ospedaliera e genera alcuni interrogativi: se a Castrovillari si ipotizza un servizio trasfusionale aperto solo la mattina, che tipo di ospedale si può prevedere? Ecco che le disposizioni per i servizi trasfusionali, dettate dalla necessità dell'accreditamento, potrebbero condizionare la nuova rete. Dopo l'alternarsi di voci sulla riapertura degli ospedali di Praia e Trebisacce, si decide invece di depotenziare altri presidi con il declassamento dei Trasfusionali degli ospedali di Lamezia, Castrovillari, Polistena a strutture attive solo di mattina, che mal si concilia con le attività proprie degli spoke. Non solo, il decreto che è stato riconosciuto per tutti i servizi trasfusionali della Calabria, non ha risolto nessuno dei problemi preesistenti in merito alla carenza di personale, poiché dal 2010 non si effettuano le sostituzioni del personale andato in pensione. Mancano, inoltre, le figure dirigenziali a Paola, Lamezia, Catanzaro, Vibo Valentia, Locri, Polistena, Palmi, Cosenza e i dirigenti-primari nei centri che dovrebbero diventare sedi centrali di intere aree (Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria). Il nuovo decreto, riconfermando la ridotta operatività di tre servizi trasfusionali (Polistena, Castrovillari, Lamezia), in queste aree che interessano circa 400mila persone determinerà l'esodo verso Cosenza, Catanzaro o Reggio qualora dovesse verificarsi una emergenza sangue. Le limitazioni apportate al sistema trasfusionale regionale già con la validazione del decreto 58 dello scorso anno, riducendo l'operatività a solo sei ore al giorno, ha prodotto il declassamento di alcuni centri che sono passati da H12 ad H6. La decisione comporta rischi e pericoli, riconosciuti dal presidente Oliverio che si era impegnato ad apportare le dovute modifiche, considerato che gli ospedali dotati di reparti chirurgici, di pronto soccorso ed ostetricia non possono non far fronte all'emergenza sangue. L'attuale decreto conferma pure che il Centro trasfusionale di Catanzaro diventerà il Centro unico regionale per l'esecuzione di esami indispensabili alla trasfusione. I motivi di tale decisione risiedono nel fatto che il capoluogo di regione è situato in posizione baricentrica rispetto alle altre città. Alcune obiezioni sono state sollevate in merito, visto che la possibilità di percorsi alternativi migliori sarebbero nella piana di Lamezia. Il Centro unico regionale dovrebbe essere realizzato in una zona raggiungibile nel minor tempo possibile e ciò escluderebbe categoricamente Catanzaro. Il riassetto dei Centri trasfusionali comporterà ripercussioni sulle funzioni degli ospedali, visto che i servizi trasfusionali coprono la metà delle attività di un ospedale e sono strettamente connessi con il dipartimento dell'emergenza, quindi anche con il pronto soccorso. E se negli ospedali calabresi i pronto soccorso scoppiano, che situazione si creerà con il depotenziamo degli spoke che sono deputati a ridurre il carico degli hub?

SINTESI: C'è inoltre un problema che si verifica ogni estate e che quest'anno è stato più grave: la mancanza di sangue. Nell'ultimo mese di agosto ha raggiunto il minimo storico in tutti e tre gli hub calabresi, con grosse preoccupazioni per gli operatori sanitari e per tutti i trasfusi. Ma sono i donatori in vacanza la causa dell'emergenza? Non solo, visto che anche nelle altre regioni italiane si sta verificando una situazione analoga a quella dell'Annunziata. Recenti disposizioni ministeriali sugli accreditamenti dei centri trasfusionali hanno dimezzato il numero dei centri periferici di raccolta sangue. A ciò si deve aggiungere la mancanza di una programmazione regionale annuale del fabbisogno di sangue, con particolare attenzione ai mesi più 'caldi'.

