pagina tre

29 agosto 2018

Metro: cosa nasconde la fretta degli amministratori calabresi?


In seguito agli annunci di questa mattina in merito alla imminente apertura dei cantieri per la realizzazione della metro, si è levata la voce di Mario Bozzo, componente del Comitato No metro, che da anni segue la vicenda e ha voluto, ora, per l’ennesima volta, sottolineare l’inutilità dell’opera e «lo sperpero di soldi pubblici per una infrastruttura che provocherà un danno irreversibile alla città. Si tratta di un progetto obsoleto che costa 160 milioni di euro e che non porterà alcun beneficio, ma solo disastri urbani e perdite, visto che stravolgerà una via di comunicazione strategica per la città e per i paesi limitrofi, che impedirà agli abitanti delle frazioni a Sud di recarsi facilmente a Nord e che abbatterà centinaia di alberi. Il sindaco – continua Bozzo - si giustifica dicendo che creerà un grande parco del benessere, pieno di vegetazione, allora io dico che se si vuole davvero realizzare un parco, si può farlo senza costruire una dannosa e inutile, e sottolineo inutile, metro. Anzi, sarebbe opportuno che il grande parco del benessere fosse realizzato sulle sponde del fiume Crati, a poco più di 100 metri di distanza dall’area in cui è stato previsto il novello parco, senza chiudere la strada al traffico e spostare capziosamente l’attenzione dei cittadini dall’inutilità dell’opera ai benefici del parco urbano». Il sindaco di Cosenza, infatti, volutamente parla del parco urbano e non, invece, della metro, nel tentativo di nascondere la sua mutata idea sulla realizzazione dell’opera.
Oltre all’inutilità dell’opera e allo spreco di denaro pubblico, val la pena soffermarsi anche su alcune irregolarità che sembrano caratterizzare il progetto, ben studiato da tecnici e legali. Ciò che emerge pare siano la mancanza del progetto esecutivo, delle autorizzazioni VIA e VAS, della variazione urbanistica al piano dei trasporti. «Ma anche se esistessero tutte le autorizzazioni richieste per legge, che devono essere tuttavia esibite – precisa Bozzo -  rimane il problema principale, cioè l’inutilità dell’esoso progetto, che ci spinge, come Comitato No metro, a continuare a lavorare con tavoli tecnici-legali per capire bene se le procedure sono state fatte a norma di legge, e con tavoli sociali per sensibilizzare i cosentini sul danno che la metro costituirà per la città. Noi continueremo la nostra mobilitazione sociale e chiediamo che dimostrino, carte alla mano, che è tutto in regola».
Non si può, inoltre, tralasciare di ricordare la raccolta firme contro la costruzione della metro, iniziata oltre due anni fa, che ebbe l’appoggio dell’attuale sindaco in piena campagna elettorale (per il suo secondo mandato) e dei suoi sostenitori. È bene ricordare che la petizione popolare è stata pienamente disattesa – quindi sorgono forti dubbi che le carte siano in regola - sebbene il Comitato abbia compiuto tutti i passaggi previsti e sia stata presentata al comune già da molti mesi.
In data 12 giugno 2017 , infatti, il Comitato No metro, ha presentato insieme ad altri cittadini (in numero complessivo di duecentoventicinque) una petizione avente il seguente oggetto: “Proposta per l’indizione di una commissione popolare sulla metropolitana leggera”, con la quale hanno chiesto al Sindaco “in adempimento a quanto previsto dallo Statuto comunale, di proporre agli organi statutari competenti l’indizione di una consultazione popolare sull’opportunità che un treno, o un treno di superficie passi per viale Parco, modificando irreparabilmente la vivibilità della città e l’assetto urbanistico della stessa”.
La richiesta è stata motivata da una serie di argomentazioni di natura tecnica, economica ed ambientale sulla incompatibilità economica ed ecologica dell’infrastruttura. L’art. 8 dello Statuto comunale al comma 1 prevede che: “La petizione è inoltrata al Sindaco il quale, entro 30 giorni, la assegna in esame all’organo competente e ne invia copia ai gruppi presenti in Consiglio comunale. Se la petizione è sottoscritta da almeno 200 persone, l’organo competente deve pronunciarsi in merito entro trenta giorni dal ricevimento”.
Tutto inutile, di giorni ne sono passati oltre quattrocento e nessuna risposta è pervenuta da parte del Comune e oggi, come dicevamo all’inizio, il presidente della Regione, il presidemte della Provincia di Cosenza e i sindaci di Cosenza e Rende hanno annunciato, quasi a sorpresa e frettolosamente, che nel termine di una decina di giorni partirà il cantiere della metro.
Insomma, “quest’opera s’adda fare” e non ci sono mancate autorizzazioni e vincoli e codici che tengano. Tuttavia, un’ultima domanda è doverosa porla: esiste l’elenco dei titoli abilitativi che consentono l’inizio dei lavori?
Cosenza, 29 agosto 2018


