‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

22 novembre 2015

Luna Nuova





«Amame, bella mia, si me vo amari» andava ripetendo fra sé e sé Peppino dal momento in cui era arrivato al posto di lavoro quella mattina. Sembrava un disco incantato che, con una frequenza regolare, anzi regolarissima, diffondeva nell’aria il ritornello di una bella canzone. Verso sera, quando si riponevano gli arnesi e già si pregustava il momento del riposo, i colleghi-amici di Peppino, o meglio i cumpagni, come erano detti da queste parti, stanchi per la giornata di lavoro sotto il sole cocente, sbottarono in un «E mo’ basta!».
«Non potete capire – replicò Peppino – lo devo dire per tredici giorni e per tredici notti, sette volte la mattina e sette dopo pranzo. Nella notte, nove volte lo ripeto a piedi nudi davanti alla luna. A Natale mi voglio maritare».
I cumpagni, sbigottiti, rimasero attoniti per qualche minuto, incapaci di pronunciare anche una sola parola. Si guardarono tra di loro e non appena compresero la “faccenda” mancò poco che lo prendessero a botte. Goliardicamente, s’intende! Le parole di Peppino suscitarono risate e commenti ironici da parte degli amici, che in breve lo accerchiarono per la solita pacca amicale sulla spalla, un modo di manifestare il consenso per la soluzione scelta. Non era un segreto l’amore di Peppino per Giulia, la bella figlia del farmacista, che non solo non ricambiava i sentimenti, ma aveva troppi grilli per la testa. Dopo un primo momento di euforia, seguì quello della presa di coscienza di tutta la “faccenda”.
“E’ una cosa complicata – sentenziò il più anziano dei cumpagni – la signorina Giulia è diversa da noi, troppo raffinata, troppo istruita, troppo spregiudicata. E’ cittadina lei. Lasciala perdere, non è per te, prenditi mia cognata che è “dei paesi tuoi” e sarà una moglie come serve a te. Così non resterà zitella e non peserà sulle mie spalle. Prenderemmo due piccioni con una fava: tu ti mariti, che ne hai bisogno, ed io mi libero. Di questo anch’io ne ho bisogno, i braccianti come me, come noi, a malapena riescono ad andare avanti. Meno si è in famiglia, più si mangia! Fai così e saremo compari per sempre”. “Voglio Giulia e la avrò. Se mi vuole, meglio per lei, se non mi vuole, mi vorrà!”.
Andò via dai campi, lasciando gli amici dietro di sé. Il sole non bruciava più, era piacevole ora camminare lentamente e pensare a lei, a Giulia, la più bella del paese, la più ammirata, la più chiacchierata. Era diversa dalle altre, forse perché il padre le aveva permesso di andare in città a studiare. Era diventata maestra, aveva assunto i modi cittadini e anche la mentalità. Ora la guardavano con diffidenza e non faceva vita sociale in paese. Non si può dire che fosse stata proprio emarginata, perché sempre la figlia del farmacista era, ma si era progressivamente autoesclusa dalla sua società. D’altronde, che cosa poteva accomunare una signorina di città con la gente del paese che aveva sempre vissuto, ed ancora continuava a farlo, nella convinzione che il mondo fosse solo il loro paese? Anche Peppino si era persuaso di ciò, nonostante fosse giovane, ed aveva impostato la sua vita come quella di suo padre e di suo nonno. Non era curioso, non aveva ambizioni, a parte sposare Giulia.