Dall'inizio della bella stagione, l'ospedale cosentino vive uno dei suoi periodi più difficili per quanto riguarda le scorte di sangue. È un problema che si ripresenta ogni estate, ma negli ultimi mesi si è assistito a un peggioramento della situazione, anche a livello nazionale, che non accenna a migliorare. Le cause, oltre a quelle ormai note che allontanano i donatori dai centri trasfusionali nel periodo delle vacanze, sono ravvisabili nelle recenti disposizioni ministeriali sugli accreditamenti dei Centri trasfusionali. È stato deciso, infatti, di dimezzare i centri periferici di raccolta sangue su tutto il territorio nazionale. Gli effetti sono devastanti se si considera che un hub come l'Annunziata può contare, in queste settimane, su una quantità minima di sacche di sangue, insufficiente per le prestazioni che quotidianamente eroga. In altri termini, le sacche sono così scarse che si cerca di destinarle ai casi più gravi, sperando che non intervengano imprevisti, ovvero incidenti particolarmente gravi. In alcuni giorni di agosto, l'ospedale è stato 'sotto' di oltre una ventina di sacche, tanto da chiedere rinforzi a Castrovillari e a Lamezia. Saranno bastati gli aiuti? No, perché di sangue hanno bisogno anche i talassemici. Sono circa una sessantina i pazienti del Centro trasfusionale dell'Annunziata affetti da Talassemia major che necessitano di trasfusioni in media ogni dieci/dodici giorni. Un eventuale ritardo della trasfusione comporta un calo dei valori dell'emoglobina, con ripercussioni notevoli sullo stato generale di salute. Molti di loro giungono dai vari paesi della provincia e in un mese critico come quello di agosto corrono il rischio di essere rimandati a casa perché non c'è sangue. Per i talassemici si allunga, quindi, il lasso di tempo tra una trasfusione e l'altra, giungendo al limite delle riserve di emoglobina con conseguenze pesanti sullo svolgimento delle loro azioni giornaliere. Si devono poi scongiurare incidenti stradali o sul lavoro, visto che detti casi avrebbero la precedenza sugli altri trasfusi. Il Centro regionale sangue di Catanzaro, preposto pure a questo compito, avrebbe dovuto, già dall'inizio dell'anno, stilare un programma preciso per evitare la mancanza di sangue nei mesi estivi, puntualmente verificatasi. Si sarebbe dovuto prevedere, partendo dal dato storico, la quantità di sacche necessarie per un hub sulla base dei consumi mensili e aumentare la dotazione per i mesi estivi con l'apporto delle sacche provenienti delle varie sedi Avis. È fuor di dubbio che urge una riorganizzazione del sistema regionale sangue, poiché la Regione non ha provveduto in tempo a dotare i servizi trasfusionali dei requisiti minimi e oggi pesa il silenzio del presidente Oliverio e del commissario ad acta per la sanità, Massimo Scura, sulla carenza di sangue all'ospedale di Cosenza.
Sulla programmazione delle raccolte del sangue ogni anno il ministero della Sanità e il Centro regionale sangue pubblicano un decreto che contiene il programma di autosufficienza sangue. Per l'anno in corso la programmazione è stata resa ufficiale con il decreto 20 maggio 2015, pubblicato sulla G.U. 14 luglio 2015, con il titolo: "Programma di autosufficienza nazionale di sangue e dei suoi prodotti per l'anno 2015". Questo documento dovrebbe essere stato elaborato secondo la seguente procedura: i Centri regionali sangue definiscono con le singole strutture trasfusionali e con le associazioni di volontariato della donazione le raccolte in base alle necessità documentate da un consumo 'storico' (cioè quello dovuto per malati cronici come i talassemici, gli oncologici, la chirurgia ad alto consumo di sangue) e da quello dovuto per un prevedibile consumo regionale in aumento. I Centri regionali sangue trasmettono al Centro nazionale sangue l'esito di questa procedura, che la accoglie e stila il documento ufficiale di programmazione nazionale. In esso le Regioni possono anche far presente che le raccolte sul proprio territorio non consentono di far fronte alle necessità, come è accaduto quest'anno per la Sardegna, il Lazio o la Sicilia che hanno bisogno di essere supportate da alcune regioni come il Veneto e l'Emilia in cui la raccolta eccede i bisogni. Si richiede, dunque, una compensazione nazionale, visto che non si è autosufficienti. La Calabria non richiede compensazione perché ritiene di essere autosufficiente a raccogliere le 65000 unità previste a fronte delle 63000 del consumo previsto. Il decreto riporta anche chiare indicazioni sulla necessità di "modulare le chiamate in relazione ai fabbisogni previsti ed imprevedibili", in particolare nella stagione estiva, ovvero calcolare il numero di sacche da richiedere tenendo conto di eventi non prevedibili (incidenti) che aumentano in estate.
I dubbi si sprecano: La programmazione per l'anno 2015 è stata definita e concordata con i servizi trasfusionali e con le associazioni di volontariato? Se la risposta è positiva, perché viene rilevata la gravissima criticità attuale? Dove e quale struttura non ha potuto adempiere a quanto previsto? Se la risposta è negativa, perché non è stato richiesta la compensazione nazionale? Per quel che possiamo saperne, la programmazione non è stata definita con i singoli Centri. Sicuramente alcuni di essi niente sanno ad oggi di questa programmazione.