© Francesca Canino

25 agosto 2018

Delitti e misteri calabresi: La tragica morte di Maria Frangella e il sospetto di un violento assassino


LONGOBARDI (CS) - «Il suo corpo era pieno di lividi ed ematomi, riverso sulle lastre di cemento nel giardino di casa. Maria era morta e a trovarla era stato mio fratello al ritorno dal lavoro». È il tragico racconto di Flora Frangella, che, a distanza di ormai dieci anni, ricorda la scoperta del cadavere della sorella Maria, momenti dolorosi che segnarono per sempre lei e il fratello. Questi, capotreno alla stazione di Paola (Cosenza), rientrato a casa dopo una dura giornata di lavoro, si trovò dinanzi a una scena alla quale non avrebbe mai voluto assistere: il corpo senza vita della sorella che giaceva nel giardino della loro abitazione. Il cadavere presentava molti lividi che, secondo Flora Frangella non potevano essere attribuiti solo ad una caduta, seppure mortale. Gli investigatori, però, non ebbero dubbi: si trattava di un decesso puramente accidentale, forse dovuto a un malessere accusato dalla povera Maria, che le aveva fatto perdere i sensi e cadere rovinosamente sulle lastre di cemento o dovuto a una caduta causata da un momento di distrazione che si rivelò per lei fatale. Ma, allora, perché tutti quei lividi sul suo corpo?
Flora non è riuscita a trovare in tutti questi anni una spiegazione plausibile ai numerosi ematomi sul cadavere della sorella e a distanza di circa dieci anni lotta ancora per scoprire la verità e avere giustizia. È convinta, Flora, che le cose siano andate diversamente da quelle prospettate dagli inquirenti e si chiede ancora i motivi per cui a nessuno sia venuto in mente di indagare su come Maria si fosse potuta procurare gli ematomi che aveva sul corpo. Si chiede ancora perché il brutale caso sia stato subito classificato come incidente, nonostante la presenza di segni inequivocabili che raccontavano una storia diversa.
Maria, insegnante di lingue in tre istituti superiori del cosentino, temeva la presenza di un individuo che aveva costruito abusivamente un manufatto sul demanio, per il quale erano sorte delle liti con tutta la sua famiglia. «Nel 2014 questo stesso soggetto - racconta Flora Frangella - ha minacciato di morte me e mia sorella, io l’ho querelato. Sono più che convinta che Maria sia stata aggredita, perché il suo corpo era pieno di lividi ed ematomi. Maria aveva paura di questo soggetto e ciò alle autorità competenti era stato anche segnalato. Ora sono passati circa dieci anni e non riesco a darmi pace perché ancora non so come sia morta mia sorella, nonostante abbia chiesto alla Procura di Paola di disporre l’autopsia ed esaminare il DNA dei vestiti».
Perché non è stata fata l’autopsia dopo la scoperta del cadavere? Perché non sono state esaminate le eventuali tracce di DNA sui vestiti di Maria? Sono questi gli interrogativi che dilaniano l’esistenza di Flora, alla ricerca di risposte che possano far luce sul caso. Secondo Flora Frangella, una caduta non può provocare tutti i lividi che Maria aveva sul corpo, segni, invece di una violenta aggressione che la donna aveva subito prima di morire. Ma il grande mistero rimane l'archiviazione del caso come incidente, visto che la vittima era stata la destinataria di pesanti minacce da parte di un tipo poco raccomandabile che spadroneggiava nei luoghi i cui Maria viveva.
Cosenza, 25 agosto 2018
Ⓒ Francesca Canino
       

