I due gruppi di uomini si fermarono l'uno di fronte all'altro,
incrociarono gli sguardi carichi di speranza: parlavano la stessa
lingua e identica era la loro gestualità. Tratti somatici comuni ad
entrambi; forse anche i loro pensieri risultavano simili, diverse
erano solo le loro vesti. Da una parte uomini in divisa, dall'altra
gente del popolo senza uniforme: i primi obbedienti alle autorità, i
secondi ribelli alla stessa. Attimi di silenzio, poi un breve
confronto pieno di passione e speranza: “Non usiamo le armi, siamo
fratelli!”. Parole che appena pronunciate scatenarono una micidiale
sparatoria, caddero gendarmi e insorti, altri rimasero feriti sullo
spiazzo del Palazzo dell'Intendenza a Cosenza. Era il 15 marzo del
1844.
L'antefatto - Il moto cosentino del 1837, soffocato con una violenta
repressione, non placò gli animi dei ribelli, anzi aumentò la
diffusione delle idee mazziniane e i contatti con la Giovine Italia.
Il quadro calabrese negli anni successivi, si presentava vario e
pronto ad esplodere: Reggio, nonostante fosse considerata dai Borboni
la città più calma, vide la nascita di un comitato rivoluzionario che
in breve instaurò contatti con i ribelli di Napoli tramite il
cosentino Domenico Frugiuele. Cosenza, invece, era in pieno fermento
rivoluzionario: da un incontro svoltosi in casa del carbonaro Raffaele
Laurelli, scaturì il piano per una insurrezione nella città dei Bruzi.
Erano state predisposte due bande che avrebbero dovuto attaccare i
centri del potere cittadino, una di esse si era riunita alla Querce di
Frugiuele, l'altra alla Porta di Ferro, mentre alcuni gruppi armati
erano stati sistemati nelle vicinanze delle case abitate dagli
ufficiali della gendarmeria e dei funzionari governativi, affinché si
impedisse il loro intervento.
La notte del 23 ottobre 1843, data scelta per lo scoppio della
rivolta, la città fu colpita da una forte tempesta che impedì ai
rivoltosi di raggiungere i punti concordati. L'azione fu quindi
rinviata, ma la polizia, che aveva avuto notizia della ribellione, si
mise sulle tracce degli autori. L'Intendente di Cosenza, Battifarano,
decise tuttavia di lasciar correre, poiché aveva ricevuto minacce di
morte nel caso in cui avesse perseguitato i cospiratori.
Nei mesi successivi, i patrioti si riunirono, esattamente nel febbraio
del 1844, in casa di Paolo Scura, alla presenza di Antonino Plutino,
personaggio di spicco del Risorgimento reggino, che propose di
rimandare a dopo l'Unità d'Italia la liberazione dallo straniero.
Durante la riunione in casa di Scura, una parte dei presenti si
pronunciò in favore di una rivolta immediata; altri, più prudenti,
ritennero che sarebbe stato opportuno prendere tempo per evitare gli
errori del passato. Si arrivò ad un accordo: il 15 marzo la città
sarebbe insorta.
L'insurrezione - Il Moto delle Idi di marzo sarebbe dovuto scoppiare
contestualmente a quello delle altre province calabresi, ma poichè la
notizia si era divulgata anche tra gli ambienti della polizia, alcuni
rivoltosi come Plutino, manifestarono l'intenzione di rimandare la
ribellione. Frugiuele e i cosentini, invece, si opposero al blocco
dell'azione e decisero di mettere in atto il piano, ma i ribelli che
avrebbero voluto il rinvio dell'azione, sparsero notizie false per
fermare la rivolta. Così a Settimo di Montalto, uno dei luoghi
prescelti per l'incontro di una delle bande dei cospiratori, la notte
del 14 marzo giunsero pochissimi uomini, mentre l'altra compagine si
ritrovò a Monte Chierico, alle spalle di Portapiana. All'alba,
tuttavia, il gruppo innalzò il Tricolore e marciando per le vie della
città, raggiunse l'Intendenza.
