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18 febbraio 2015

Lettera al ministro della Salute


On. Ministro della Salute,

il 12 febbraio si è verificato un evento drammatico che, come Lei stessa ha dichiarato, non dovrebbe mai verificarsi in un paese civile: la morte di un neonato che, nell’assurda ricerca di un posto letto in una UTIN, ha perso quella vita appena sbocciata.

Come Ministro della Salute ma anche, penso, come cittadina italiana, donna, e futura madre, ha inteso interpretare l’indignazione di ognuno di noi inviando immediatamente gli ispettori ministeriali a verificare quanto accaduto e minacciando cadute di teste. Mi pare che Lei interpreti in modo estremamente riduttivo il Suo ruolo di Ministro della Salute, che cosa ha fatto per far sì che casi così drammatici non si verificassero?

Noi della CISL Medici di Cosenza, insieme alle altre sigle sindacali, è da oltre un anno che denunciamo gravi carenze nell’assistenza sanitaria a causa di tagli insensati che, in nome di una millantata maggiore efficienza, hanno di fatto sospeso il diritto alla salute dei cittadini italiani e di quelli calabresi in particolare. In quattro anni di commissariamento per un Piano di Rientro, sotto la regia del Suo Ministero e del MEF, che ha solo tagliato senza organizzare alcunché, avete posto le basi per il verificarsi di eventi tanto drammatici. Anzi, viste le premesse, la cosa strana è che, in fondo, se ne verifichino pochi.

A novembre scorso, obtorto collo, è venuta a fare un giro in Calabria. La invitavamo da un anno ma, dove non poté il grido di dolore di un popolo supplicante, potettero le elezioni imminenti. Venne, al fine, e abbiamo ancora nella mente le Sue espressioni, direi, di schifo per le condizioni strutturali dell’ospedale di Cosenza, le sue promesse di avere la Calabria in cima alla Sua agenda, lo sblocco del turn-over, visite trimestrali per verificare gli stati di avanzamento della riorganizzazione. Marzo è arrivato e a giorni dovrebbe tornare ma, il Governo di cui Lei fa parte, non è stato neanche in grado di nominare il Commissario ad Acta. In Piano di Rientro, senza tale figura, ancorché competente o meno, non è possibile fare nulla.

Il Percorso Nascita che Lei, in TV, dice essere imprescindibile in un paese civile, qui da noi va avanti grazie alla buona volontà e al senso di responsabilità degli operatori della sanità: medici, infermieri ed ausiliari. Nelle altre branche, se possibile, la situazione è ancora peggiore. Rianimazione, chirurgia, medicina, 118, sono allo stremo e ogni giorno che passa la possibilità di eventi drammatici raddoppia. Non aspetti il morto per potersi dolere davanti alle telecamere mandando ispettori. Faccia il Ministro della Salute e non l’equilibrista della politica. Per concludere: se quanto sta facendo per la Calabria significa essere in cima alla Sua agenda, per favore, ci cancelli.

Rodolfo Gualtieri

Segretario Az. Osp. di Cosenza Cisl medici

 

17 febbraio 2015

Cosenza, la città del Tricolore

per la serie ''La città di...''



Una bandiera due storie

 

Dal Quotidiano della Calabria del 9-12-2011

Viatico di vita e di sangue che ha affiancato le grandi giornate del Risorgimento calabrese, il Tricolore di Cosenza è stato il vessillo di gloriosi avvenimenti. Nel 1844 sventolò durante le Idi di Marzo della città bruzia, teatro di una insurrezione locale contro il governo borbonico con obiettivi schiettamente unitari. Qualche mese dopo fu spiegato al vento sul colle della Stragola, nella spedizione dei fratelli Bandiera, condotti poi a Cosenza e fucilati.

I due eventi sono tra loro strettamente connessi, spiritualmente e storicamente: il primo fu la determinante ideale e l'antefatto della spedizione dei Bandiera; il secondo la conseguenza storica che conferma e accentua l'alto valore dei fatti di marzo.

Il Tricolore di proprietà del Comune di Cosenza, che oggi è custodito presso il Museo dei Brettii e degli Enotri, narra due storie parallele, anche se di una sola è stato il protagonista assoluto. Giunto in Calabria con la spedizione dei fratelli Bandiera, da allora il Tricolore è rimasto nella città di Cosenza. Di forte impatto emozionale, sembra di vederlo sventolare nelle campagne di Corfù, ove i Bandiera erano sbarcati per preparare un piano cospirativo. In una lettera del '44 indirizzata a Mazzini scrissero: “La causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura, la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà, dell'Eguaglianza, dell'Umanità, dell'Indipendenza e dell'Unità Italiana”. Con questi sentimenti si imbarcarono sul San Spiridione e approdarono in Calabria sventolando lil Tricolore  E proprio la bandiera costituì uno dei corpi di reato. Fornita a Corfù dal patriota Miller, rimase in potere della polizia in seguito alla cattura dei partecipanti alla spedizione e dopo che, per breve tempo, era stata sventolata sotto il sole della Patria. Essa fu raccolta dall'Urbano di San Giovanni in Fiore, Saverio Foglia, dopo il conflitto della Stragola, il quale la avvolse in un telo incerato e la consegnò personalmente alle autorità di Cosenza. Questa finora la storia ufficiale.