22 agosto 2018

Appello per Cosenza vecchia


Le raccapriccianti foto che vi mostriamo sono state scattate all'interno di un edificio pericolante situato a Cosenza vecchia, precisamente in via Campagna. È abitato. Non intendiamo aspettare inermi la solita tragedia annunciata, ma agire per tentare di mettere preventivamente in salvo i residenti del centro storico e per proteggere i luoghi della nostra storia dalla distruzione già iniziata.






Non sono bastati i reiterati crolli, i convegni, i libri bianchi e i servizi giornalistici a destare l’interesse dell’amministrazione comunale sulla città vecchia. Eppure, negli ultimi anni, Cosenza è stata la città dei cantieri, ma nessuno di essi è stato aperto per risanare almeno le parti più pericolanti del centro storico. Neanche dopo il primo, eclatante crollo che ha attirato, mesi e mesi fa, l’attenzione, artificiosa, di politici, amministratori, studiosi e tecnici. E mentre si susseguivano promesse, chiacchiere istituzionali, passerelle propagandistiche, programmi elettorali basati sul centro storico, quest’ultimo ha perso altri pezzi, a volte anche per mano dell'amministrazione comunale che, senza nemmeno chiedere le dovute autorizzazioni, ha abbattuto edifici di interesse storico.
A distanza di molto tempo ormai dal primo crollo e dinanzi all’immobilità di quanti, in sede di passerella, si dicevano pronti a intraprendere una battaglia per evitare la perdita sia di vite umane che del patrimonio storico-artistico della città, è chiaro che Cosenza vecchia e i suoi problemi non interessano a nessuno. È inaccettabile che nessuno prenda provvedimenti per scongiurare distruzione e morti, la vita dei residenti-contribuenti del centro storico vale davvero così poco?
Non è semplice intervenire laddove gli edifici pericolanti risultino appartenenti a privati, ma una soluzione deve essere individuata per evitare di dover contare i morti. L’art. 7 della Legge 2248/1865, all. E, dispone che “l’autorità amministrativa per grave necessità pubblica può senza indugio disporre della proprietà privata con decreto motivato e senza pregiudizio dei diritti delle parti”.

Cosenza, 22 agosto 2018
Francesca Canin

19 agosto 2018

Anche la chiesa nemica del verde urbano: tagliati gli alberi di SANTA TERESA



Il massacro degli alberi di Santa Teresa, avvenuto circa una decina fa, è l’ennesima dimostrazione della mancanza di sensibilità di certuni nei riguardi del verde urbano. Le azioni compiute su conifere che sono state malamente capitozzate e su una palma sana che è stata abbattuta completamente non passano inosservate, né sono state ammantate, questa volta, del solito silenzio dei cittadini, sebbene gli alberi in questione si ergessero in una grande aiuola di proprietà della chiesa. Un’area privata, dunque, su cui il legittimo proprietario può fare ciò che vuole. Per questo motivo, la protesta non si è potuta concretizzare con azioni dirette a fermare lo scempio, ma si è sollevata ugualmente e con toni abbastanza duri e di condanna verso chi ha predisposto il taglio degli alberi. Un segno, questo, che dimostra palesemente l’accresciuta sensibilità, rispetto agli anni passati, dei cittadini nei riguardi del verde urbano. È, invece, ancora presente negli amministratori e in tanti privati il disinteresse verso l’ambiente, che periodicamente diventa oggetto dei loro scellerati attacchi, sia per evitare di fare l’ordinaria manutenzione, che ha dei costi, sia per “fare ingrassare’’ le ditte che svolgono il lavoro di taglio e pulizia e le centrali a biomasse in cui viene scaricato il legname tagliato. Il solito business che abbiamo scoperto già da anni, ma che non si riesce a bloccare.



