‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

28 marzo 2017

C'era una volta a Cosenza: Il Villaggio del Fanciullo "Cristo Re"

La nave con la prua a sud 
  


RISUCCHIATA dalla nebbia del tempo, riaffiora a volte nei ricordi di chi la vide affrontare i flutti delle miserie umane, superare tempeste, rimanere a galla e tramutarsi in faro di speranza per tanta gente, fino ad affondare nel mare della burocrazia e dell’ingenerosità.
C’è una nave a Cosenza che diverse miglia ha percorso negli anni passati senza mai toccare il mare, si chiamava Villaggio del Fanciullo ‘’Cristo Re’’. Ospitava ragazzi in condizioni di disagio.
‘’L’ideale che fin da giovane spuntò nel mio cuore dopo aver tanto pregato, era togliere dalla strada i fanciulli, per una bonifica integrale della società di domani, per il trionfo di Cristo Re’’.
Era il 13 giugno 1950 e così don Luigi Maletta, parroco della chiesa di san Gaetano in Cosenza, scriveva al vescovo del tempo, Aniello Calcara, per comunicargli le sue intenzioni in merito all’erigendo Villaggio del Fanciullo intestato a ‘Cristo Re’. Tre giorni dopo, 16 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù, la posa della prima pietra in contrada Caricchio. Era il battesimo della nave al grido di ‘’Salviamo il fanciullo ed abbiamo salvato la società’’.
Ricco di fede e povero di borsa, don Maletta, già fondatore del gruppo scout di Cosenza, iniziava la sua traversata con la certezza che ogni nube si sarebbe diradata. ‘’Terra all’orizzonte!’’ avrà esclamato da buon capitano, quando un benefattore, Matteo Fiorentini, donò alla chiesa di san Gaetano il terreno su cui sorse la struttura. I fondi per la sua realizzazione, invece, giunsero da diversi benefattori, tra cui molti emigranti residenti in America. La costruzione avrebbe dovuto rappresentare una nave, simbolo dell’emigrazione stessa.
Nel 1951 si formò un comitato pro Villaggio del Fanciullo composto dal vescovo Aniello Calcara, dal donatore del suolo Matteo Fiorentini, dal prefetto Marifisa, dal sindaco della città Alberto Serra, mentre un comitato parallelo sorse in America sotto la guida del benefattore Fred Morelli, che si avvalse dell’aiuto indefesso di altri due italo-americani: Niccolò Lo Franco, vice presidente del comitato e direttore del giornale ‘’L’Italia’’ di Chicago e mister Vincent Coco, anch’egli giornalista della stessa testata, originario di Spezzano Sila. In breve venne organizzata una festa di beneficenza allo Sherman Hotel di Chicago per una raccolta di fondi, in tutto dieci milioni di lire. Fu nel mese di dicembre di quell’anno che mister Niccolò venne in Italia per la consegna del denaro raccolto. In quell’occasione fu organizzato un incontro presso la sala provinciale di Cosenza e scattate alcune foto durante la serata, che sembra siano state successivamente riprodotte nel bronzo ‘’a perenne ornamento dell’opera che egli sposò come propria creatura’’, come si legge su un giornale dell’epoca.
La nave fu costruita solo per metà, ancora oggi è possibile identificare, nel lato a sud, la prua ed in quello di sud-est il ponte. Il flusso di denaro proveniente dall’America, ad un certo punto si interruppe, forse per via di alcune voci che circolarono a riguardo delle finalità. Voci rimaste tuttavia infondate, ma che recisero i rapporti con la comunità italiana d’America. Malgrado ciò, don Luigi, ‘nocchiere in gran tempesta’, realizzò un edificio posto su quattro livelli, usati nel tempo con modalità diverse e rimasto sempre tale. Il piano seminterrato era stato adibito a cucina-refettorio; il piano terra comprendeva i laboratori, la scuola, i servizi, gli uffici amministrativi ed uno spazio per le attività ricreative. Al primo piano erano posti i dormitori e la chiesa; al secondo la biblioteca, l’ambulatorio, il guardaroba, il deposito ed un alloggio privato.
La struttura ospitava minori di sesso maschile provenienti in prevalenza da Cosenza e provincia, alcuni vi entravano dalla prima infanzia per rimanervi fino alla maggiore età, allora 21 anni. Il Villaggio era dotato di vari laboratori artigianali diretti da maestri artigiani che insegnavano il ‘mestiere’: c’era, infatti, una tipografia, una falegnameria, una fucina ed una fattoria in cui venivano allevati animali da cortile.