Emilio Bandiera
 
Attilio Bandiera
 
Nell'ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, la bandiera è stata esposta in una mostra permanente allestita al Museo dei Brettii. Dopo averla visitata ho voluto scrivere la sua storia, ma mentre mi documentavo su di essa, mi sono imbattuta in una 'storia' diversa. In un libro del 1939 intitolato “Il Processo ai Fratelli Bandiera” di Luigi Carci, conservato nella Biblioteca Civica di Cosenza, spunta l'ipotesi secondo la quale il Tricolore conservato a Cosenza non sia quello dei fratelli veneziani, bensì la bandiera che sventolò il notaio Francesco Salfi il 15 marzo 1844, durante la sommossa della città. Carci, infatti, scrisse: “Il dotto e acuto storico Comm. Carlo Corigliano, recentemente, lo mise in dubbio, propendendo per la tesi che sia stata la bandiera sventolata dal notaio Francesco Salfi, il 15 marzo 1844, perché corrisponde alla descrizione fatta nel verbale della Reale Gendarmeria, redatto in quella occasione. Quella della spedizione, fornita dal Miller, era una bandiera più grande, con un'aquila gialla nel mezzo, così è descritta dal Sotto Intendente Bonafede nella sua relazione”. Il Tricolore cosentino che Carlo Corigliano aveva dinanzi a sé era una piccola bandiera di lana.

Proseguendo le ricerche tra i documenti custoditi nell'Archivio di Stato, ho trovato, nelle carte della Corrispondenza Ufficiale della Gran Corte Criminale, un'intera busta che contiene gli atti del “Processo de' Calabresi del '44” in cui numerosi sono i  riferimenti alla bandiera, tra questi: “Processo verbale constatante l'attacco alla Gendarmeria Reale avuto luogo con un numeroso attruppamento rivoluzionario armato, il quale portando una Bandiera tricolore, gridando Libertà e Coraggio, si era recato dinanzi al Palazzo di questa Intendenza ed era intento ad aggredire e fare massacrare il sig. Intendente della Provincia. L'anno 1844, il giorno 15 del mese di marzo alle ore 12 italiane in Cosenza noi sergente... caporale... trovandosi tutti riuniti con l'intera compagnia avanti lo spiazzale di questo Carcere Centrale sentimmo delle grida per la città che indicavano una sommossa di popolo. Alla testa dei sommossi una bandiera tricolorata bianca, rossa e verde”. (1844 - Regno delle Due Sicilie Gendarmeria Reale, 3° Battaglione, I Campagna Prov. di Cal Citra circond.).

Il tentativo insurrezionale del 15 marzo fallì e 'rimase in potere della polizia la Bandiera Tricolore che per breve tempo era stata sventolata per la prima volta sotto il sole della patria'.

Tra gli atti della Gran Corte Criminale si trova una descrizione della bandiera che sembra corrispondere a quella attualmente conservata nel Museo dei Brettii: “Volendo poi passare all'analisi dei tre fucili alla paesana, della bandiera... la Bandiera costituzionale a tre colori, cioè verde, rosso e bianco di tela così detta di Francia a tre strisce ognuna della lunghezza di palmi due e mezzo e della larghezza di un palmo e più, posta nell'estremità di una canna ed inchiodata con tre cosiddette tacce. La canna è della lunghezza di palmi 12 e più ed alquanto puntata nel termine inferiore. Tutte le accennate armi e oggetti sono state suggellate a cera lacca con delle strisce di Carta da noi fissate e fatte tornare con una copia del presente al Sig. Procuratore Generale del Re presso questa Gran Corte per l'uso di giustizia”. (Processi Politici 1844 - Gran Corte Criminale, decisioni della Comm. Mil. del 10/7 /'44)

Altri documenti dell'Archivio di Stato (in Processi politici) riportano gli interrogatori dei cospiratori cosentini del 15 marzo '44, in molti citano la bandiera. Il rivoltoso Francesco De Simone racconta come Antonio Raho avesse confezionato la bandiera tricolore inalberata al grido di “Viva Iddio, Viva il Re, Viva la Costituzione” in Piazza dell'Intendenza il 15-3-1844. Il De Simone l'aveva accomodata in un'unica e lunga canna. Il sacerdote Francesco Stella attribuisce, invece, a De Simone la confezione di una bandiera bianca, rossa e verde, che “aveva riunite tre liste di tela in cotone del Regno, della lunghezza di circa due palmi, e di un mezzo di larghezza, una bianca, l'altra color rosso e la terza verde e le aveva seco portate da Cosenza. In questo pezzo di tela tricolore fermato all'estremità di una canna con due piccoli chiodi, componendosi una bandiera”.