Risultano, poi, alquanto risibili e prive di fondamento le scuse addotte a difesa dei tagli nell’aiuola di Santa Teresa, visto che la palma era in perfetta salute, che non esiste una relazione stilata da un agronomo e che le conifere capitozzate necessitavano solo di una normale potatura. Si deve aggiungere che non è la prima volta che il parroco si lascia andare a distruzioni del genere, infatti, un paio di anni fa ha pensato bene di fare abbattere, senza ragione, dei grossi pini che sorgevano nel giardino della chiesa che aggetta su via Roma e su via Santa Teresa, come si può notare dalle foto.








Indigna assistere alla distruzione dell’ambiente per arricchire i soliti noti e indegno è chi si rende complice di questo ingiusto arricchimento ai danni della natura e della salute delle persone. Ignobile, poi, quando la distruzione degli alberi avviene per mano dei preti, che si trovano a gestire patrimoni per i quali non hanno versato una goccia del loro sudore per ottenerli e che in dispregio del loro credo distruggono il creato. Come possono essere credibili quando si riempiono ipocritamente la bocca delle parole della “Laudato Si”, l’enciclica sull’ambiente? Ma si sa, nel mondo chiesastico si predica bene e si razzola male e quanto accaduto anche a Santa Teresa non ne è che un’ ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno.
Cosenza, 19 agosto 2018
© Francesca Canino
    


18 agosto 2018

Delitti e misteri calabresi: Il rogo di corso Telesio del 18 agosto 2017


Un accesso sbarrato e tre persone e un cagnolino arsi vivi, chi ha chiuso quella porta? 

COSENZA - «Abbiamo tentato di salvarli precipitandoci al loro portone non appena abbiamo visto il fumo uscire dall’appartamento, ma varcato il cortile e giunti davanti all’ingresso della casa in fiamme ci siamo trovati davanti a una porta sbarrata. Strano, il portone era sempre aperto. Sempre. Quel maledetto 18 agosto, invece, la porta era stata chiusa dall’interno e ci ha impedito di salvare tre vite. Le fiamme divampavano con una velocità paurosa, il fumo avvolgeva ogni cosa al punto che non si vedeva quasi nulla, fuori un caldo torrido eccezionale e noi che cercavamo in ogni modo di salvare quelle povere vite».
C’è incredulità e sgomento nelle parole pronunciate dai vicini di casa della famiglia Noce, spettatori addolorati della tragedia consumatasi a corso Telesio, nel centro storico di Cosenza, il 18 agosto dello scorso anno, in cui hanno trovato la morte Antonio Noce, suo nipote Roberto Golia e la convivente di quest’ultimo, Serafina Speranza. E anche il loro cagnolino.

