C'è
una lapide in piazza Matteotti a Cosenza, posta sulla facciata laterale della
chiesa del Carmine, di fronte alla vecchia stazione, che ricorda la fucilazione
di cinque patrioti, colpevoli di aver incitato alla rivolta i concittadini
durante l'epidemia di colera del 1837.
La
spianata del Carmine, come era denominata in passato piazza Matteotti, era il
luogo prescelto per le esecuzioni capitali, forse perché vicino all'omonima
chiesa in cui venivano tumulate le vittime. Dal '37 in poi, però, nella
spianata furono eseguite solo condanne all'impiccagione, generalmente inflitte
ai cittadini accusati di reati ordinari, differenti dai reati politici di
cospirazione contro il Regno.
Sono,
però, qui ricordati Pasquale Abate, Luigi Stumpo, Carmine Scarpelli, Luigi
Belmonte e Luigi Clausi, ribelli Carbonari autori del moto cosentino del 1837,
i primi cospiratori ad essere giustiziati nel Vallone di Rovito, dinanzi ad un
pubblico disgustato e indignato per il sangue versato e per le vessazioni
subite. Una storia tutta meridionale fatta di rivolte, di Carbonari, di
superstizione e di fede.
Era
l'estate del 1837, la calura avvolgeva la città come le fasce un neonato, forti
miasmi si propagavano per le anguste vie e voci e sospetti sempre più
incalzanti si insinuavano tra la gente, spingendosi in tutti gli angoli della
città fino ad avvolgerla e stritolarla. Il colera si era diffuso a Cosenza,
mietendo moltissime vittime dopo la carestia per le incessanti piogge ed il
forte terremoto del 1835. L'epidemia apparve subito molto grave tanto che non
si individuarono cure adeguate né per il morbo, né per l'altro male ormai
cronico, ossia l'ignoranza in cui versava il popolo impaurito, stremato e
indotto a credere che il colera fosse stato diffuso dagli untori inviati dal
governo borbonico.
Furono,
forse, i Carbonari, nel tentativo di sollevare la popolazione, a diffondere la
notizia che una cassa piena di sostanze nocive era giunta da Napoli a Cosenza
tramite un capitano dei Borboni, il quale aveva poi consegnato il veleno ad un
prete della Chiesa del Carmine. Questi, in occasione della festa della Madonna
del Carmine ricorrente il 16 luglio, avrebbe dovuto 'ungere' quanti più oggetti
possibili nella chiesa per diffondere il grave morbo. Non si sa se l'untore
rimase vittima del suo malvagio operato o se la sua morte, avvenuta esattamente
alla vigilia della festa, fosse accaduta per un puro caso. Risultò tuttavia
provvidenziale, poiché convinse la cittadinanza a gridare 'al miracolo': la Madonna,
come sempre vicina al popolo cosentino, aveva fatto morire il prete traditore
per salvare la città dall'epidemia.
In
poche ore scoppiarono violenti tumulti che sfociarono in una caccia all'untore
e che fece anche alcune vittime, probabilmente innocenti, ma tant'è, la fame di
vendetta del popolo a volte esula dalla ragione per seguire percorsi che i
posteri a fatica comprendono. Ai disordini seguì il linciaggio di due miseri
individui, sui quali era ricaduta l'infamante accusa di essere untori, mentre
l'epidemia di colera si diffondeva così rapidamente da riempire tutto
l'ospedale e da dover predisporre un lazzaretto di fortuna nei pressi della
Riforma.
Centinaia
e centinaia furono le vittime, le autorità borboniche ne contarono oltre
cinquecento e si resero conto che sarebbe stato un pericolo immane se la
responsabilità dell'accaduto fosse ricaduta su di loro. Si pensò, allora, di
addossare le colpe sui Carbonari, accusa che generò dubbi e contrarietà.
Fu
questa la scaturigine di un moto insurrezionale programmato per il 22 luglio.
Uomini armati, provenienti da diverse località del cosentino, si diedero
appuntamento alle Querce di Frugiuele con l'intenzione di marciare sulla città,
occupare l'Intendenza, sbaragliare il presidio militare ed infine liberare i
prigionieri politici, in assetto di rivolta allo scopo di ingannare la
gendarmeria. Un progetto ambizioso che avrebbe dovuto avere ripercussioni in
tutto il Regno, con la diffusione della rivolta in ogni area del Meridione allo
scopo di ottenere l'emanazione della Costituzione.