Dall'interrogatorio di Raho reso al Procuratore del Re il 24 marzo del 1844, si apprende: “Crebbe maggiormente la mia sorpresa quando vicino al fuoco vidi una bandiera tricolore sorretta da una canna”. In seguito: “Arrivati in città, la bandiera intanto fu consegnata ad un contadino”.

Francesco Tavolaro, un altro partecipante alla sommossa dice al Procuratore: “Al far del giorno, nei pressi di Cosenza vidi che si portava una bandiera tricolore, sospesa ad una canna intorno a cui si gridava: viva la libertà”. 

Le contraddizioni evidenti nelle dichiarazioni degli insorti devono essere attribuite al tentativo che ognuno di loro fece per scagionarsi dalle accuse. La bandiera tricolorata costituiva, come accadde poi per i Bandiera e i loro compagni, un inequivocabile corpo di reato. Nessuno si assunse la paternità della realizzazione per non aggravare la propria posizione. Oggi non sappiamo, dunque, chi realmente l'abbia voluta e cucita per la sommossa del 15 marzo.   

Le ricerche tuttavia non finiscono qui: nei mesi scorsi, nel corso di una conferenza svoltasi per presentare il restauro del Tricolore cosentino, un timbro sulla striscia bianca recante la data del 15 marzo 1937, Anno XV, ha aperto nuovi interrogativi. Il 15 marzo è senza dubbio il giorno in cui scoppiò la sommossa cosentina del 1844, ma che significato si deve dare al 1937? E perchè in un angolo della bandiera sono poste due coccarde, una color giallo ocra con la scritta 'guesin Fiume annessione 1923' e l'altra, un piccolissimo tricolore su cui si legge appena '1929 Minezzo'? 

Ho intuito subito che l'anno 1937 fosse stato timbrato sulla bandiera in occasione dell'anniversario del moto rivoluzionario scoppiato a Cosenza durante l'epidemia di colera del 1837, come attesta una lapide posta in piazza Matteotti a Cosenza, sulla facciata laterale della chiesa del Carmine, di fronte alla vecchia stazione, che ricorda la fucilazione di cinque patrioti. Un secolo dopo era stato deciso di celebrare i moti cosentini del '37 e del '44 nella giornata del 15 marzo. Sarebbe rimasta solo un'intuizione se per caso non avessi trovato al Museo dei Brettii, una cassa piena di antichi documenti, tra i quali un fascicolo contenente la dettagliata cronistoria delle celebrazioni del 1937, organizzate dal Regio Istituto di Storia del Risorgimento Italiano. Fautore dell'iniziativa fu il Presidente Cav. Prof. Michele Scornajenchi, preside di una scuola professionale con sede nell'ex albergo Vetere. Fu un evento grandioso, iniziato molti mesi prima, di cui restano i verbali manoscritti di ogni riunione dei soci, attraverso i quali possiamo ora ricostruire la giornata del 15 marzo 1937. Le celebrazioni si svolsero in tre tempi e in concomitanza di altre cerimonie organizzate nelle città natali dei martiri della spedizione dei Bandiera, venuti a morire a Cosenza per sollevare il popolo calabrese. In quella occasione, dopo una solenne funzione nel Duomo, la benedizione dei loculi dei martiri e un discorso commemorativo da parte di un oratore designato dalle Gerarchie del Partito, i resti dei martiri non cosentini furono riportati nelle città natie, dove ad attenderli c'erano altre celebrazioni in loro onore. Le 'martiri spoglie' attraversarono le vie di Cosenza, affollatissime di persone d'ogni età e in testa al corteo c'era il Tricolore cosentino. Reduci di guerra e gente del popolo lanciavano fiori, piccole bandiere, coccarde. Come quelle che oggi sono apposte ad un angolo della bandiera e che rimandano ad altri momenti della storia italiana. Come l'annessione di Fiume.

