‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

30 gennaio 2021

La dama di Sibari

 


FRANCAVILLA è l'unico sito indigeno della Sibaritide che presenta sepolture ininterrotte dall'850 al 530 a.C., sopravvissuto all'arrivo dei Greci e alla fondazione di Sybaris. Formato da due terreni archeologici, Timpone della Motta e Macchiabate, numerosi sono i ritrovamenti che riguardano la religione e l'insediamento abitativo. Gli antichi abitanti di Francavilla Marittima erano sicuramente Italici. Ad essi l'archeologia ha dedicato poca attenzione, troppo incentrata sui Greci e sulla loro colonizzazione del Sud d'Italia che ha fatto trascurare la preistoria indigena.

Negli anni '30 del secolo scorso, comparvero a Francavilla le prime testimonianze di una cultura indigena protostorica, proveniente da corredi funerari come la tomba Strada in contrada Macchiabate.

Nel 1963, la Soprintendenza intraprese le prime campagne di scavo dirette da Paola Zancani Montuoro. Fino al ‘69 si svolsero annuali campagne con la collaborazione dell’archeologa olandese Maria W. Stoop e della sua allieva Marianne Kleibrink. In cima al Timpone della Motta fu scoperta l’Acropoli di una città ellenizzata e in contrada Macchiabate una necropoli indigena. Numerosi i reperti ritrovati con gli scavi clandestini e finiti in collezioni private e in musei stranieri.

Tra gli oggetti più belli rinvenuti si annovera 'La dama di Sibari'. Nel santuario di Athena, sulla cima del Timpone della Motta, sono stati, infatti, ritrovati i frammenti di un importante reperto raffigurante forse la stessa dea. Molto curato è l'abbigliamento per la ricchezza e l'unicità dei decori, costituito da una gonna lunga con disegno a rete, un corpetto e un grembiule decorato con larghe fasce orizzontali, in cui uomini e donne sono rappresentati nell’atto di danzare.



Nella necropoli di Macchiabate è stato trovato un bellissimo sigillo a forma di scarabeo, a imitazione dello stercorario egizio. Considerato un insetto protettivo per il modo in cui muove la pallina di sterco, simile al movimento del sole nel firmamento, l'uso proviene dall'Egitto e si diffuse nel Mediterraneo ad opera dei mercanti fenici e greci, come attestano gli scarabei ritrovati nelle tombe di bambini a Pithekoussai (Ischia). Su una parte del sigillo, lo scarabeo reca un intaglio che rappresenta un leone contornato da un'iscrizione in aramaico.

C'è anche un reperto che testimonia il culto dell’acqua: è la ‘pisside del Canton Ticino’, così definita perché è stato ritrovato in Svizzera dove era clandestinamente finita. La scena dipinta è in stile sub-geometrico dell’Italia meridionale, risale al 700 a.C. e raffigura la scena di una processione in cui una fila di uomini armati, capeggiati da un suonatore di lira, e una fila di donne raggiungono una dea seduta su un trono. La capofila porta una hydria e la dea ha in mano una coppetta per raccoglierla. Un altro pezzo importante, ritrovato nella tomba della Strada, è la pregiata coppa in bronzo di fattura fenicia che testimonia gli scambi tra l’antica Calabria jonica e i paesi del Mediterraneo.

Cosenza, 30 gennaio 2021

© Francesca Canino

 

28 gennaio 2021

LETTERE: Studenti preoccupati per la ripresa della scuola in presenza


Ecco la lettera inviataci da due giovanissime studentesse preoccupate per la ripresa della scuola in presenza. Oltre ai pericoli del Covid, si pone l'attenzione sul problema dei mezzi di trasporto, vera piaga della nostra regione.  