APPENDICE - In tutto questo la Regione ha fatto da osservatore, limitandosi a prender atto, senza alcun incentivo e senza alcuno stimolo perché da sempre in Calabria è mancato il punto centrale del sistema, cioè il Centro Regionale sangue. Anche quando una legge nazionale (219/05) ne ha previsto la funzione e le competenze, dapprima non si è nemmeno insediato e, poi, è stato deliberato per sanare la necessità, ma non come previsto e non dotato del necessario personale competente: per questa legge e per l’attività del Centro regionale sangue veniva previsto un finanziamento per l’inizio attività e per gli anni successivi. Secondo questa legge, come per altre in questo settore, i finanziamenti finalizzati non sono stati spesi per le funzioni. Quindi, un'assenza di direzione dell’intero sistema che ha avuto il suo culmine quando il Centro regionale sangue doveva nominare il personale per seguire i corsi che avrebbero dovuti qualificarli per compiere le visite ispettive in materia di accreditamento, come previsto nel 2011-2012. Una assenza di direzione che si è tradotta nella mancanza di qualunque intervento per tempo nei servizi trasfusionali che si sapeva essere carenti, perché nel 2009 i Trasfusionisti presentarono alla Regione un piano per gli accreditamenti, nel quale venivano descritte le carenze e suggerite le necessarie correzioni. Le richieste dei Trasfusionisti non hanno mai avuto alcuna accoglienza da parte della Regione, tanto che due volte si sono dimessi da rappresentanze regionali. Ma anche questo non ha avuto alcun seguito. La dottoressa Rizzo riteneva di poter gestire la situazione attraverso il decreto 58 da lei stessa firmato e attraverso le visite ispettive per l’accreditamento, da lei stessa presiedute. L’intento era chiaro: far coincidere le conseguenze delle visite ispettive con quanto previsto nel decreto 58 e cioè con la limitazione delle attività nei servizi trasfusionali di Castrovillari, Lamezia Terme e Polistena. A Lamezia hanno fatto una visita ispettiva perfino durante i lavori di ristrutturazione con mezzo reparto chiuso. A Castrovillari si son trovati davanti un reparto nuovo e ben dotato. In più è venuta fuori la questione accreditamento a Reggio Calabria, che essendo unico punto provinciale ha gli stessi problemi di Cosenza. La Regione avrebbe bisogno di un organo direzionale vero, cioè di un Centro regionale sangue affidato a persona competente (la dottoressa Rizzo non ha mai svolto alcuna attività in un servizio trasfusionale) e strutturato.

La protesta 'della tenda blu'
I medici dell'Annunziata protestano da gennaio 2014. Hanno manifestato sotto una tenda per oltre un mese, sono scesi in piazza, hanno incontrato più volte i vertici della sanità cosentina e regionale, il Prefetto, il sindaco e la commissione consiliare sanità di Cosenza, l'ex sottosegretario alla salute. Hanno organizzato una manifestazione provinciale il 12 aprile 2014 e un'altra nell'aprile del 2015, sono stati sostenuti dai quotidiani cittadini, ma nulla si è mosso. Anzi, l'ex presidente della Giunta regionale calabrese e commissario ad acta Giuseppe Scopelliti ebbe ad affermare l'anno scorso scorsi con un tweet che “bisognava ribellarsi prima, quando a Cosenza assumevano portantini, uscieri e amici dei mafiosi”. I sanitari si chiesero perché il presidente attribuisse a loro responsabilità che erano invece della politica e perché, soprattutto, gli errori di tale politica dovessero ricadere sui cittadini, in questo caso anche ammalati. I problemi dell'ospedale non sono stati determinati né dai medici, né dai cittadini, ma da coloro i quali hanno voluto questa situazione e che quando devono curarsi ricorrono alle cliniche svizzere o del nord Italia. É da evidenziare che l'Annunziata eroga prestazioni che nessun altro ospedale calabrese è in grado di assicurare. Di contro, le interminabili liste d'attesa per la maggior parte degli esami e visite – problema che si verifica anche sul territorio – determina malcontento nei cittadini e molto spesso ricorso alla sanità privata.
Il numero di personale presente per ruolo, compresi i 40 precari storici, è il seguente:

DOTAZIONE ORGANICA AZIENDALE
PERSONALE  PRESENTE
DIFFERENZA
MEDICI
622
379
-243
INFERMIERI
845
580
-265
OSS
318
110
-208
Marzo 2015, minime le variazioni fino a settembre
Da cosa sono causati i problemi dell’ospedale di Cosenza?
In buona parte dalla rete territoriale, ovvero l'ASP, che non funziona adeguatamente. Lo scorso anno è stato scoperto un giro di consulenze d'oro che i vertici dell'Azienda avrebbero affidato ai loro amici, sembra con il placet di tutto l'establisment regionale, senza rispettare le procedure previste. Intanto, i cittadini per curarsi, quando possono, ricorrono alla sanità privata, spendendo fior di quattrini, quando non possono si mettono in lista d'attesa per mesi e mesi o si tengono i malanni. A fronte di tanto disinteresse per i malati, che cosa sono stati due mesi di interdizione per un direttore generale che avrebbe elargito migliaia di euro a un avvocato amico, sottraendoli ai cittadini/pazienti che pagano le tasse? E soprattutto: non sarebbe l'ora di adottare altri provvedimenti nei confronti di chi ha fagocitato la sanità calabrese? Anche perché le vicende di malaffare nella sanità regionale si sprecano.
Siamo di fronte a una politica che ha annullato i diritti e aumentato i profitti
Basta pensare alle Convenzioni: una stipulata con l'Istituto Sant'Anna di Pisa, la seconda con l’Umberto I e l'altra con il Bambin Gesù di Roma. Con quest'ultimo si è voluto creare nel nosocomio catanzarese una qualificata équipe di chirurghi pediatrici per limitare l'emigrazione sanitaria dei calabresi verso le altre regioni. Prima di apporre la firma, però, a qualcuno è sfuggito che l'accordo prevedeva l'esecuzione di interventi chirurgici a bassa complessità sui minori. E' sfuggito anche che l'UOC di Chirurgia pediatrica dell'Annunziata esegue, oltre agli interventi chirurgici più comuni, anche quelli più rari e ad alta o altissima complessità. Qui, inoltre, confluiscono casi sanitari pediatrici da tutta la regione e al suo attivo ci sono ben 1300 interventi annui, tutti attestati sul sito dell'Azienda ospedaliera. A cosa è servita, dunque, la Convenzione con il Bambin Gesù? A sostenere una spesa extra di due milioni di euro per interventi chirurgici che di routine vengono eseguiti a Cosenza? Sembra che l'ospedale pediatrico romano versi in grosse difficoltà finanziarie e la possibilità di drenare pazienti da altri nosocomi è fonte notevole di entrate. Tra l'altro il Bambin Gesù è un ospedale situato nello stato Vaticano e pertanto non è sottoposto ad alcun controllo da parte delle autorità italiane.
La Cisl medici, con un comunicato del 2 settembre scorso, ha denunciato i turni massacranti nell'unità di Chirurgia pediatrica al Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. «Il management aziendale - si legge nella nota - preferisce utilizzare per la chirurgia pediatrica ospedaliera, mai inserita nell’accordo sottoscritto nel 2012 con il Bambin Gesù, personale precario della struttura privata romana, senza chiarire la norma applicata (esiste?), piuttosto che personale ospedaliero correttamente reclutato secondo le regole statali e contrattuali. Per di più, oltre le ingenti risorse spese - in assenza di delibera e/o determina aziendale che abbia autorizzato l’ufficio preposto al pagamento della somme spettanti - nel nome di una convenzione che, a dispetto dei proclami, poco o nulla ha risolto in termini definitivi, il personale del Bambin Gesù viene retribuito dall’Azienda anche per l’effettuazione proprio dei turni di pronta disponibilità. Altro che legittimità e trasparenza amministrativa, perfino la proroga della convenzione è avvenuta senza alcun atto formale che abbia recepito la volontà aziendale. È una situazione che ha del grottesco, quella riguardante la Chirurgia Pediatrica del “Pugliese”, finita negli appetiti di interessi particolari che ben poco hanno a che fare con l’interesse generale di una comunità».
Istituto Sant’Anna di Pisa - Il 10 giugno scorso, con un Decreto del commissario ad acta Massimo Scura (n. 57) avente ad oggetto: Adesione al "Sistema di valutazione della performance dei sistemi sanitari regionali" - Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa'', si approva ''lo schema tipo di convenzione... nella quale vengono definiti l'oggetto del contratto di collaborazione, i reciproci obblighi tra Istituto e Dipartimento tutela della salute, le altre condizioni di attuazione del contratto e viene specificato l'onere per la Regione Calabria fissato in complessivi € 40.000,00 (quarantamila,OO) oltre IVA'', dando atto che ''per la realizzazione delle attività di cui al presente atto si utilizzeranno le risorse previste per l'attuazione del PRP 2014-2018 per come stabilito con l'Intesa Stato-Regioni Rep. Atti n.156/CSR del 13 novembre 2014, quantificate in complessivi € 40.000,00 (quarantamila,OO) oltre IVA''; ritenuto che ''il sistema di valutazione della performance dei sistemi sanitari regionali attivo presso la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa è uno strumento idoneo per sviluppare negli operatori del SSR un una capacità di approccio al benchmarking in una logica di trasparenza oltre alla capacità di ciascuno di condividere lo strumento di valutazione quale mezzo per uscire dall'auto-referenzialità, al fine di intraprendere un percorso di miglioramento della performance guidato dal costante confronto con altre realtà più o meno simili'' si ritiene ''per potere compiutamente relazionare al sistema istituzionale regionale, in adempimento al disposto normativo di cui al citato decreto, è necessario disporre di valutazioni comparative in subordine alle seguenti dimensioni della performance del sistema sanitario regionale: stato di salute della popolazione, capacità di perseguire le strategie regionali, valutazione sanitaria, valutazione dell'esperienza degli utenti e dei dipendenti, valutazione della dinamica economico-finanziaria e dell'efficienza operativa; necessario pertanto introdurre un sistema di valutazione delle performance scientifico e collaudato, fondamentale che la Regione Calabria si confronti con le migliori regioni italiane in ambito sanitario (benchmarking) anche per eliminare l'autoreferenzialità del proprio sistema''.
In altri termini: la Regione pagherà alla Scuola Sant'Anna di Pisa € 40.000 affinché valuti le attività del Sistema sanitario regionale.