Fu prevista anche una Mostra, come si apprende dai documenti, “inaugurata il 2-4-1937 – MMDCXCI Anniversario del Natale di Roma - II dell'Impero – XV dell'Era fascista. Essa illustra i periodi rivoluzionari del 1844 – 1848 e l'epopea garibaldina, espone preziosi cimeli che si riferiscono alle dolorose vicende del 1844. Al posto d'onore brilla nei suoi ancora vividi colori la bandiera che sventolò in Piazza dell'Intendenza, a Cosenza, il notaio Salfi. In Rende invece si sostiene che il vessillifero fosse Gennaro Rovella, in seguito condannato a 30 anni di ferri e la tradizione poggia su un rozzo ricordo poetico che così suonò: C'è Ginnaro di Ruvella, malandrino di galera, zumpa e vula cumu nu grillu e va' piglia la bannera”.

L'oratore fu l'onorevole Maurizio Maraviglia, che in una appassionata rievocazione dell'insurrezione cosentina e delle gesta dei Bandiera, riportata dal giornale 'La Tribuna' del 18 marzo 1937, infiammò gli animi dei presenti e commosse i cosentini citando l'eroismo dei martiri, ai quali: “la morte doveva apparire bella e infinitamente più desiderabile della opaca vita individuale, che non può essere destinata a nulla di veramente grande quando è costretta a risolversi nel vassallaggio collettivo di un popolo che non ha patria, di un volgo che nome non ha”.

La tesi che il Tricolore fosse appartenuto ai martiri delle Idi di Marzo, e non ai fratelli Bandiera, sorse dunque nel 1937. In ogni caso è stato protagonista dei fatti risorgimentali cosentini e le sue vicissitudini le racconta tutte tra le trame a tratti allargate della lana, tra gli orli laceri e tra i segni delle bruciature disseminati sull'intero drappo, quasi una mappa della storia che vi è passata sopra e dei percorsi che si sono incrociati nel corso dei secoli. Il Museo dei Brettii che oggi la custodisce, non è altro che l'antico Convento della Chiesa di Sant'Agostino, luogo in cui i fratelli Bandiera furono condotti per l'ultima messa e qui furono poi riportati per essere sepolti in una fossa lì vicino. E' sicuramente uno dei più antichi d'Italia, anche se non sappiamo ancora come sia diventata di proprietà del Comune di Cosenza, visto che l'unico documento esistente è una dichiarazione dell'ufficio del protocollo, attestante che dal Museo Civico, in data 13 novembre 1952, alle ore 13, la bandiera fu portata nella cassaforte dell'Economato. E non sappiamo a chi sia appartenuta, ma ci piace ora immaginare che sia passata di mano in mano, di martire in martire, dalle Idi di marzo allo sbarco di giugno dei Bandiera, quasi una staffetta ideale che ha accomunato sentimenti e sommosse, cosentini e veneziani che volevano essere solo Italiani.

Ara dei Fratelli Bandiera, Vallone di Rovito-Cosenza
 
 17-2-2015
©Francesca Canino

La foto del Tricolore cosentino è stata già pubblicata sul Quotidiano della Calabria dopo l’autorizzazione che l’allora dirigente comunale mi concesse.

 