 

"L'1 febbraio è prevista la riapertura delle scuole, ma molti studenti sono contrari. Il motivo? Purtroppo le scuole (anche se attrezzate di misure anti Covid) non garantiscono la giusta sicurezza. La maggior parte degli studenti sono pendolari e ogni giorno affrontano lunghi viaggi per raggiungere la propria scuola e per far ritorno a casa su mezzi affollati, spesso non molto puliti e soprattutto poco arieggiati. La ministra Azzolina ha detto chiaramente che se i contagi cresceranno bisognerà aumentare i mezzi pubblici e diminuire le attività ricreative. Oggi noi ragazzi/e (responsabili) non facciamo attività extrascolastiche, tranne qualche passeggiata sotto casa. I mezzi di trasporto della città di Cosenza e provincia sono mal messi e di certo non possono essere aumentati, visto che spesso saltano le corse. Un ragazzo che vede il pullman pieno deve aspettare il prossimo, ma siccome ci sono pochissimi pullman (4 al giorno) distanti di 2-3 ore l'uno dall’altro, ciò è un grosso problema per noi.  Non tutti i genitori hanno la possibilità di accompagnare i propri figli a scuola e quindi i mezzi di trasporto rimangono l'unica soluzione per raggiungere la scuola. Dobbiamo ricordare che i mezzi dell’Amaco di Cosenza sono pochi e fanno un servizio scarso, come possiamo raggiungere la scuola? Inoltre, c’è il problema rimborsi abbonamenti, che non vengono restituiti indietro dalle ditte come dovrebbero fare. 

Ma i mezzi di trasporto non sono l'unico problema: tralasciando le nuove regole scolastiche in contrasto con quelle vecchie, per noi studenti (di tutte le età) non sarà di certo un bene rimanere fermi nei banchi per 5 ore a scuola con le finestre aperte, l'aula sarà sicuramente arieggiata, ma sicuramente fredda, diventerà dunque un centro di raffreddamento dove i soggetti più deboli saranno soggetti a malanni. Seguendo i protocolli Covid, non si può frequentare la scuola se si ha il raffreddore e si presentano altri sintomi influenzali. Questo porta ad avere diverse assenze (in dad questo problema non ci sarebbe) e in più l'ansia per il rischio di aver preso e passato il Covid ai propri cari. 

Libri, quaderni, penne, matite e tutto il materiale che viaggia da scuola a casa con noi è un altro mezzo di diffusione del virus, lo stesso per i nostri indumenti. Fare il tampone in questo caso non può essere un'alternativa, visto che il virus si può prendere da un giorno all'altro e per tutti questi motivi la scuola dovrebbe restare chiusa. Il diritto allo studio non è fermo anzi tramite la DAD l'istruzione non è cessata, ma il diritto alla salute è messo in grave pericolo. I nostri genitori dall’anno scorso ad oggi, facendo molti sacrifici, ci hanno attrezzato a spese loro, e non a spese dello stato o della scuola dai quali non abbiamo visto un centesimo di tutto l’occorrente, come computer, tablet, connessione e via dicendo. Quindi siamo attrezzatissimi per continuare con la DAD, anche perché a nostro avviso sta funzionando più che bene! Poi, in caso di positività nella nostra classe o nel nostro istituto, dovremmo essere sottoposti a tampone, anche questo tutto a spese nostre. Il Comitato tecnico scientifico ha sconsigliato i luoghi chiusi e la scuola risulta essere un luogo chiuso (ma solo perché si chiama scuola ce ne dimentichiamo). Poi in Calabria gli uffici del TAR sono stati chiusi fino ad aprile e le scuole invece vengono riaperte, i contagi stranamente diminuiscono sempre quando è prevista la riapertura delle scuole … Come possiamo notare ci sono molte incongruenze davvero strane! Noi chiediamo semplicemente di dare la possibilità alle famiglie di scegliere individualmente per la salute dei propri figli, se farli continuare in DAD o farli tornare in presenza, perché non è giusto che decida sempre la minoranza per tutti! Siamo in una Repubblica Democratica (o almeno dovremmo) e quindi ognuno deve avere il diritto di decidere per sé!".