15 milioni per un nuovo Advisor

Poco prima di Ferragosto, la struttura commissariale decide il destino dei 19,5 milioni di euro giacenti nella casse della Regione per l'edilizia sanitaria. Si tratta di fondi dell'ex articolo 20, che il commissario propone di utilizzare per tre interventi, previa proposta al Tavolo di verifica. Uno di questi interventi prevede la realizzazione di un sistema di monitoraggio centrale e locale per la raccolta, l'elaborazione, l'analisi e il controllo dei dati a livello regionale per il governo delle attività sanitarie del SSR. Fino ad oggi il monitoraggio è stato fatto dall'advisor nominato dal governo e pagato dalla Regione, il KPMG, al costo di 2,5 milioni di euro all'anno. Per il nuovo sistema, la struttura commissariale prevede di investire 15 milioni per tre anni. Il contratto con KPMG è terminato, l'advisor è inviso a quasi tutti i consiglieri regionali perché in questi anni il lavoro non solo non è stato chiaro, ma nel caso dei debiti dell'ASP di Reggio Calabria, non ha impedito che si potessero sventare truffe. A cosa sia servito il KPMG se lo chiedono in molti, a fronte dei milioni che ha intascato ogni anno.

La piaga del nuovo commissario ad acta per il Piano di rientro
NELLA fretta di presentare qualcosa al tavolo ex Massicci in modo da sbloccare i 100 milioni di premialità, il commissario ad acta Massimo Scura ha proposto in blocco il piano di riordino della rete ospedaliera elaborato da Urbani all'epoca di Scopelliti. Il piano avrebbe dovuto analizzare i fabbisogni di salute dei calabresi, adeguarli agli standard ospedalieri nazionali, stabilire, cioè, di quanti abitanti deve essere formato il bacino d’utenza perché una determinata specialità possa essere strutturata in unità complessa. Se per una cardiochirurgia, per esempio, necessitano due milioni di abitanti per mantenere alti standard di efficacia ed efficienza, considerato che la Calabria conta 1,8 milioni di abitanti si dovrebbe avere una sola cardiochirurgia in regione. Così si sarebbe dovuto agire per tutte le altre specialità. Il piano di riordino avrebbe, inoltre, dovuto esplicitare i criteri e le linee guida per gli atti aziendali, invece si è sostituito completamente a questi, riducendo quasi a zero gli spazi dei direttori generali. La cosa più grave, però, è l’assoluta mancanza di qualsiasi criterio generale e oggettivo nella stesura, che non si basa sui fabbisogni di salute dei cittadini di una certa area, ma su dati storici delle prestazioni erogate dalle Unità Operative Complesse (UOC) esistenti. Se l’Ortopedia di Cosenza lavora con solo 7 medici è chiaro che non può soddisfare celermente i bisogni di un vasto bacino d'utenza come quello dell'Annunziata. Di esempi del genere, in questo piano, ve ne sono a iosa: la Dermatologia che resta UOC a Reggio e a Catanzaro, mentre a Cosenza diventa Unità Operativa Semplice (UOS); la Chirurgia toracica, molto importante e con ottima casistica a Cosenza, resta UOS con 10 posti letto e a Catanzaro e Reggio sono invece UOC. Discorso a parte deve farsi per la Terapia Intensiva Neonatale (TIN), in cui si è creata una evidente sperequazione e si deve aggiungere che Cosenza è punto di riferimento regionale per la Chirurgia pediatrica e, particolarmente, per quella neonatale. Quale logica è stata perseguita? Cosenza è un ospedale HUB e la sua provincia è la più estesa della regione, ma dai numeri riportati è chiaro che non è stato applicato alcun criterio oggettivo nella stesura del piano di riordino.
Declassata Dermatologia a Cosenza, ecco i numeri:

Nel 2014 l'Unità di Dermatologia ha eseguito 12.000 prestazioni, tra cui 2000 visite di Pronto soccorso e di consulenze urgenti, 350 interventi chirurgici, 750 trattamenti laser, 2000 trattamenti di fototerapia, 1000 visite di dermatologia pediatrica, 700 dermatoscopia in Epiluminescenza computerizzata, 300 capillaroscopie. É anche centro di riferimento per le malattie rare, per la psoriasi, per le malattie sessualmente trasmesse, per dermatiti allergiche da contatto, per tumori cutanei (melanomi ed epiteliomi) ed è l'unico centro calabrese che effettua microfototerapia con laser ad eccimeri come in pochissimi centri pubblici del territorio nazionale. Nella stessa sede si effettua terapia Fotodinamica. Non si comprendono le ragioni che hanno trasformato l'unità complessa di Dermatologia dell'Annunziata in unità semplice, mentre a Catanzaro le unità complesse sono state addirittura raddoppiate.

