‘’In fatto di giornali non ne comprendiamo che di due specie: o giornali di partito che essendo l’espressione delle idee, delle aspirazioni, dei metodi di un dato partito, servono a propagare e difendere queste idee e questo metodo; o giornali notiziari cui cura precipua deve esser quella di servire il pubblico... Il giornalismo della prima maniera è missione, quasi sempre nobile e bella missione; l’altro è mestiere (nel senso buono della parola) o, se suona meglio professione. Il primo è vecchio, il secondo è giovanissimo e certo tentativo come il nostro in Calabria deve sembrare stoltezza più che audacia. Fra le due specie ve n’è una terza, il giornalismo di questa terza non è molto amico dell’onestà, per esso non esistono principi, fede, coerenza. Oggi sia lode a Dio, domani a Satana purché il ventre sia pieno, ben pieno”.
Cosenza, 3 gennaio 1895
Luigi Caputo, direttore di Cronaca di Calabria

20 giugno 2020

Il colera a Cosenza e il moto del 1837




C'è una lapide in piazza Matteotti a Cosenza, posta sulla facciata laterale della chiesa del Carmine, di fronte alla vecchia stazione, che ricorda la fucilazione di cinque patrioti, colpevoli di aver incitato alla rivolta i concittadini durante l'epidemia di colera del 1837.


La spianata del Carmine, come era denominata in passato piazza Matteotti, era il luogo prescelto per le esecuzioni capitali, forse perché vicino all'omonima chiesa in cui venivano tumulate le vittime. Dal '37 in poi, però, nella spianata furono eseguite solo condanne all'impiccagione, generalmente inflitte ai cittadini accusati di reati ordinari, differenti dai reati politici di cospirazione contro il Regno.

Sono, però, qui ricordati Pasquale Abate, Luigi Stumpo, Carmine Scarpelli, Luigi Belmonte e Luigi Clausi, ribelli Carbonari autori del moto cosentino del 1837, i primi cospiratori ad essere giustiziati nel Vallone di Rovito, dinanzi ad un pubblico disgustato e indignato per il sangue versato e per le vessazioni subite. Una storia tutta meridionale fatta di rivolte, di Carbonari, di superstizione e di fede.

Era l'estate del 1837, la calura avvolgeva la città come le fasce un neonato, forti miasmi si propagavano per le anguste vie e voci e sospetti sempre più incalzanti si insinuavano tra la gente, spingendosi in tutti gli angoli della città fino ad avvolgerla e stritolarla. Il colera si era diffuso a Cosenza, mietendo moltissime vittime dopo la carestia per le incessanti piogge ed il forte terremoto del 1835. L'epidemia apparve subito molto grave tanto che non si individuarono cure adeguate né per il morbo, né per l'altro male ormai cronico, ossia l'ignoranza in cui versava il popolo impaurito, stremato e indotto a credere che il colera fosse stato diffuso dagli untori inviati dal governo borbonico.


Furono, forse, i Carbonari, nel tentativo di sollevare la popolazione, a diffondere la notizia che una cassa piena di sostanze nocive era giunta da Napoli a Cosenza tramite un capitano dei Borboni, il quale aveva poi consegnato il veleno ad un prete della Chiesa del Carmine. Questi, in occasione della festa della Madonna del Carmine ricorrente il 16 luglio, avrebbe dovuto 'ungere' quanti più oggetti possibili nella chiesa per diffondere il grave morbo. Non si sa se l'untore rimase vittima del suo malvagio operato o se la sua morte, avvenuta esattamente alla vigilia della festa, fosse accaduta per un puro caso. Risultò tuttavia provvidenziale, poiché convinse la cittadinanza a gridare 'al miracolo': la Madonna, come sempre vicina al popolo cosentino, aveva fatto morire il prete traditore per salvare la città dall'epidemia.
In poche ore scoppiarono violenti tumulti che sfociarono in una caccia all'untore e che fece anche alcune vittime, probabilmente innocenti, ma tant'è, la fame di vendetta del popolo a volte esula dalla ragione per seguire percorsi che i posteri a fatica comprendono. Ai disordini seguì il linciaggio di due miseri individui, sui quali era ricaduta l'infamante accusa di essere untori, mentre l'epidemia di colera si diffondeva così rapidamente da riempire tutto l'ospedale e da dover predisporre un lazzaretto di fortuna nei pressi della Riforma.