Martina e Rita, studentesse 

Cosenza

 

11 gennaio 2021

Cosenza, tagliati alberi secolari alla Villa Vecchia


 Riceviamo e pubblichiamo

Dopo aver distrutto il patrimonio arboreo di Cosenza, l’amministrazione comunale parte all’attacco della storica Villa Vecchia. Sito vincolato alle norme di tutela contenute nella legge n. 1497 del 29/6/1939, ha perso pochi giorni fa due secolari lecci, abbattuti in seguito a una ordinanza del sindaco del 17 dicembre scorso. Si legge nella suddetta ordinanza: «A seguito di sopralluogo del 25.11.2020 il Direttore dell’Esecuzione del Contratto dei servizi di “Gestione, manutenzione ordinaria e straordinaria verde pubblico” della Città di Cosenza, Ing. Antonio Moretti, ha segnalato, con apposita relazione tecnica, agli uffici comunali competenti una serie di criticità legate allo stato di salute di alcuni alberi presenti all’interno della Villa Comunale denominata “Villa Vecchia”, criticità tali da suggerire una serie di misure preventive mirate a preservare l’incolumità pubblica».

Ci chiediamo se l’ing. Moretti si sia avvalso dell’aiuto di agronomi, botanici o di altre persone competenti in materia, visto che lui è un ingegnere, o se il taglio dei due enormi e antichi lecci sia stato effettuato con la stessa leggerezza di tutti gli altri avvenuti in città. Ci chiediamo anche se davvero esiste la relazione tecnica, cosa contiene e perché il taglio è rientrato negli “interventi di somma urgenza finalizzati a garantire la pubblica incolumità”, visto che da un sopralluogo effettuato da alcuni membri del nostro Comitato, accompagnati da un professionista del settore, è emerso che i lecci presentavano dei problemi, ma non tali da giustificare un taglio urgente. Addirittura, uno di essi era quasi sano, sarebbe, dunque, bastato curarli e metterli in sicurezza e avrebbero vissuto ancora per anni. Mai questi alberi sono stati curati, così come la Villa Vecchia è in stato di abbandono da anni, ma a chi importa? E ora si è agito come al solito, invocando la somma urgenza (che non c’era), senza la presenza di un funzionario della Soprintendenza e senza, pare, la presenza dei vigili del Fuoco, come dovrebbe accadere in questi casi, che avrebbero dovuto delimitare l’area e impedire l’accesso.  Perché? Inoltre, l’ordinanza riporta che «avverso la presente ordinanza, è ammesso ricorso al TAR della Calabria – Catanzaro, entro 60 giorni ovvero, in alternativa, entro 120 giorni, ricorso straordinario al Capo dello Stato». Non è stato dato il tempo di poter presentare ricorso, perché?

Abbiamo, inoltre, dato un’occhiata anche alla determinazione dirigenziale, pubblicata il 31 dicembre scorso, avente ad oggetto “Servizio di abbattimento di alberi pericolanti e potature e rimonda del secco all'interno della Villa Comunale denominata Villa Vecchia a tutela della pubblica e privata incolumità - Procedura con affidamento diretto”, da cui si apprende che «Con mail del 23.12.2020 il RUP, Francesco Longobucco, ha inoltrato richiesta di preventivo alla ditta Vivai Tecnofleur S.r.l., al fine di formulare la propria miglior offerta per l’espletamento dei seguenti interventi: alleggerimento chiome, potature, rimozione di rami secchi e monconi (apparato radicale), abbattimento dei soli esemplari pericolanti, in gran parte secchi, nello specifico, lecci n. 2, acacie n. 2, platani n. 2, pinus n. 1, pioppi n. 3, palma n. 1 e sostituzione delle piante abbattute con essenze della stessa specie» e che «le ragioni del ricorso all’affidamento diretto sono rinvenibili nella necessità di espletare il servizio in tempi brevi a tutela della pubblica e privata incolumità giusta Ordinanza Sindacale n. 51/2020».

Riteniamo che la somma urgenza sia stata decisa per ricorrere all’affidamento diretto, pratica molto in uso dall’attuale amministrazione.

Ricapitolando: si abbattono in tutta fretta due lecci secolari non pericolosi, probabilmente senza rispettare alcuna norma, al prezzo di 19.800,00 € escluso IVA, si priva la città di due giganti del verde, situati in un’area storica e vincolata, con la stessa prepotenza con cui è stato maltrattato il verde pubblico cosentino e non si dice nella determina chi fine faranno i resti degli alberi abbattuti. Chiediamo di sapere chi smaltirà i tronchi e i rami dei lecci e dove saranno smaltiti. Siamo sicuri che non avremo risposte, i padroni della città non possono essere disturbati.