Terapia Intensiva Neonatale (TIN)

CITTA'
UOC POSTI LETTO
BACINO DI UTENZA
PERCENTUALE DEL  TERRITORIO REGIONALE
COSENZA
10
800.000 abitanti
45%

CATANZARO
5
Cz, Kr, RC, Lamezia 1.000.000 abitanti
Cz, Kr, RC, Lamezia 55%
CROTONE
4


LAMEZIA
2


REGGIO CALABRIA
8




C'è poi un progetto denominato Nativity che è stato accompagnato da una scia di polemiche. Benché sconosciuto a molti medici è giunto alla sua seconda edizione e si è svolto nelle scorse settimane a Lamezia. Rivolto ai ragazzi delle scuole elementari e medie e alle loro famiglie per apprendere i rudimenti della prevenzione sanitaria e le regole della corretta alimentazione attraverso attività ludiche, è stato voluto dall'ex presidente Scopelliti per portare in Calabria il meglio della pediatria. L'ambiente sanitario ha avversato l'iniziativa, poiché l'esperimento fatto anche a Roma si è rivelato un fallimento. In conseguenza a ciò, il progetto è stato proposto alle regioni meridionali. Dalle poche notizie circolate, sembra che il costo dell'iniziativa si sia aggirato intorno alle 200.000 euro e che siano stati utilizzati i fondi destinati alla formazione del personale. Solo sprechi mentre all'hub di Cosenza manca l’essenziale.
Mariano Santo

E come se non bastasse, a marzo 2015 si è deciso di evacuare il Mariano Santo. L'ex sanatorio, edificato negli anni '30, è ancora oggi un punto di riferimento per pazienti affetti da patologie di gravissima entità. In seguito ad una relazione predisposta dalla ditta che stava effettuando i lavori di ristrutturazione dell'edificio, che descrive lo stato di ''una situazione insoddisfacente'', è stato deciso di evacuare lo stabile, nonostante nella relazione non si parli di un rischio incombente. Lo sgombero, dunque, è sempre apparso come un provvedimento forzato. Il problema sembra essere il calcestruzzo usato per alcune travi dell'ultimo piano della struttura, che non risponde ai criteri odierni. Una situazione che probabilmente ricorre in tante costruzioni coeve del Mariano Santo, tra cui l'Annunziata, per la quale già dal 2010 è stato dichiarato lo stato d'emergenza. Il nodo della questione verte tuttavia sulle ''carte'', cioè sulla relazione tecnica disposta dalla ditta appaltatrice dei lavori che non riportano, tuttavia, il requisito di pericolosità imminente. Non si può decidere uno sgombero se in nessuna relazione è acclarato un rischio. Una contro relazione doveva essere fatta. Infatti, sembra che la relazione predisposta dalla ditta descrivesse lo stato di ''una situazione insoddisfacente'', forse riferita agli obiettivi del progetto, ma che non dichiarasse l'esistenza di un rischio per l'incolumità. Dopo incontri, tavoli tecnici, servizi giornalistici, a primavera inoltrata, il Mariano Santo si procede all'evacuazione. Una parte delle Unità operative vengono trasferite all'Annunziata e le altre al Santa Barbara di Rogliano. I lavori dovrebbero concludersi per la fine del 2015, secondo quanto sempre dichiarato dai vertici della sanità cosentina e della ditta appaltatrice.

ULTIME sulle assunzioni all'Annunziata – 26 agosto 2015

IL DECRETO n. 87 sulle assunzioni firmato dal commissario ad acta Massimo Scura l'undici agosto è stato seguito, a ventiquattr'ore di distanza, da una lettera dello stesso commissario che rimodulava alcuni punti riportati nel decreto. Ricordiamo che quest'ultimo aveva sollevato una serie di dubbi tra gli operatori sanitari, poiché le assunzioni previste dal documento erano state subordinate al raggiungimento di alcuni obiettivi fissati dal commissario, tra cui la Rendicontazione Obiettivi P.S.N. 2011-2014 e 2015. Nella lettera del 12 agosto, al fine di garantire ''il regolare funzionamento dei reparti e dei servizi nel periodo estivo e permettere al personale di usufruire delle ferie'', mettendo da parte gli obiettivi, il commissario acconsentiva, in deroga a quanto previsto nel provvedimento commissariale, ''il reclutamento immediato a tempo indeterminato di Infermieri e OSS''. La lettera invitava, inoltre, i direttori e i commissari delle aziende calabresi ''a preferire lo scorrimento delle graduatorie concorsuali, in corso di validità, anche delle altre Aziende del SSR, rispetto alla mobilità volontaria''.
Le ferie volgono ormai alla fine e il reclutamento del personale disposto dalla lettera del commissario non è avvenuto a causa dei tempi ristretti. Il 25 agosto è giunta la notizia che la rendicontazione obiettivi è stata raggiunta e quindi potranno iniziare subito le procedure sia per la stabilizzazione di tutte le figure precarie, sia per l'assunzione del personale infermieristico, come indicato nel decreto 87.
Con il raggiungimento degli obiettivi di piano - cioè la realizzazione di alcuni progetti finanziati per la terapia del dolore, per le malattie rare, per il rischio clinico, solo per citarne alcuni - l'azienda ospedaliera potrà procedere alle assunzioni delle 142 unità previste dal decreto, tra cui 68 medici, 40  infermieri e 24 OSS. Di questi, la metà dei posti saranno riservati ai precari. A breve partiranno i telegrammi per i nuovi venti infermieri, per i quali sarà utilizzata la graduatoria dell'ospedale di Catanzaro. Per i precari si procederà, invece, con un avviso interno, mentre per tutte le altre nuove figure, eccetto gli infermieri, sarà bandito un concorso. Le 142 unità si sommeranno alle altre 36 (20 medici, 16 infermieri per l'area emergenza) previste dal decreto 17, di cui una parte è stata già reclutata tramite gli avvisi di mobilità regionale.
In seguito, se ci sarà bisogno di altro personale, si potrà procedere ad eventuali assunzioni solo se saranno raggiunti altri obiettivi, previsti sempre dal decreto 87. Si dovrà dimostrare entro fine anno di aver ridotto la spesa farmaceutica e aver abbattuto le spese per Beni e Servizi. Obiettivi che, fanno sapere dall'azienda ospedaliera, saranno quasi sicuramente raggiunti.