Sopraggiunse,
però, un imprevisto che impedì ai cospiratori di portare a termine il loro
piano: l'arresto di alcuni ribelli insospettì gli altri Carbonari che decisero
di rimandare l'insurrezione. Alcuni messaggeri furono immediatamente inviati ad
avvisare i gruppi di rivoltosi che si sarebbero dovuti ritrovare a Cosenza. Non
tutti i messaggeri, però, giunsero in tempo per avvisare i ribelli che,
all'oscuro di tutto, si diressero nel luogo stabilito ed attesero invano l'arrivo
dei congiurati. Dopo ore di inutile attesa, essi presero la decisione di
disperdersi ed un gruppetto si avviò verso il catanzarese con la speranza di
sollevare le campagne. I prigionieri, nel frattempo, ignari del rinvio della
rivolta, seguirono il piano e si ribellarono, provocando l'intervento armato
delle guardie.
Altre
rivolte scoppiarono contemporaneamente nell'Italia Meridionale, la polizia
arrestò molti cospiratori e l'Intendente di Cosenza, Giuseppe De Liguoro,
napoletano ed ex ufficiale di gendarmeria che aveva fatto carriera con il
Ministro Del Carretto, arrestò i ribelli ed istituì un Consiglio di Guerra.
A
questo punto delle vicende entrò in scena un personaggio di grande astuzia che
riuscì a rimandare il processo dei ribelli: l'avvocato Gaetano Bova, chiamato
alla difesa dei Carbonari arrestati che propugnò la tesi dell'incompetenza del
Consiglio di Guerra a giudicare i ribelli, poiché essi non erano stati trovati
in flagranza di reato. Ciò secondo quanto stabilito da un decreto del '34
ancora in vigore nel Regno, che prevedeva l'istituzione di una Commissione
Suprema per i reati di cospirazione e non, invece, un Consiglio di Guerra,
idoneo a giudicare solo nel caso in cui l'imputato fosse stato sorpreso in
flagranza di reato o trovato armato.
Si
prospettava, così, una sicura vittoria per i ribelli, ma il vile Intendente
giocò le sue carte e corruppe uno dei giudici affinché cambiasse l'accusa in
'avvelenamento', compiuto nel periodo in cui imperversava l'epidemia di colera.
L'imputazione fu, inoltre, arricchita di
circostanze talmente inverosimili da rendere grottesca l'intera costruzione
della vicenda, ma ai fini pratici la nuova accusa condusse gli insorti dinanzi
al Consiglio di Guerra, che emise condanne a morte per Pasquale Abate, Luigi
Stumpo, Carmine Scarpelli, Luigi Belmonte e Luigi Clausi, mentre altri furono
condannati ai ferri o rimandati alla Corte Criminale; in pochi furono rimessi
in libertà sotto la sorveglianza della polizia.
L'esecuzione
ebbe luogo nel Vallone di Rovito, dove i condannati furono tradotti seguendo la
prassi prevista e fucilati come si conveniva per i reati di cospirazione. Il
Vallone di Rovito, che fino a quel momento era stato uno spazio adibito alle
esercitazioni militari, diveniva ora teatro di esecuzioni per i reati politici,
luogo certamente più funzionale perché vicino alle carceri che allora erano
situate nell'antistante Convento di Sant'Agostino.
Il
colera infierì in città fino al 1838, quando il nuovo Intendente Giuseppe
Parisio nominò una commissione di studio per sconfiggere il morbo. Si decise di
adottare una serie di provvedimenti igienici che allontanarono l'epidemia, un
risultato che determinò il successo della politica sanitaria cosentina, tanto
che essa divenne legge in diverse città del Regno.
Con
la ritrovata salute, Cosenza riconquistò il suo ruolo di città inquieta, in
breve ripresero ad agitarsi le idee liberali che preparano il terreno al moto
del '44 ed allo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera.
L'iscrizione
sulla targa in piazza Matteotti a Cosenza
Il sacrificio e la gloria
di
LUIGI BELMONTE, CARMINE SCARPELLI, LUIGI
STUMPO, PASQUALE ABATE, LUIGI CLAUSI
che raccolsero nella coscienza
l'idealità di tutta una stirpe
e in questa piazza caddero per
piombo borbonico nel 1837
ALTERI E SPREZZANTI
Volle qui Cosenza ricordarli
in perpetuo
affinchè
all'esempio dei prodi che
sorrisero al martirio
e la fede eroica consacrarono
nell'offerta del sangue
l'amore della Patria
si ritempri d'altri vigori e
di fecondi affetti
MCMXLIV
Cosenza, 20 giugno 2020
© Francesca Canino
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