15 febbraio 2015

La deriva culturale a Cosenza

Ancora attuale
 
dal Quotidiano della Calabria del 26 aprile 2014
CARMINA non dant panem, con la cultura non si mangia. Con la cultura si mangia, anzi nei vecchi luoghi della cultura si mangia. In città cresce il numero delle librerie che hanno chiuso i battenti e cresce, in modo direttamente proporzionale, il numero dei locali di svago, per la maggior parte mangerecci, che invece hanno aperto i battenti.
Chiusa da qualche tempo la libreria Einaudi di via XXIV Maggio, al suo posto è sorto un circolo ricreativo. Chiuso Mondolibro che si trovava in una traversa di corso Mazzini, al suo posto un altro circolo ricreativo. In procinto di chiudere l'ormai storica Domus di corso d'Italia, al suo posto non si sa ancora cosa sorgerà. I soliti bene informati azzardano che, data l'ampiezza dei locali, qualcuno potrebbe pensare di utilizzarli come sede di un supermercato. Tanto per rimanere nel campo del commestibile. L'anno scorso stava per chiudere la libreria Gallo di via Roma, salva per miracolo e pochi anni fa la città ha perso anche la libreria Giunti situata nello spazio dei Due fiumi. Volgendo lo sguardo al recente passato, non si può non ricordare che la città ospitava un numero cospicuo di librerie: oltre alle due Domus, 'approvvigionava' di libri i cosentini Manigrasso in via Arabia, Il Castello a corso Mazzini con due punti vendita, la Mondadori sempre sul corso, Janni in piazza Fera, Gianna alle Autolinee e qualche altra, grande o piccola, che forse ora ci sfugge.
Si legge sempre di meno, si sa, la frase sembra essere diventata un mantra, in compenso ci si diverte molto di più, come attestano i tanti locali di svago aperti negli ultimi tempi in città e che di notte si riempiono tutti. Dal giovedì al sabato, ma senza disdegnare i primi giorni della settimana, i luoghi in cui si mangia e si beve sono presi d'assalto dalle 21,30 in poi.
La situazione non è del tutto dissimile durante il giorno, considerato che i tavolini dei bar all'aperto sono sempre occupati. Si gozzoviglia, dunque, tra una fiera e l'altra, aspettando l'estate con le sue serate da festini sul lungofiume e si legge sempre di meno. In compenso vengono regalati libri ai nuovi nati, secondo un progetto dell'assessorato regionale alla cultura che ha pensato di donare un libro ad ogni neonato calabrese. Paradossi di un'epoca in cui si è persa la bussola al punto che in città rischia anche di chiudere la più antica istituzione libraria. Il riferimento è alla Biblioteca Civica, per la quale si cercano soluzioni, ma se proprio la si vuol mantenere viva si dovrebbero mandare i libri al macero e al loro posto installare luci psichedeliche, sistemare piste da ballo, divanetti per privè e una fornita cantina con tanto vino quanto quello che di sera scorre nella città dei Bruzi, l'Atene della Calabria.
La deriva culturale, tuttavia, si sta verificando in tutto il paese, Cosenza non è da meno. Siamo tornati all'antico detto di epoca borbonica: feste, farina e forche. Una triade di 'f' che varrebbe anche oggi se non fosse per le forche, fortunatamente abolite. Non sappiamo quale parola che cominci per f potrebbe prendere il suo posto, ma basta pazientare e qualcuno pronto a lanciare un concorso di idee per trovare il termine adatto si troverà. Intanto si mandano i libri in soffitta, spuntano nuovi locali per il divertimento e Cosenza è diventata la città dei balocchi. Spunteranno anche le orecchie d'asino? L'importante ora è non fare più orecchie da mercante.

15-2-2015
©Francesca Canino

 

11 febbraio 2015

Esiste ancora il Pd a Cosenza?


dal Quotidiano del Sud del 31 gennaio 2015
A FINE novembre è emersa con drammaticità la vicenda del Pd romano in seguito all'operazione denominata ''Mondo di mezzo'', che ha portato alla luce un'organizzazione criminale definita dagli inquirenti ''Mafia Capitale''. C'era un partito a Roma che non viveva come partito, ma come un'arena in cui si confrontavano vari personaggi su tessere e clientele. Ciò accadeva nella Capitale. E a Cosenza? Il Pd bruzio è molto diverso da questa fotografia del Pd romano?
Mettendo da parte la vicenda criminalità, estranea al Pd calabrese, l'organizzazione del partito dalle nostre parti non è stata dissimile da quella capitolina. A Roma il Pd non viveva come un partito, non si riconosceva come gruppo collettivo e i componenti si sono combattuti tra di loro ininterrottamente a colpi di pacchetti di tessere o di clientele. Anche a Cosenza, negli ultimi anni, il partito è stata la sommatoria di vari gruppi politici, espressione cioè del potere locale rappresentato dai vari Oliverio, Adamo, Laratta e altri.
Esaminando la realtà del partito sul territorio, emerge che la gran parte dei circoli della provincia non ha una sede. Si deduce che non può esserci un'attività politica continua, ma solo una chiamata ''alle armi'' quando si deve decidere il candidato alle primarie o alle elezioni. Non c'è stato, inoltre, un cambiamento con l'ultimo congresso regionale: l'elezione del renziano Magorno non ha provocato un'inversione di rotta, cioè non si è riusciti né a fare il rinnovamento renziano, anzi hanno dovuto accettare l'elezione di Oliverio alle primarie e alle regionali, né si è riusciti a portare avanti un processo di rinnovamento del partito a livello di uomini e di attività sul territorio. C'è stato solo un rafforzamento dei signori delle tessere, ovvero dei capi dei vari gruppi che detengono il potere delle iscrizioni sulla base di rapporti clientelari, di favori. In provincia ci sono stati casi in cui alle primarie si è verificato un risultato in cui i votanti risultavano maggiori dei voti che successivamente il Pd ha avuto alle elezioni.
A Cosenza ci sono quattro circoli, nessuno ha una sede. Come può svilupparsi, dunque, un'attività politica minimale? L'impressione è che ci si limita a essere appannaggio di questo o quel dirigente e i circoli diventano uno strumento formale quando si devono fare le elezioni. Una degenerazione della politica? Di certo i circoli dovrebbero essere più vicini alla gente. C'è oggi una contraddizione con lo spirito di cambiamento che anima Renzi, nel bene e nel male, in contrasto ancor di più con il passato del partito e con la sua missione che era quella di affiancare le persone. E la gente si è allontanata perché l'omologazione nel modo di far politica coinvolge tutti, non emergono, infatti, differenze tra i diversi partiti. Manca la partecipazione: la conseguenza è che i cittadini non trovano punti di riferimento e alle votazioni si rifugiano nell'astensionismo. Questa passività colpisce anche il Pd in virtù della sua missione. I problemi odierni, tuttavia, scaturiscono anche dal passato della forza di sinistra e si ripercuotono con gravi riflessi sullo stato del paese e della società. Come poter fare cambiamenti se proprio quelli che dovrebbero farli non partecipano perché sono sfiduciati?