Un considerevole numero di ribelli proveniva dai paesi albanesi, tra
questi era Domenico Mauro, intellettuale stimato e attivo, che si mise
a capo della sfortunata sommossa cosentina antiborbonica al grido di
“Italia e Costituzione”.
Arrivati dinanzi allo spiazzo antistante il Palazzo, i rivoltosi
trovarono il portone sbarrato ed iniziarono a scaricarvi fucilate e
colpi di ascia per sfondarlo, ma si trovarono subito circondati da uno
squadrone di soldati a cavallo comandato dal Capitano Vincenzo
Galluppi, figlio del filosofo Pasquale. Lo scontro fu fatale per
gendarmi e ribelli, rimasero a terra Galluppi e un altro gendarme e
tra gli insorti Francesco Salfi, Michele Musacchio, Emanuele Mosciari,
Giuseppe de Filippis e molti altri rimasero feriti. Il Patriota Salfi
aveva appena fatto in tempo a sventolare il Tricolore, quello stesso
che oggi è conservato presso il Comune di Cosenza come uno dei più
antichi d'Italia. Nel frattempo, il gruppo riunito a Portapiana, aveva
sentito gli spari e accorse in aiuto, ma si disperse non appena seppe
del fallimento dell'azione.
Le conseguenze - Fu subito inviato a Cosenza un Commissario Regio con
un battaglione che, occupata la città, istituì una Commissione
militare per giudicare i tanti arrestati. Il processo, conclusosi il
10 giugno, condannò a morte ventuno ribelli, altri dieci furono
condannati a trent'anni di carcere duro, tredici di loro a venticinque
anni anni, tra cui Frugiuele, mentre tanti altri rimasero in carcere
senza processo. Infine, la condanna a morte fu confermata solo per sei
di essi che condotti nel Vallone di Rovito, furono giustiziati
all'alba dell'11 luglio al grido di 'Viva l'Italia', alla presenza di
una folla commossa. La città rimase attonita per molti mesi, anche
perché pochi giorni dopo, un'altra esecuzione di grande impatto
emozionale si compì nello stesso luogo, quella dei fratelli Bandiera.
Vista la situazione in cui versava la città e i cittadini, i reali
decisero di far visita all'antica capitale dei Bruzi, ma non trovarono
alcuna accoglienza tanto che Ferdinando II propose di far perdere a
Cosenza il ruolo di capoluogo di provincia. Dissuaso dai reali
consiglieri, dovette presto recedere dalle sue posizioni in ragione
del fatto che un atto così eclatante avrebbe potuto fomentare altre
ribellioni. Intanto, i fratelli Bandiera, ignari che la rivolta fosse
finita nel sangue, si mossero da Corfù per appoggiare i ribelli di
marzo. Vincenzo Padula nel dramma “Antonello Capobrigante calabrese”
la ricorda così: «Uomini del 15 marzo si dissero coloro, che al 1844,
fecero in Cosenza contro il borbonico governo la celebre sommossa, che
iniziò l'indipendenza e l'unità politica d'Italia. Promotore impavido
ed ordinatore solerte di quell'eroica ed audacissima impresa fu il mio
compianto amico Domenico Mauro, che nato in uno dei nostri paesi
albanesi, si valse principalmente per operarla del braccio degli
albanesi, ajutato in ciò dai fratelli Petrassa e Franzese da Cerzeto e
Mosciaro da San Benedetto Ullano e dal cosentino Francesco Salfi,
ch'esercitava la professione di notaio in quest'ultimo paese.
L'impresa fallí, il Salfi cadde nel conflitto, e degli altri,
variamente e crudelmente condannati, la fama pietosa ed ammiratrice,
che volò oltralpe, ed oltremare magnificata più del vero dai giornali,
persuase i fratelli Bandiera, ed i loro generosi compagni ad
intraprendere ciò che da tutti è conosciuto».
Francesca Canino
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