SANITÀ PUBBLICA: il problema è duplice, oltre alle inefficienze dell'Annunziata che nessuno (né Scura, né Oliverio, né il ministro) ha la volontà di risolvere, si profila in città una situazione allarmante per l'espansione dell'impero de 'iGreco'. Questi hanno messo le mani su buona parte della sanità privata cosentina e ora vorrebbero costruire una struttura sanitaria che impropriamente chiamano ospedale e che chiederà gli accreditamenti regionali, ovvero fondi pubblici che finiscono nelle mani di privati, secondo l'anomalia italiana che permette siffatte situazioni ibride. In una struttura privata si assume non per concorso, ma per clientelismo. Immaginiamo, dunque, il peso che avrà la creazione di una casa di cura privata che chiede, però, fondi pubblici?
Potenti e legati ad esponenti di peso della classe politica calabrese di ogni colore – e non solo – iGreco hanno in mente un progetto sanitario che sbaraglierà la sanità pubblica, o meglio quel che resta da sbaragliare... considerato il suo stato attuale. Una concentrazione di potere nelle mani di questi fratelli (come se da noi mancassero famiglie in politica) è preoccupante, anche perché essi sono vicini agli altri fratelli politici nostrani con cui stringono rapporti di diversa natura. Hanno un immane patrimonio economico, quindi possono acquistare beni e persone. Sono vicini agli Occhiuto, ai Gentile, a Scopelliti. Il loro cosiddetto 'ospedale' probabilmente si farà, mentre il nuovo ospedale di Cosenza, nonostante gli annunci e le prese di posizioni di Scura e Oliverio (farlocche) non sarà mai edificato, sia per accordi ed equilibri che non si raggiungeranno mai, sia per i fondi che non ci sono. Ogni tanto si parla del nuovo ospedale solo per distrarre le masse e i sanitari cosentini dai veri problemi dell'Annunziata e allontanare, così, le eventuali risoluzioni degli stessi.
Si auspica che le promesse delle assunzioni e dei concorsi non rimarranno solo sulla carta, visto che il bastimento Annunziata affonda inesorabilmente e con esso la salute dei cosentini non benestanti. In un anno e mezzo di proteste le cose sono peggiorate e oggi si è finalmente capito cosa sottende la sanità calabrese. Il diritto a star bene, a non soffrire, non deve essere assicurato esclusivamente a chi può permettersi di curarsi fuori dalla Calabria, a maggior ragione se si pensa che anche chi non la possibilità di emigrare è un contribuente che paga le tasse con lacrime e sangue.

SANITÀ PRIVATA: A parte iGreco si devono temere altre situazioni, come il caso del Marrelli hospital di Crotone. Inconcepibile. Non possiamo permettere che i fondi della sanità vengano destinati anche a strutture private, specialmente se appartenenti a gente che ha amministrato la Regione fino a pochi mesi fa e che ha regolato tempi e modalità della fine della passata legislatura regionale. Se finalmente ci siamo sbarazzati della Campanella, non possiamo ora consentire che altri seguano il suo esempio. Basta con il privato finanziato dal pubblico, e non solo in sanità.