Amame bella mia si me vo amari, sinnò ti fazzu amari ccu maijia – ripeteva Peppino – e sabato, alla festa ci fidanzeremo. Così deve essere”. Già, la festa di San Giovanni, patrono del paese, ricorrenza in cui gli innamorati si dichiaravano i propri sentimenti e ne facevano partecipi anche le famiglie per poi sposarsi di lì a poco. Peppino aveva i soldi da parte per fare il grande passo, aveva lavorato per questo da quando aveva terminato i suoi studi: licenza elementare. Era qui che aveva conosciuto Giulia e se ne era innamorato subito.
L’amore di Peppino era rimasto saldo nonostante i cambiamenti  dell’adolescenza e i momenti difficili della prima gioventù. Nemmeno la differenza di ceto gli era mai sembrata un ostacolo, era sicuro che Giulia sarebbe diventata sua moglie. Ora più che mai.
“Bella, bella mia, chissà che stai facendo adesso?” pensò Peppino passando sotto la casa dell’amata che era sempre stata indifferente agli sguardi e ai saluti di lui. In paese tutti erano a conoscenza di questo amore unilaterale, ma era meglio così, lei non meritava un bravo ragazzo come Peppino, uno di loro, mentre Giulia era diversa, criticata e mal tollerata. E poi, da quando era tornata in paese indossando una gonna più corta del normale, nessuno le rivolgeva la parola. Malgrado dalla città arrivassero gli echi di una società che stava mutando radicalmente, i paesani non se ne curavano più di tanto e mostravano diffidenza verso ogni modernità, giudicavano male tutte le cose nuove che i giovani cittadini conquistavano giorno dopo giorno. Dalla radio si apprendeva quotidianamente quanto succedeva in diverse università italiane, degli scontri tra i “giovinastri” capelloni e le malefemmine in minigonne che si permettevano di ribellarsi ai genitori, ai professori, ai preti e perfino alla polizia! Era una situazione blasfema, da condannare e da combattere affinché non prendesse il sopravvento e i giorni scorressero sempre uguali, senza cambiamenti che avrebbero minato uno stile di vita ormai consolidato da secoli.

Giulia, con la sua minigonna, non era altro che una malafemmina, tornata dalla città cambiata in peggio, come dicevano gli anziani del muretto, quelli cioè che ad una certa ora del giorno solevano sedersi su un muretto prospiciente la chiesa per passare il tempo. Sempre allo stesso modo: parlare degli altri, mai positivamente. Adesso era la volta di Giulia, delle sue stranezze di ragazza moderna, dei dispiaceri che dava alla madre, donna integerrima e caritatevole, una rosa da cui era nata una spina. Peppino era al corrente della cattiva fama di Giulia, ma non gliene importava poi tanto, convinto com’era che il matrimonio con una persona seria come lui avrebbe riabilitato Giulia agli occhi di tutti. Un matrimonio riparatore della cattiva reputazione della giovane e che avrebbe reso felice Peppino, così innamorato da non comprendere di essere senza speranze. Una persona semplice come lui, senza cultura, senza fantasia, non si poneva troppe domande, lavorava sodo e questo gli bastava. Non andava quasi mai in città per non perdere tempo, il suo mondo era il paesello circondato da campi e boschetti oltre i quali, da poco, era stata asfaltata la strada che portava in città, subito battezzata dai paesani come “via nova”. Ecco, Peppino non si spingeva  nemmeno fino alla via nova per non sentirsi troppo distante dal suo mondo o più vicino alla città dove viveva gente diversa, moderna. Però fino ai boschetti andavo spesso a fare legna e non solo, andava anche a trovare cummari Milia, una donna sempre disponibile ad aiutare chiunque, medico, farmacista e maestra nello stesso tempo. Una magara. Era tenuta in gran considerazione dalla gente del paese per la capacità di diagnosticare le patologie più disparate che a turno colpivano i paesani, per gli unguenti e le polverine che preparava a seconda del caso, per i consigli e le relative parcelle non proprio popolari che esigeva dai suoi clienti. D’altro canto, una cifra modesta avrebbe svilito la sua arte, ma si accontentava anche di pagamenti in natura. Fu felice di aiutare Peppino insegnandogli una formula magica che lo avrebbe di sicuro portato all’altare con Giulia. Però doveva seguire con precisione le regole perché le formule magiche sono cose serie, “riti scientifici”, usava dire la cummari, quasi a voler combinare religione e scienza, non conoscendo in effetti né l’una, né l’altra. Ma di scienza si parlava spesso nell’ultimo periodo e Milia aveva pensato di adeguarsi a tempi. Così consegnò a Peppino una formula antica da recitare giorno e notte e si raccomandò di essere informata sugli sviluppi. Non volle denaro da lui, perché diceva che quando si può fare un’opera buona non bisogna esitare. In realtà, solo i bei giovani usufruivano del suo principio filantropico!