Il racconto di chi ha cercato di aiutarli è drammatico, gli amici e i conoscenti ripercorrono i momenti dell’apocalisse, sentono ancora addosso il terrore di quel pomeriggio rovente, segnato dalle fiamme e dal denso fumo che aleggiava sulla città: «Nel primo pomeriggio, una grossa colonna di fumo ha invaso una parte di Cosenza vecchia, abbiamo capito subito che proveniva dalla casa dei Noce. Molti residenti si sono dati da fare per avvertire i vigili del fuoco e il 118, mentre dall’appartamento in fiamme provenivano le urla disumane di Serafina, che chiedeva aiuto e ci diceva che stavano morendo. Il cagnolino abbaiava sul balcone. Abbiamo cercato di sfondare il portone, ma invano perché ben chiuso. Conoscevamo bene le abitudini dei tre e sapevamo che il portone della loro abitazione era sempre aperto». Perché quel pomeriggio era chiuso?
Constatato che l’accesso principale era sbarrato, ai residenti e agli amici accorsi in aiuto sono bastati pochi secondi per capire che tutto sarebbe stato più difficile e che quel che sembrava una disgrazia si stava infittendo di mistero. Proprio il portoncino - ben chiuso – ha subito alimentato il sospetto di una trappola in piena regola, ordita da qualcuno che, dopo aver innescato il fuoco, ha sbarrato l’ingresso, nell’intento forse di imprigionare definitivamente le tre vittime.  E a suggerire questo particolare inquietante – già nell’immediatezza dei fatti – sono stati alcuni testimoni: molti di loro i primi soccorritori. Da chi era stato chiuso il portone?
«AVVOLTI DA LINGUE DI FUOCO» - Per un attimo Antonio avrebbe provato a sfidare la sorte: «Buttati, buttati - gli hanno detto gli amici - ma non c’è riuscito, l’altezza gli ha fatto troppa paura, quanto le fiamme. E, quasi come se si fosse rassegnato all’idea della morte,  è ripiombato tra le lingue di fuoco. Non lo abbiamo più visto, purtroppo».
Mezz’ora appena e l’intero edificio è stato avvolto dalle fiamme. Lingue di fuoco alte e prepotenti, che hanno incenerito suppellettili, scale e solai in legno. E che i pompieri, impegnatissimi in altre zone della provincia a causa dei numerosi incendi dello scorso anno, hanno cominciato a domare poco meno di trenta minuti dopo lo scoppio dell’incendio, dovendo prima anche imbattersi in un grosso intoppo: l’idrante di fronte alla casa infuocata era fuori uso. Ciò li ha costretti ad attaccare le pompe agli appartamenti vicini, così trovandosi a dover fare i conti con la carenza idrica che s’abbatte periodicamente sulla cittadina bruzia. Una lotta contro il tempo fino all’arrivo dell’autobotte: intanto, le fiamme si sono propagate irrimediabilmente al piano superiore, dove le tre vittime hanno cercato riparo nella remota speranza che qualcuno sbloccasse l’accesso all’abitazione. Le lingue di fuoco, alte e foriere di morte, in breve hanno avvolto tutto il palazzo.

IL TERRIBILE EPILOGO - Le urla disperate e l’abbaio continuo del loro cagnolino lentamente si sono affievolite. Le dimensioni del rogo hanno impedito l’accesso a chiunque: le cianfrusaglie raccolte nel tempo dalle vittime – avvezze a portare in casa ciò che trovavano per strada - hanno concorso a innescare la bomba letale. E così, in poche ore, è andato tutto in cenere: anche i corpi di Antonio, Roberto e Serafina. Un fuoco ardente per oltre quattro ore e la grossa quantità di acqua riversata per domarlo ha aumentato il rischio dei crolli. Dei loro corpi non è rimasto un granché: tirati fuori dalle macerie soltanto il giorno dopo, si sono mostrati irriconoscibili, tanto che per il riconoscimento si è ricorso all’esame del DNA. Nei mesi successivi, sono stati celebrati i funerali delle tre vittime in cattedrale, senza i resti dei loro corpi, restituiti ai familiari solo poche settimane fa.

IL SOSPETTO È CHE IL PORTONE SIA STATO CHIUSO A CHIAVE VOLUTAMENTE Le tre vittime – come tante altre persone che vivono nel centro storico di Cosenza – erano gli emarginati della società, la stessa che chiede giustizia. Ma si è davvero trattato di incendio doloso? Gli inquirenti hanno passato al vaglio i filmati girati con gli smartphone dagli abitanti che hanno assistito alle fasi più terribili del rogo. Nelle loro mani ci sono anche le riprese di alcune telecamere di zona, che potrebbero aver immortalato qualcuno uscire proprio dal vicolo che dà l’accesso alla palazzina andata a fuoco.
A distanza di un  anno esatto, non si può ancora escludere che vi sia stato un ideatore in questo piano criminale e che non abbia agito al solo scopo di spaventare o minacciare i tre sciagurati. L’obiettivo era uccidere? Questa la pista privilegiata dagli investigatori.