Il Partito della sinistra ieri
                                 
 
LA tradizione della sinistra era quella di organizzare un'attività collettiva che vivesse a contatto continuo con la società, con i suoi bisogni e i suoi problemi. L'attività politica era affiancata da momenti di socializzazione nel tempo libero, ricordiamo le feste dell'Unità che davano il senso non solo di un'azione politica, ma anche della presenza culturale e sociale del partito sui diversi territori. Oggi non solo non si è verificata una trasformazione di queste azioni in altre forme adeguate ai tempi moderni, ma essa è scomparsa del tutto. Non c'è il vecchio, né il nuovo, c'è solo il vuoto. Eppure la Costituzione riconosce che la partecipazione alla vita politica dello Stato avviene attraverso i partiti, ma ciò non accade più perché c'è un disancoraggio dalla società. La vita politica è lotta di potere e spesso solo scontro di idee. In passato era diverso. Negli anni '60 e '70, il partito era un punto di riferimento per tutto il paese, specialmente per il Meridione, e riteneva fosse possibile mantenere le Istituzioni non subalterne al clientelismo. Si voleva cambiare una politica fatta di assistenzialismo per avere un Mezzogiorno produttivo che desse lavoro non parassitario. Così si pensava a piattaforme programmatiche, a organizzare i movimenti non sulla carta. Per quanto riguarda le sezioni, esisteva una vita collettiva che favoriva la partecipazione alla  politica, dando la possibilità, specialmente agli strati più deboli, di giungere ad un'elevazione civile con attività politiche nei quartieri da svolgersi attraverso le sezioni. C'era un mondo di società civile che viveva con tutte le interrelazioni, anche per quanto riguarda l'organizzazione del tempo libero. Il tesseramento non mirava a ottenere clienti, ma a far partecipare le persone alla vita del paese.
 
Il Pd cosentino oggi
 
 
Abbiamo posto alcune domande al segretario provinciale Guglielmelli e a Guzzi e Covelli, segretari di due circoli di Cosenza. Con gli altri due non è stato possibile interloquire. A ognuno abbiamo chiesto: Dove sono situate le sedi dei circoli? Che tipo di attività politica svolgono? Come si può essere vicini ai cittadini e alle loro esigenze se non avete una sede? Nello specifico, cosa avete fatto ultimamente per i cittadini? Hanno risposto così:

Luigi Guglielmelli, segretario provinciale Pd «Il Pd è organizzato in 128 circoli in tutta la provincia, a Cosenza ce ne sono quattro, non so se hanno mantenuto una sede perché ci sono difficoltà a sostenere i costi, ma c’è la Federazione provinciale di via Trieste dove ospitiamo tutti i circoli per ogni incontro. Con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti ci saranno sempre più difficoltà. Faccio un’attività di coordinamento dei circoli attraverso un rapporto frequente con i segretari dei circoli, discutiamo delle problematiche che emergono sui vari territori, nell’ultimo anno abbiamo svolto un ruolo sia per le elezioni provinciali che regionali. Consultazioni a parte, la nostra attività politica si basa sulla discussione dei problemi della provincia a cui cerchiamo di dare soluzioni».

Damiano Covelli, segretario del primo circolo Pd Cosenza «Ci incontriamo in Federazione, ma siamo in continuo contatto con il territorio perché stiamo in mezzo alla gente per capire i loro bisogni e soddisfarli. Ci sono dei costi per una sede fissa che non sono sostenibili. Abbiamo denunciato le malefatte e il non governo della giunta Occhiuto. Ci sono state le consultazioni elettorali che hanno impegnato tutto il partito. Cerchiamo di essere presenti segnalando disservizi, come il sistema di videosorveglianza che non funziona, abbiamo speso tanti soldi, installato telecamere in tutta la città e ora c’è un allarme sicurezza. Perché non si interviene? Non interessa a nessuna la sicurezza dei cittadini? Se i cittadini si avvicinassero un po’ di più, avremmo più forza. Il Pd ha le sue difficoltà, ma è l’unico partito organizzato che può dare una nuova prospettiva alla città. C’è disaffezione per la politica e anche un paradosso: facciamo le primarie e tanta gente viene a votare, ma a questa percentuale altissima non corrisponde un altrettanto consenso elettorale».