Comitato Alberi Verdi

 

05 gennaio 2021

Sila 1950, assalto al latifondo


UNA BANDIERA tricolore sventolava sulle mietitrici al seguito del pulmino per la propaganda itinerante. Le affiancava un camion zeppo di soldati americani ancora presenti sul territorio. Era il 1950: la legge stralcio di Riforma Agraria iniziava a delineare le nuove strategie per lo sviluppo del Mezzogiorno. Ancora massiccia la presenza dei soldati americani che spesso accompagnavano lo staff della propaganda. Semplice passatempo o controllo sulla reale attuazione dei provvedimenti agrari, che sembra siano stati finanziati in parte dai fondi del Piano Marshall? E’ l’aspetto folkloristico del progetto di Riforma agraria che negli anni ’50 investì l’Italia, infondendo nei contadini la speranza di lavoro e di riscatto sociale, presto disattesi poiché la Legge Sila e la seguente Riforma Agraria, pur determinando la liquidazione del latifondo, risposero in parte alla ‘fame’ di terra dei contadini, impedendo la creazione di grandi aziende agricole.


La Riforma agraria in Sila incontrò inizialmente le ostilità di diversi comuni locali, poco disponibili all’attuazione dei programmi che, per la loro componente innovatrice, ‘spaventavano’ amministratori e cittadini. Si pensò, allora, di preparare una campagna propagandistica con l’utilizzo di un pulmino che, dotato di attrezzature cinematografiche da far invidia a Cinecittà, percorreva i comuni calabresi più scettici e proiettava filmati sui risultati ottenuti dall’applicazione dei piani della Riforma nel resto d’Italia.


Le terre, rimaste per troppo tempo nei possedimenti di baroni e marchesi per le antiche concessioni feudatarie, avrebbero potuto risolvere il secolare problema dei contadini, tanto che già in periodo fascista si cercò di risolvere la questione agraria con le opere di bonifica dei terreni, veri e propri modificatori del paesaggio, ma fu solo dopo la caduta del regime che i movimenti per la terra iniziarono spontaneamente ad opera di braccianti e contadini nel marchesato di Crotone ed in Sila, con le stesse forme violente di inizio secolo.


Il tentativo di rivalsa delle masse contadine nei confronti dei baroni e dei loro intermediari gabellotti, indussero una parte delle forze politiche ad intervenire per sottrarre le terre incolte ai grossi latifondisti e destinarle ai contadini, ai limiti della sopravvivenza. In questa direzione, Fausto Gullo, calabrese, Ministro dell’Agricoltura, emanò i suoi decreti contribuendo alla formazione di un tessuto democratico comprensivo di leghe, cooperative, sindacati che presto diedero vita ad una nuova soggettività sociale. Era la Calabria rossa, che per la prima volta nel dopoguerra si organizzò e rivolse l’attenzione alla secolare disgregazione delle campagne, destinandole obiettivi immediati di cambiamento delle condizioni di vita. Il movimento si rafforzò, assunse dimensioni imponenti e divenne un vero e proprio assalto al latifondo, il Governo rispose con una sanguinosa repressione a Melissa, dove i contadini, esasperati per le misere condizioni di vita, tentarono di occupare i terreni incolti di un feudo. Il fatto ebbe risonanza a livello nazionale per l’efferatezza con cui i contadini furono scacciati dalla celere del ministro Scelba e per la morte di una donna.


La fame delle masse rurali costituiva un problema di considerevoli dimensioni e l’orientamento di difesa del blocco agrario mostrava la sua vulnerabilità. Serviva un cambio di linea e nel ’50 venne promulgata la Legge Sila che prevedeva il ridimensionamento delle proprietà dei latifondisti ed in seguito la legge stralcio di riforma agraria che proponeva la distribuzione delle terre ai braccianti agricoli, rendendoli così piccoli imprenditori e non più sottomessi al grande latifondista. La riforma fondiaria fu affidata all’OVS, Opera Valorizzazione Sila, ente costituito nel 1947, che espropriò 75.000 ettari di terreno e ne acquistò altri per un totale di 86.000, accontentando un gran numero di famiglie.