I bambini frequentavano le scuole pubbliche cittadine, ma in poco tempo furono istituite due pluriclassi delle scuole elementari all’interno del Villaggio, dipendenti dalla Direzione didattica delle scuole dello Spirito Santo. I ragazzi della scuola media inferiore e superiore, continuarono, invece, a frequentare gli istituti cittadini, accompagnati da don Luigi a bordo di una vecchia auto. Un gruppo di minori con problemi di udito e di linguaggio, frequentava una scuola specialistica sita in città, precisamente in via Sertorio Quattromani, al palazzo Ferrara, che operò fino alla fine degli anni ’70.
In media l’istituto ospitò, negli anni ‘60, circa una sessantina di ragazzi. Questi facevano parte degli Scout della parrocchia di san Gaetano e d’estate si trasferivano in Sila per le vacanze, vicino al lago Cecita, in locali che sembra appartenessero alla Curia. Ad affiancare don Maletta nell’attività assistenziale, vi era un ristretto numero di persone, tra cui una volontaria, Rosaria Bengardino, che priva di legami parentali, dedicò la sua esistenza ai ragazzi del Villaggio sin dalla sua fondazione e fino alla sua morte avvenuta nel 1978. Viveva nell’istituto, si prodigava per la questua coinvolgendo i fanciulli ed era solita raccontare come in gennaio si andasse per le case di campagna a riempire il ‘pignatello’, un recipiente che veniva colmato con il grasso di maiale regalato dai contadini e che serviva in cucina per l’inverno, quando faceva freddo. Anche il cibo era poco ed era consuetudine al Villaggio, uccidere il maiale per fare la provvista di salumi. In quell’occasione si faceva festa. A dire il vero i ragazzi non erano abituati alle feste, provenendo da realtà familiari disgregate, emarginate ed estremamente precarie dal punto di vista economico, culturale, sociale e sanitario. Non erano infrequenti i casi di pediculosi e di scabbia in alcuni minori all’ingresso nella comunità, oltre alla mancanza di indumenti e del materiale scolastico. L’età media, intanto, cresceva sempre più e la maggioranza era costituita da adolescenti. Dopo la chiusura dell’orfanotrofio Vittorio Emanuele, non esistevano in città o in provincia, istituti in grado di accogliere ragazzi di età superiore ai 10 anni. I diversi istituti religiosi presenti sul territorio, si limitavano ad ospitare i minori fino al completamento delle scuole elementari, mandandoli, nell’età adolescenziale, allo sbando.
I fanciulli non manifestavano solo la ribellione propria della loro età, ma soprattutto grande disagio derivante dalla carenza affettiva, poiché le famiglie di provenienza, spesso, erano incapaci di trasmettere sentimenti, affetti, valori. La comunità era divisa in due gruppi: minori con famiglie problematiche, ma comunque ‘normali’ e minori con famiglie assenti e multiproblematiche. Nel periodo delle Feste o delle vacanze, un gruppetto non rientrava mai a casa e veniva ospitato da alcuni dipendenti dell’Istituto. Tale stato di cose generava difficoltà nelle relazioni sociali e nello sviluppo armonico della personalità, tanto che l’assistente sociale, coordinatrice anche del personale educativo, tentava di rimediare incrementando le relazioni familiari ed intervenendo con gli altri organismi preposti, ma in particolare cercava di mantenere rapporti costanti con i minori per il bisogno che essi avevano di confrontarsi con una figura femminile. Nonostante le difficoltà, molti ospiti del Villaggio si inserirono bene nella società, alcuni proseguirono gli studi, altri emigrarono, ma per tanti la struttura continuò ad essere un punto di riferimento anche dopo la maggiore età.
Del vecchio Villaggio, oggi, rimane la struttura grigia e rovinata, quasi un vascello fantasma se si considera che le ricerche effettuate (presso la parrocchia di san Gaetano, l’Archivio della Curia arcivescovile, l’Archivio provinciale e l’ex Baliatico, l’Archivio comunale, l’Archivio di Stato, le Biblioteche) per reperire atti, fotografie o altre prove documentali a testimonianza dell’operato che l’Istituto svolse negli anni passati, sono risultate vane. La storia, però, è rimasta nella memoria e nel cuore di chi ha prestato servizio presso la struttura, grazie a loro è stata possibile raccontarla e rivivere il viaggio della nave con la prua rivolta verso sud. 