Tommaso Guzzi, segretario del quarto circolo Pd «Tra commissariamenti provinciali e varie vicissitudini, ci trasciniamo il problema della sede dei circoli. Ci si incontra in Federazione per fare il punto della situazione sulla città. Abbiamo vissuto più di un anno in campagna elettorale, può sembrare di non essere vicini ai cittadini, invece non è così, il Pd esiste, siamo a fianco di tutti. Ci siamo interessati dell’ospedale di Cosenza, mettendo in campo iniziative e della situazione dell’Amaco».
I Giovani democratici cosentini

Saverio Sapia, Giovani Democratici «Nel capoluogo bruzio molto attiva risulta la giovanile. I Giovani Democratici sono presenti con due circoli, quello intitolato ad Aldrovandi, il cui segretario è Gaspare Galli, e quello intitolato al comunista rosarnese ucciso dalla ‘ndrangheta, Peppe Valarioti, di cui sono segretario. In forte controtendenza rispetto all’andazzo del PD cittadino, negli ultimi mesi abbiamo portato avanti diverse iniziative, sulla scorta di un’idea di partito radicalmente opposta a quella del PD. Penso che il ruolo di un circolo della giovanile debba essere anzitutto quello di formare le coscienze politiche dei giovani, ma non ci si può limitare a ciò, soprattutto nel contesto di vacatio politica che caratterizza il centrosinistra cittadino. È necessario sviluppare un percorso politico che dia una dimensione partecipativa alla giovanile e al partito, diversamente alla visione meramente elettoralistica che va sempre più affermandosi nel PD di Renzi. Per fare ciò è necessario coltivare la dimensione dell’ascolto: solo così si può giungere alla riconnessione anche sentimentale con il popolo della sinistra, che potrà sentirsi rappresentato».

 11-2-2015

©Francesca Canino

 

 

 

09 febbraio 2015

Ex hotel Jolly, a che serve abbatterlo?


Il Jolly: una carta da giocare per le necessità


Un paio di anni fa, la Regione ha stanziato sette milioni di euro per abbattere l'ex hotel Jolly. Sette milioni per distruggere un palazzone non pericoloso. Una cospicua somma racimolata in un periodo di vacche magre allo scopo di rendere più bella la città, perché il Jolly è un pugno in un occhio e nasconde una ‘’storica e meravigliosa visuale’’. Queste le motivazioni ufficiali. A nessuno piace. In tanti si sono dilettati a scattare foto dello ‘scatolone’ e a modificarle facendo sparire il Jolly. Sempre in tanti hanno esaltato il panorama restituito virtualmente ai cittadini senza il mastodontico fabbricato. Il problema verte sul fatto che il Jolly è considerato un obbrobrio in mezzo a ‘tanta architettura storica’. Ma il suo abbattimento cosa restituirebbe alla vista del cittadino e del turista?
Un panorama poco edificante. Avete provato a superare l'area del Jolly, proseguendo verso la Massa per un centinaio di metri circa? Sulla destra, in prossimità dello slargo della parte posteriore della Casa delle Culture, si ergono vecchi e fatiscenti palazzi che conferiscono alla zona un'aria spettrale. Abbattere il Jolly per godere della visuale mostrata dalle foto è un assurdo spreco: i fondi stanziati per la demolizione potrebbero essere usati per il recupero del patrimonio in rovina.


































È opinione comune, tuttavia, che il Jolly 'stoni' nell'area in cui è situato. Ma non costituiscono anche una ‘stonatura’ le nuovissime costruzioni realizzate nel quartiere Rivocati o in via Monaco, accanto a palazzine risalenti ai primi del '900? Nessuno dice, in questo caso, di abbatterle né ci si chiede perché non sia stata rispettata l’architettura originale della zona. Due pesi, due misure.

























Avveniristici edifici e bungalows in lamiera sono sorti anche a fianco di alcune secolari costruzioni cittadine. Deturpano l'ambiente, ma nessuno ha mai pensato di abbatterli.















E non viene risparmiato nemmeno corso Mazzini, come mostrano le foto.





Non sappiamo quali siano i criteri utilizzati per stabilire cosa rappresenta un pugno in un occhio e cosa no, visto che obbrobri cittadini ce ne sono tanti. E alcuni pure pericolosi o a ridosso di complessi storici, seminascosti da chioschetti con tanto di insegna commerciale e mercanzia esposta sul marciapiede.