La nuova legislazione prospettò scenari diversi per il Sud, grazie anche all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, momento decisivo di un progetto che voleva dotare il Sud delle infrastrutture necessarie per la creazione di condizioni ottimali per l’industrializzazione. Dopo la promulgazione delle due leggi, nacque l’Opera Sila, ente preposto alla realizzazione della Riforma agraria, che sembra sia diventato subito uno strumento di organizzazione del consenso per la Democrazia cristiana.


Iniziò tuttavia una trasformazione del territorio con l’assegnazione di quote e poderi ai contadini che si dedicarono alla coltivazione di grano e patate. Le quote erano appezzamenti di terreno concesse per la coltivazione nei soli mesi estivi, senza obbligo di residenza e che contribuirono al miglioramento temporaneo della microeconomia locale. I poderi, invece, erano più estesi e dotati di casa colonica e strutture collaterali. Nel momento della consegna all’assegnatario, gli veniva donato anche un pane, un fiasco di vino ed un Crocifisso.


I villaggi calabresi si dotarono subito di servizi e strutture istituzionali di supporto quali scuole, chiese, uffici postali, chiese, negozi, alimentari che oltre a mutare il secolare aspetto del territorio, costituì la struttura logistica di tutto il comprensorio silano per lo sviluppo economico e sociale della regione.

Ben presto furono costruiti impianti di irrigazione per una superficie di 8656 strade, laghi artificiali, 106 acquedotti civili e rurali, 52 strade per 560 Km, borghi e villaggi furono dotati di luce elettrica, rete fognaria, pozzi. Nello stesso periodo si attuò il rimboschimento di varie zone silane dopo la selvaggia deforestazione compiuta alla fine della seconda guerra mondiale, quando il legname servì per pagare i debiti di guerra.


Venne istituita una Scuola di tessitura a San Giovanni in Fiore e qui, nel 1955, arrivò una famiglia dall’Armenia per insegnare alle donne la tessitura di tappeti Kirman, mentre altri corsi di avviamento all’agricoltura e di economia domestica furono organizzati per le famiglie assegnatarie.

La grossa piaga del Sud era ancora l’analfabetismo, si pensò, allora, di attuare corsi di istruzione per adulti e furono avviate scuole elementari, visto che i bambini non frequentavano non solo per la mancanza effettiva di strutture scolastiche, ma anche per l’aiuto che dovevano dare alla famiglia nei campi. Si sensibilizzarono i genitori all’importanza della scuola e quasi contemporaneamente furono organizzate le Colonie estive.

Ben presto, però, i contadini furono posti di fronte alla competizione con gli agricoltori del nord: le zappe di fronte ai potenti trattori non consentivano un lavoro veloce su larghe estensioni di terre. D’altra parte la frammentazione di molti ettari di terra che nel secolo precedente costituivano i fondi dei ‘signori della Sila’, non poteva garantire una produzione agricola omogenea, né una idonea distribuzione commerciale nei mercati.


Solo in pochi casi la riforma produsse redditi adeguati al sostentamento di una famiglia tanto che alla fine degli anni ’50, i figli dei contadini che avevano sfidato miseria ed ingiustizie, ripresero ad emigrare. Nell’arco di un decennio circa, si calcola che oltre trecentomila persone lasciarono la Calabria per trovare lavoro nelle industrie del Nord o all’estero, causando lo svuotamento di tanti paesi ed il conseguente invecchiamento della popolazione. Con il fallimento dei vari progetti industriali che nel corso dei decenni sono stati destinati al territorio calabrese, è doloroso notare come l’industrializzazione non sia riuscita ad affermarsi nonostante i fondi stanziati, le energie profuse, ettari di terre sacrificati in nome di uno sviluppo che non c’è mai stato.

E, per uno strano paradosso, la cooperazione nel Sud era e rimane ancora irrealizzabile, causa anche questa delle attuali condizioni in cui versa il Meridione.    

Cosenza, 28 maggio 2007

© Francesca Canino