Peppino prese alla lettera i consigli della magara perché il giorno di San Giovanni era vicino e doveva fidanzarsi. Pensava alla reazione che avrebbero avuto i suoi paesani nell’apprendere la notizia del suo fidanzamento con Giulia, sicuramente sarebbe stato invidiato dai suoi amici e la ‘mmidia' non era cosa buona.
Erano ormai dieci giorni che seguiva la “cura” della cummari, si sentiva vincente e sempre innamorato. Adesso che si trovava sotto la casa di Giulia pensava a cosa avrebbe dovuto dirle la sera della festa, come avrebbe dovuto dichiararle il suo amore visto che non parlavano dalla fine della scuola!
“Sarà il Santo ad aiutarmi, qui è in gioco la formazione di una nuova famiglia!” pensò Peppino e sicuro di ciò se ne tornò a casa. Il mattino seguente, dopo un’altra notte quasi insonne sia per i pensieri d’amore, sia per la formula da recitare nove volte nell’arco della nottata, accusava una certa stanchezza, subito notata dai cumpagni che come al solito iniziarono a prenderlo in giro. L’ironia si sprecava nell’intento di far “scoppiare” l’innamorato, ma Peppino aveva altro a cui pensare.
“Avete sentito che cosa è successo stanotte alla ferrovia di Reggio Calabria?” disse uno di loro. “Ma che ne dobbiamo sapere noi di queste cose? – disse Peppino – Noi siamo braccianti agricoli e basta. Basta!”.

Una strana reazione alla quale seguì un lungo silenzio quasi fino al termine della giornata. Era tormentato dall’indifferenza di Giulia, dai suoi atteggiamenti di ribelle e di ragazza poco seria, a volte aveva paura di non riuscire a realizzare il suo sogno anche se ripeteva la formula alla perfezione. Quella notte non riuscì a riposare, nove volte si alzò per il rito magico da compiere dinanzi alla luna, ma c’erano le nuvole nel cielo che la coprivano e Peppino pensò che fosse un segno nefasto. “Pigliu nu dente de nu niuru cane, n’uossu de muortu chi pagano sia: pigliu na fune de sette campane, na carta scritta de la Sacristia”. 
Si alzò definitivamente prima delle cinque e uscì di casa, attese il giorno, ma non andò nei campi. Aspettò che Giulia uscisse di casa, come ogni mattina e le si avvicinò chiedendole di accompagnarla ovunque stesse andando. Non le diede modo di rispondere che iniziò a parlarle dei suoi sentimenti, del suo dolore per l’indifferenza che gli aveva mostrato. Non riusciva a fermarsi, parlava di tutto ormai, di tutto quello che avrebbe voluto dirle in quegli anni, di come si sentiva ad amare una donna diversa dalle altre, bella e lontana come una stella, un amore che aumentava a dispetto delle malelingue e della differenza sociale. L’avrebbe amata perché ormai era legato a lei da qualcosa di più forte finanche dell’amore stesso. Giulia non si sentiva affatto gratificata dalle parole di Peppino, ma non glielo diede ad intendere, anzi cercava una scusa per sfuggire a quell’amore senza sofferenze per nessuno. Disse che il suo futuro non sarebbe stato al paese, bensì in una grande città del nord d’Italia, dove avrebbe avuto la possibilità di insegnare e di vivere a modo suo. La decisione era stata presa e lui, Peppino, si sarebbe dovuto rassegnare. Invece si sentì invadere dalla rabbia, divenne livido e desideroso di farle provare il male che lei aveva fatto a lui, anzi di più, voleva che tutto il male del mondo lacerasse il suo corpo e la sua anima, imprecava, si batteva il volto con le mani e gridava il suo dolore a voce alta. “A mmenzannotte te fazzu chiamari de Satanassu, ch’è ‘ncommannu a mia, ed a nna cava te fazzu purtari, de notte scura chi lustru nun sia”.

Giulia fuggì via, decise di evitarlo fino al momento della sua partenza per la grande città, si chiuse in casa spaventata per la reazione violenta di Peppino. Solo il giorno della festa uscì e seguì la processione per la via del paese. Sembrava lontano Peppino e Giulia partecipò con piacere ai festeggiamenti. “Un Santo patrono è un Santo patrono, non si può far finta di niente”, pensò fra sé.
Alle nove di sera si diede inizio allo spettacolo dei fuochi d’artificio, forse la parte più magica di una festa popolare e Giulia si appartò per goderseli in pace. Alzò lo sguardo al cielo senza stelle e senza luna, troppe nuvole negli ultimi giorni. Presto i fuochi lo avrebbero ravvivato portando luce e colore negli occhi e nei cuori. Un pensiero interrotto da un movimento fulmineo: Giulia si sentì improvvisamente tirare per la gonna corta, cadde a terra e venne trascinata lontana dalla folla. Nessuno se ne accorse, intenti com’erano ad ammirare i fuochi, nemmeno le sue grida furono udite a causa del fragore degli scoppi. Si accorse che era Peppino ad averla portata lontana dalla gente, in aperta campagna e a spingerla ancora con violenza. Aveva il viso stravolto e biascicava strane parole, incomprensibili, che la facevano rabbrividire. Peppino la condusse in prossimità di un precipizio che delimitava il boschetto e Giulia, in un momento di fredda lucidità, comprese le sue intenzioni e alcune delle parole che pronunciava: “Ed a nna cava te fazzu purtari de notte scura chi lustru nun sia”.