Il patrimonio storico cosentino richiede attenzione e interventi urgenti: i fondi, così come sono stati trovati in tempo di crisi per l'abbattimento del Jolly, si dovrebbero reperire anche per salvare le testimonianze del passato. Oppure si potrebbe solo rinviare la demolizione dell'ex hotel e utilizzare lo stanziamento per recuperare i beni culturali compromessi. Sempre che interessino a qualcuno. Ma in tempi di crisi non si può pensare tanto all'estetica della città, quanto ai bisogni dei suoi abitanti. Tutta quella volumetria - utilizzando i sette milioni stanziati - non potrebbe essere rimodulata in mini appartamenti da affittare, a costi bassissimi, ai cosentini indigenti?



Invece sarà abbattuto, ma non sparirà del tutto perché saranno risparmiati i primi piani, destinati a ospitare il museo di Alarico. Ovvero un contenitore senza 'contenuti'. Al di là delle polemiche sorte sulla decisione di intitolare un museo a un barbaro che portò distruzione e rovina, bisogna chiedersi cosa esso potrà custodire, visto che di Alarico non esiste niente, nessun reperto è stato mai trovato. Anche la rinomata effige attribuita ad Alarico non appartiene a lui, bensì al re visigoto Alarico II, vissuto tra il 484 ed il 507 d.C. nel suo regno in Spagna, come confermato dal Kunsthistorisches Museum di Vienna che la custodisce.
Sarà dunque un museo virtuale, uno spazio occupato da pannelli con testi e disegni di pura fantasia. Sul re visigoto di storia ‘vera’ ne è stata scritta poca, è quasi una leggenda su cui si vuole allestire un museo, peccato che manchino i reperti. Per attrarre turisti non serve un museo virtuale, bastano il duomo, la Galleria nazionale, il castello (quando riaprirà), gli altri siti culturali cittadini e il Museo civico che custodisce centinaia di reperti reali, mentre altrettanti giacciono nei magazzini della Soprintendenza perché non ci sono locali idonei ad ospitarli. Per questi ultimi non si è mai pensato di allestire nuovi spazi e potrebbero rimanere per sempre in umidi scantinati.

9-2-2015
©Francesca Canino

Demolizione ex hotel Jolly, dove sono le autorizzazioni?

Il prossimo 12 novembre inizierà la demolizione dell’ex hotel Jolly. Occorre ricordare che le fasi della demolizione e quelle della ricostruzione dell’ex Jolly Hotel non possono essere scisse, in quanto costituiscono un tutt’uno propedeutico a qualsiasi scelta progettuale e sono da valutare unitamente alle opere che interessano l’ambito fluviale.
Bisogna chiedere, pertanto, se ad oggi:
  • è stata approvata la progettazione definitiva che è legata a doppio filo a quella preliminare;
  • sono pervenute le fondamentali autorizzazioni (VIA);
  • è pervenuta la pronuncia della Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale sull’edificio (ex art. 12 del D. Lgs. 4272004);
  • se esistono tutte le autorizzazioni previste dalla legge;  
  • se è stato attivato il tavolo tecnico tra Amministrazioni (MiBAC, Provincia, Comune) richiesto dal Soprintendente ABAP con nota prot. 8801 del 12.07.2018 “al fine di pervenire a soluzioni condivise per la definizione dell’intervento”;
  • se, come previsto dal bando di gara, poiché detta progettazione definitiva/esecutiva, ricade in ambito territoriale sottoposto a tutela paesaggistica (ai sensi art. 142, c. 1, l. c) è stato acquisito il nulla osta paesaggistico definitivo che mostri la compatibilità delle opere proposte rispetto ai valori paesaggistici del contesto di riferimento.  
È necessario che si esibiscano pubblicamente tutte le autorizzazioni, se sono state acquisite, e che non si proceda con la solita fretta che spesso è “cattiva consigliera”.
È necessario, inoltre, soffermarsi sui divieti di transito e di sosta che saranno istituiti dal 12 al 30 novembre, se tutto andrà bene. Ma con la città nel caos dopo la chiusura di tante strade e soprattutto di viale Parco, con l’eliminazione di tanti parcheggi per la realizzazione della inutili piazze, la chiusura di Lungo Crati cosa causerà alla nostra già impercorribile città? Non si potevano aspettare tempi migliori e soprattutto non prenatalizi - in cui è notorio che il traffico cittadino aumenta - per chiudere altre importanti strade? E infine, come saranno tutelati gli alberi posti dinanzi al Jolly?  

Cosenza, 10 novembre 2018
© Francesca Canino