Centinaia e centinaia furono le vittime, le autorità borboniche ne contarono oltre cinquecento e si resero conto che sarebbe stato un pericolo immane se la responsabilità dell'accaduto fosse ricaduta su di loro. Si pensò, allora, di addossare le colpe sui Carbonari, accusa che generò dubbi e contrarietà.
Fu questa la scaturigine di un moto insurrezionale programmato per il 22 luglio. Uomini armati, provenienti da diverse località del cosentino, si diedero appuntamento alle Querce di Frugiuele con l'intenzione di marciare sulla città, occupare l'Intendenza, sbaragliare il presidio militare ed infine liberare i prigionieri politici, in assetto di rivolta allo scopo di ingannare la gendarmeria. Un progetto ambizioso che avrebbe dovuto avere ripercussioni in tutto il Regno, con la diffusione della rivolta in ogni area del Meridione allo scopo di ottenere l'emanazione della Costituzione.
Sopraggiunse, però, un imprevisto che impedì ai cospiratori di portare a termine il loro piano: l'arresto di alcuni ribelli insospettì gli altri Carbonari che decisero di rimandare l'insurrezione. Alcuni messaggeri furono immediatamente inviati ad avvisare i gruppi di rivoltosi che si sarebbero dovuti ritrovare a Cosenza. Non tutti i messaggeri, però, giunsero in tempo per avvisare i ribelli che, all'oscuro di tutto, si diressero nel luogo stabilito ed attesero invano l'arrivo dei congiurati. Dopo ore di inutile attesa, essi presero la decisione di disperdersi ed un gruppetto si avviò verso il catanzarese con la speranza di sollevare le campagne. I prigionieri, nel frattempo, ignari del rinvio della rivolta, seguirono il piano e si ribellarono, provocando l'intervento armato delle guardie.

Altre rivolte scoppiarono contemporaneamente nell'Italia Meridionale, la polizia arrestò molti cospiratori e l'Intendente di Cosenza, Giuseppe De Liguoro, napoletano ed ex ufficiale di gendarmeria che aveva fatto carriera con il Ministro Del Carretto, arrestò i ribelli ed istituì un Consiglio di Guerra.
A questo punto delle vicende entrò in scena un personaggio di grande astuzia che riuscì a rimandare il processo dei ribelli: l'avvocato Gaetano Bova, chiamato alla difesa dei Carbonari arrestati che propugnò la tesi dell'incompetenza del Consiglio di Guerra a giudicare i ribelli, poiché essi non erano stati trovati in flagranza di reato. Ciò secondo quanto stabilito da un decreto del '34 ancora in vigore nel Regno, che prevedeva l'istituzione di una Commissione Suprema per i reati di cospirazione e non, invece, un Consiglio di Guerra, idoneo a giudicare solo nel caso in cui l'imputato fosse stato sorpreso in flagranza di reato o trovato armato.
Si prospettava, così, una sicura vittoria per i ribelli, ma il vile Intendente giocò le sue carte e corruppe uno dei giudici affinché cambiasse l'accusa in 'avvelenamento', compiuto nel periodo in cui imperversava l'epidemia di colera. L'imputazione fu, inoltre, arricchita di circostanze talmente inverosimili da rendere grottesca l'intera costruzione della vicenda, ma ai fini pratici la nuova accusa condusse gli insorti dinanzi al Consiglio di Guerra, che emise condanne a morte per Pasquale Abate, Luigi Stumpo, Carmine Scarpelli, Luigi Belmonte e Luigi Clausi, mentre altri furono condannati ai ferri o rimandati alla Corte Criminale; in pochi furono rimessi in libertà sotto la sorveglianza della polizia.
L'esecuzione ebbe luogo nel Vallone di Rovito, dove i condannati furono tradotti seguendo la prassi prevista e fucilati come si conveniva per i reati di cospirazione. Il Vallone di Rovito, che fino a quel momento era stato uno spazio adibito alle esercitazioni militari, diveniva ora teatro di esecuzioni per i reati politici, luogo certamente più funzionale perché vicino alle carceri che allora erano situate nell'antistante Convento di Sant'Agostino.
Il colera infierì in città fino al 1838, quando il nuovo Intendente Giuseppe Parisio nominò una commissione di studio per sconfiggere il morbo. Si decise di adottare una serie di provvedimenti igienici che allontanarono l'epidemia, un risultato che determinò il successo della politica sanitaria cosentina, tanto che essa divenne legge in diverse città del Regno.

Con la ritrovata salute, Cosenza riconquistò il suo ruolo di città inquieta, in breve ripresero ad agitarsi le idee liberali che preparano il terreno al moto del '44 ed allo sbarco in Calabria dei fratelli Bandiera.


L'iscrizione sulla targa in piazza Matteotti a Cosenza


Il sacrificio e la gloria
di
 LUIGI BELMONTE, CARMINE SCARPELLI, LUIGI STUMPO, PASQUALE ABATE, LUIGI CLAUSI
che raccolsero nella coscienza l'idealità di tutta una stirpe
e in questa piazza caddero per piombo borbonico nel 1837
ALTERI E SPREZZANTI
Volle qui Cosenza ricordarli in perpetuo
affinchè
all'esempio dei prodi che sorrisero al martirio
e la fede eroica consacrarono nell'offerta del sangue
l'amore della Patria
si ritempri d'altri vigori e di fecondi affetti
MCMXLIV
Cosenza, 20 giugno 2020
© Francesca Canino


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