Era tutto inequivocabile, ma Giulia non ebbe il tempo per pensare ad altro perché venne scaraventata con rabbia nel burrone. Il rito doveva essere rispettato. 
Peppino vagò nella notte, pazzo di dolore, prendendosela con la luna che non c'era e negava il suo aiuto agli uomini. Le gridava di uscire dai suoi nascondigli e di aiutarlo. Nessuno lo vide più, ma in paese dicevano di sentire le sue grida in tutte le notti di luna nuova.

22-11-15
©Francesca Canino 

05 novembre 2015

Sguardi a Sud

Donnici, bel suol d’amor

da "Il Quotidiano della Calabria", settembre 2008

CIUFFI di papaveri affiancano il nero asfalto a Sud della città. E’ l’antica strada Consolare che attraverso verdi declivi giunge all’originaria rocca dei Brettii. Qui, negli antichi Campi Dominici, terreni demaniali amministrati dal governatore romano, si rifugiavano i cosentini per sfuggire alle incursioni straniere, formando uno dei Casali più vicini a Cosenza: Donnici. Ea nche uno dei più suggestivi, visto che sorge tra creste e burroni, in un territorio per natura franoso, ricco in passato di acque sulfuree, di mulini a cilindri e case di villeggiatura estiva per i ricchi della città.
Nel 1899, il sindaco Salfi vi inaugurò l’acquedotto del Crati, detto dello Zumpo, che portò ai due Donnici (Superiore ed Inferiore), tre litri al secondo di acqua potabile. Più volte distrutto da forti terremoti che costarono uomini, caseggiati e l’aggregazione al comune di Cosenza nel 1856 (due anni dopo il rovinoso sisma che sconvolse la città), la sua popolazione si è sempre aggirata intorno ai 1300 abitanti. Non gradita da tutti, l’aggregazione si rivelò in breve poco fruttuosa per il disinteresse dell’amministrazione comunale del tempo che le riservò sempre un trattamento marginale, nonostante le risorse del suolo. Già agli inizi del ‘900, era fiorente l’industria dei fichi, del vino, dell’olio, della pasta e una fabbrica di liquori che, con la sua premiata specialità denominata ‘Amaro tonico silano’, sosteneva una distilleria e una raffineria di alcool. Attività produttive, si direbbe oggi, compiute grazie alla fertilità della terra e alla forza delle volenterose braccia dei contadini che non disdegnavano il lavoro pesante e lo difendevano con la fantasia tipica di chi ha pochi mezzi e tanto bisogno. Proprio dalla necessità di proteggere i raccolti in un tempo senza tecnologie, comparirono a Donnici le zucche di Halloween. Non per importazione, solo una pratica rudimentale per tenere lontano i malintenzionati e i predatori notturni dai prodotti ricavati dalla terra. Sembra, infatti, che i contadini del luogo usassero sistemare alcune zucche scavate, con una fonte luminosa all’interno, vicino ai raccolti, in modo da impaurire e allontanare ladruncoli e bestie. Spesso ogni sforzo risultava vano quando si dovevano fronteggiare i capricci del tempo: gli anziani del posto raccontano che molti anni fa, pur non essendo ancora in un periodo dal clima pazzo come oggi, si verificò una nevicata dopo la trebbiatura, cioè a giugno inoltrato, che meravigliò gli abitanti, ma non più di tanto, presi com’erano dalle mille fatiche giornaliere e non ancora tartassati dal ‘bla bla’ mediatico che amplifica ogni evento.