Il caso Marrelli hospital - Non abbiamo fatto in tempo a liberarci della fondazione Campanella che altri privati della sanità si sono messi in testa che gli accreditamenti regionali, cioè soldi pubblici, devono esser PRETESI per finanziare i loro interessi privatissimi, camuffati, invece, da interessi generali a favore della salute dei cittadini. L’accreditamento viene dopo che è stato dato il decreto di apertura della struttura e dopo che si dimostra il possesso dei requisiti. Marrelli ha fatto il contrario, ha assunto anche personale - non si sa su quale base, sicuramente non dopo un qualsivoglia concorso - che manda a protestare. Sono pure stati a Roma. Il privato finanziato dal pubblico è uno scippo di risorse ai cittadini, i quali già soffrono per i tagli e per gli imbrogli in campo sanitario. I Calabresi in primis. Se poi consideriamo che Marrelli è il marito di Antonella Stasi, vice di Scopelliti e presidente facente funzione della Regione Calabria fino a novembre 2014, allora le cose assumono un aspetto multiforme. Voglio solo ricordare la non volontà della ff a decidere la data delle elezioni, rimandata più volte per disparati motivi. Quanti e quali interessi familiari la signora avrà curato in quel periodo? Quali benefici avrà ottenuto per il Marrelli hospital? Per diverse settimane, Scura non è sembrato propenso a erogare nulla, ma l'arroganza dei due coniugi in una trasmissione e con i media in genere, le richieste continue dei finanziamenti che fanno passare come dovuti, il denaro e certi meccanismi che muovono il carrozzone Marrelli non lasciano prevedere niente di buono. Dulcis in fundo, è giunto anche il monito di un vescovo a loro favore. Assurdo! La chiesa pensi alle sue cose spirituali e non a togliere ai poveri, i cittadini in questo caso, per dare ai ricchi, Marrelli e sanità privata. Vergogna. Urge una crociata a favore del pubblico in ogni settore, ma in sanità ancor di più. Intanto all'Annunziata un altro medico colpito da infarto, i turni sono massacranti e la cosa grave è che questa persona è il primario di Ortopedia, unità dell'Emergenza sottodimensionata, anzi disastrata da anni. Questo perché il Piano di rientro dal deficit sanitario impedisce di assumere personale, la cui carenza è il vero problema del nostro ospedale. Però diamo i soldi ai privati...  


Sulla polemica del sindaco di Catanzaro all'annuncio della costruzione di un nuovo ospedale a Cosenza

Ritengo sia scellerato fare la guerra a una città della stessa regione, il becero campanilismo non DEVE esistere specialmente nel campo della sanità. Gli ammalati sono tutti uguali e devono avere TUTTI il diritto di curarsi, ad ogni latitudine. Il sindaco di Catanzaro sembra aver dimenticato tutti i privilegi che la giunta Loiero – e qualcuno anche prima di lui – ha concesso alla città capoluogo, benefici a iosa destinati non agli effettivi bisogni dei catanzaresi, ma alla necessità di  alimentare clientele e assurdi campanilismi. Cosenza è incomprensibilmente penalizzata da decenni in ogni settore: pur essendo il capoluogo della provincia più vasta ha subito ben nove chiusure di spoke nel suo territorio e a fronte di ciò ha accolto e accoglie, sebbene con mezzi e personale insufficienti, pazienti da tutta la regione. E lo farà ancora, perché gli ammalati sono tutti uguali e non meritano di essere trattati come argomenti elettorali su cui vincere o come pretesti per fare la guerra a una città che si è sempre attirata le invidie delle altre calabresi.
E se il Pugliese Ciaccio risale agli anni ’60, come fa notare il sindaco di Catanzaro, sappia Abramo che l’Annunziata è stato costruito negli anni ’30, che Cosenza a differenza di Catanzaro non ha avuto la Campanella (fonte di sprechi, ingiustizie e sbeffeggiamenti a livello nazionale con la famosa puntata di Report) o l’azienda Mater Domini, né il buco nero del policlinico di Germaneto chiuso da anni, né ha fatto la guerra ad alcuno quando a volte ha espresso la volontà di poter ospitare nella sua università una facoltà di medicina. Catanzaro si è sempre opposta, NON RICORDANDO che negli anni ’70  si era stabilito che Catanzaro sarebbe diventato capoluogo della regione e Cosenza sarebbe stata la sede dell’università della Calabria. Catanzaro, invece, ha avuto anche l’università. A noi fa piacere che pure le altre città calabresi siano sede di università e che ognuna abbia ospedali e quant’altro possa far crescere il popolo calabrese, ma per favore non venga a dirci che Catanzaro deve venire prima o dopo di Cosenza. Non esiste un prima o un dopo quando si parla della salute della gente, si valutino le necessità e si operi in base alle priorità, nel rispetto delle regole e dei bisogni dei cittadini. Abramo ha dimostrato di non conoscere la realtà sanitaria cosentina e soprattutto – mi duole scriverlo – ha dimostrato che le frustrazioni nei confronti di Cosenza sono così grosse che non ha nemmeno colto come l’operato del presidente Oliverio non sia stato, finora, affatto sbilanciato verso la città dei Bruzi. «Il "sorpasso" di Cosenza su Catanzaro – scrive Abramo - nella realizzazione del nuovo ospedale non ci sta bene», il sorpasso, egregio sindaco Abramo, Cosenza lo ha già attuato abbandonando i campanilismi e dimostrando la secolare apertura mentale per la quale tante invidie si è attirata e, purtroppo, ancora continua ad attirarsi.

5-10-2015
©Francesca Canino