Le traversie burocratiche

Negli anni ’70 le entrate finanziarie costituite dalle rette della Provincia e dell’Enaoli (ente che assisteva le vedove e gli orfani dei lavoratori, in seguito soppresso), diminuirono, divenendo inadeguate ad assicurare le necessità primarie dell’ente assistenziale e a garantire i nuovi parametri sociali, pedagogici e culturali imposti dalla crescita sociale del tempo. Don Luigi fu costretto a rivolgersi alle Istituzioni locali. Gli subentrò l’Ente Comunale Assistenza (ECA), retto da un Consiglio di Amministrazione nominato dal Consiglio comunale di Cosenza, che riorganizzò la comunità assicurando il vitto e stanziando dei contributi per il perseguimento delle finalità. Distaccò anche una parte del personale comunale presso il Villaggio, tra cui un’assistente sociale. Era la fine del 1971. Gradualmente furono assunte alcune figure professionali per migliorare gli intenti dell’opera: un direttore, degli istitutori, un cuoco, un guardiano notturno, una guardarobiera, alcuni inservienti. Furono sollecitati altri Enti per avere dei contributi (Comune, Provincia, Regione, Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania).
Sulla base di una convenzione, fu incaricato il medico comunale per le visite periodiche e per i problemi di salute dei minori. Anche i pasti venivano decisi secondo tabelle dietetiche prestabilite. Intanto, per garantire una qualità migliore della vita, vennero aumentati gli spazi riservati al dormitorio, abolendo i letti a castello e diminuendo il numero degli ospiti (40 circa). E’ in questo periodo che per favorire la socializzazione dei minori, due classi elementari vennero trasferite nella scuola integrata di via Negroni. Le difficoltà economiche erano ancora tante e verso la metà degli anni ’70 si avviò la procedura, lunga e difficile, per il riconoscimento di Ente Pubblico, ossia di IPAB (Istituto Pubblico Assistenza e Beneficenza) dopo che il fondatore, don Luigi, rinunziò alla proprietà privata. Qualche anno più tardi morì. Nel 1977 si ebbe il riconoscimento, ma nello stesso anno venne soppresso l’ECA dalla legge nazionale per gli enti considerati inutili. Il nuovo Ente ‘Villaggio del Fanciullo’, preparò un proprio regolamento organico e fu nominato un commissario ad acta da parte della Regione Calabria.
Al personale dipendente, al quale si era anzitempo unito quello dell’orfanotrofio Vittorio Emanuele, fu applicato per la prima volta un regolare contratto. Ma le rate pagate dalla Regione per ogni minore, sempre in ritardo, si rivelarono insufficienti a coprire il bilancio. Iniziò, così, una nuova stagione di proteste per assicurare l’assistenza ai minori e rivendicare le spettanze del personale, mentre aumentavano i bisogni dei ragazzi, specialmente quelli di ordine psicologico.
Verso la fine degli anni ’70, la situazione economica dell’Ente apparve insanabile. Intanto, l’art. 25 della Legge 616/77, in base al quale era stata portata a termine la procedura di passaggio dell’Ente sotto la gestione del comune di Cosenza, fu dichiarato incostituzionale. Nella struttura rimasero pochi minori, quelli con più problemi ed il personale non percepiva lo stipendio. Inevitabilmente si decise di chiudere alla fine del 1985. Solo all’ultimo momento si venne a conoscenza della legge sulle Opere Pie del 1890, che prevedeva il passaggio dei beni immobili degli Enti che non potevano proseguire le loro finalità, e per estensione il personale, al comune sul cui territorio era situato, quindi al comune di Cosenza.
Oggi i locali sono utilizzati come Centro sociale, denominato Neo Ex Villaggio del Fanciullo. 

  5 marzo 2007

© Francesca Canino

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