Donnici era ed è un’icona bucolica, dove le grandi famiglie rappresentano le indiscusse protagoniste di un modus vivendi imperniato sui legami familiari e sulla cordialità verso gli ‘stranieri’, destinatari della genuina ospitalità di un popolo estroverso, quello dalla ‘elle’ pronunciata dolce, a guisa di ‘doppia vu’. Non a caso dal 1980, Donnici accoglie in autunno migliaia di persone dai dintorni, per la Sagra dell’uva, festa popolare in grado di coinvolgere il circondario, sebbene sia nata con scopi diversi. E già, perché questa è anche la terra di Bacco, ricca di antichi vitigni che danno il rosso ‘cerasuolo’, riconosciuto vino Doc dal ’71. Ma la scarsezza della produzione e la mancanza di capacità manageriali e di spirito di cooperazione, hanno impedito il decollo di questo importante comparto dell’economia donnicese. In questo contesto, la funzione della Sagra si è discostata, negli anni scorsi, dall’originario disegno che la indicava come momento propulsore per il reparto vinicolo e occasione propositiva per lanciare il prodotto su larga scala. Oggi qualcosa è cambiato, la mancanza, però, di uno sforzo comune in tutto il settore agricolo ha causato l’abbandono delle terre, intensamente coltivate in passato tanto da rifornire la città di prodotti ortofrutticoli, vista la fertilità dei luoghi ancora oggi ‘invasi’ dalla superba macchia mediterranea.

Preservata negli anni ’70 dal Piano Regolatore Vittorini, che destinò il Sud della città a zone agricole, ciò aprì ben presto un dibattito politico che avrebbe segnato il futuro dell’area urbana. Sembra che proprio in quegli anni, svariati interessi politici ed economici spingessero la DC a proporre uno sviluppo urbanistico a Sud, fortemente osteggiato dalla Sinistra (socialisti e comunisti), contraria alla costruzione edilizia in queste zone, destinate a rimanere agricole. Intanto, le trasformazioni sociali impoverivano l’agricoltura e la mancanza di un progetto complessivo da parte delle Istituzioni ne impediva il rilancio. In questo quadro, che vedeva opposti lo sviluppo edilizio alla conservazione non si realizzò il passaggio tra le due parti, probabilmente perché i risultati politici non sarebbero stati immediati. Le conseguenze sono tuttora visibili: oltre all’emigrazione dei giovani verso i paesi viciniori alla ricerca della casa in cui vivere, non si è realizzato lo sviluppo agricolo, nonostante le diverse risorse e il riconoscimento del vino Doc.


Oggi si auspica un progetto di recupero per le attività agricole, a sostegno di iniziative quali l’agricoltura biologica o lo sfruttamento in termini industriali delle acque dello Zumpo, tra le migliori d’Europa. La contrada dalle venti contrade, e oltre (di tanti borghi è, infatti, formata), offre anche un paesaggio ‘verde’ che alcuni del posto vorrebbero utilizzare come richiamo turistico mediante la realizzazione di un agriturismo. Tali progetti, insieme ad una forte cooperazione, potrebbero costituire le basi per uno sviluppo non ordinario, invece le zone a Sud rimangono abbandonate a se stesse e tirate fuori dai media e dagli amministratori per fantomatiche opere colossali che distolgono l’attenzione dalle reali emergenze. Sarebbe necessario un piano ad hoc per le frazioni che non riguardi esclusivamente l’edilizia, ma che sia in grado di sviluppare le risorse naturali e umane presenti in questi luoghi, non una propaggine della città, ma un’alternativa ad essa, fondata sulla propria secolare identità.
Domenico Bisceglia

Dalle fonti storiche si apprende che il cittadino più celebre di Donnici fu Domenico Bisceglia, avvocato, nato nel 1756, incarcerato nel 1794 per aver sostenuto le ragioni dei Casali cosentini sui territori della Sila. Sospetto ai Borboni per le sue idee repubblicane, fu arrestato a Cosenza e incarcerato a Napoli dove, nel 1799, divenne uno dei principali esponenti della Repubblica Partenopea. Caduti i Borboni, fu deputato del popolo ed esercitò le funzioni di Procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Restaurato il governo borbonico, alla caduta della Repubblica Partenopea, fu perseguitato e morì sul patibolo in piazza del Mercato a Napoli, il 28 novembre 1799. 

Il culto di San Michele

La leggenda vuole che secoli addietro, mentre gli abitanti di Piane Crati tornavano da Cosenza trasportando una statua di San Michele per la loro chiesa, furono costretti a fermarsi a Donnici a causa di un temporale. La statua del santo fu sistemata in una chiesetta e quando il cielo si rasserenò, la statua era diventata pesantissima e intrasportabile. Rimase a Donnici e ne divenne il patrono.

5-11-15

©Francesca Canino