«INDAGHIAMO ANCHE PER OMICIDIO» - La Procura di Cosenza ha ipotizzato la matrice dolosa della disgrazia dopo aver ascoltato i testimoni e aver constato il portone di casa serrato. Le indagini sono andate avanti in questi mesi, ma non sono state ancora chiuse, si segue la pista dell’omicidio. Per gli inquirenti resta improbabile, intanto, l’ipotesi che Antonio, Roberto e Serafina possano aver giocato con il fuoco, per cuocere qualcosa o per altro.
I LIBRI ANDATI IN FUMO – L’incendio sviluppatosi nello stabile in cui viveva la famiglia Noce, si è propagato nel corso delle ore anche all’edificio adiacente, un palazzo storico appartenente a un privato, Roberto Bilotti, che da poco lo aveva ristrutturato e arredato per poter ospitare anche importanti eventi. Una buona parte di esso è andata in fumo, si sono, infatti, bruciati mobili, quadri e una libreria contenente – a detta di Bilotti – testi antichi, tra cui una copia del De Rerum Natura Iuxta Propria Principia del filosofo cosentino Bernardino Telesio. Il proprietario Bilotti, che da tempo aveva segnalato alla procura – come si è affrettato a dire ai media nazionali e internazionali – la pericolosità dei Noce per il suo patrimonio, deteneva anche manoscritti, documenti, incunaboli. Nello specifico, Bilotti ha sottolineato che i componenti della famiglia erano soliti accendere il fuoco per cucinare o per riscaldarsi e che questo avrebbe potuto costituire un pericolo per i suoi beni. Nei giorni successivi, è stato escluso che l’incendio fosse partito dalla casa delle vittime ed è emerso che il patrimonio librario di Bilotti era meno prezioso di quanto egli stesso aveva, nell’immediatezza, affermato e che era sconosciuto non solo alla Soprintendenza archivistica della Calabria, come ha fatto sapere il soprintendente Mario Pagano con una lettera inviata ai giornali il giorno dopo l’incendio, ma anche alle personalità del mondo culturale e politico cittadino.
Cosenza, 18 agosto 2018
© Francesca Canino   

16 agosto 2018

Delitti e misteri calabresi: Le inspiegabili sparizioni dell'istituto Papa Giovanni


Giuseppe aveva 42 anni quando ha esalato l’ultimo respiro all’istituto Papa Giovanni 
che lo ospitava da anni. Un alone di mistero rimane ancora oggi sulle cause della morte, peraltro i suoi familiari non hanno ricevuto alcuna documentazione relativa al decesso. La triste storia di Giuseppe, un giovane con problemi mentali rinchiuso in diverse strutture psichiatriche da quando era un bambino e deceduto improvvisamente, si inserisce nella sconvolgente vicenda dell’Istituto Papa Giovanni XXIII (IPG) di Serra d’Aiello, in provincia di Cosenza, che da casa di accoglienza divenne casa degli orrori.
Il giovane giunse nella struttura nei primi anni ’90, dopo essere stato ospite in vari istituti. Già da quando era un bambino, la madre, che soffriva di una grave forma di depressione, decise di rinchiuderlo in un istituto perché manifestava alcuni disturbi psichici. La sua è stata una vita di sofferenze e incomprensioni: spesso veniva incatenato al letto e dimenticato dagli stessi operatori sanitari che avrebbero dovuto prendersene cura. Egli rappresenta l’emblema dell’indifferenza della nostra società, che miete vittime, non lenisce le sofferenze umane e calpesta i diritti dei più deboli, come Giuseppe, che morì improvvisamente nonostante una relazione medica di pochi giorni prima stabiliva un “lieve miglioramento delle condizioni del paziente affetto da ritardo mentale con turbe del comportamento”. Una morte inspiegabile.
L’IPG di Serra d’Aiello: Un caso che non rappresenta, tuttavia, un episodio isolato: l’Istituto Papa Giovanni di Serra d’Aiello, infatti, fondato per accogliere le sofferenze dei malati e dare loro sollievo, fu teatro di fatti inquietanti, aventi come protagonisti malati di mente, anziani, disabili, gente sola e abbandonata a se stessa. Un lager di ripudiati. Eppure, il suo fondatore, don Giulio Sesti Osseo, che aveva costruito la struttura negli anni ‘50, era una persona di grande umanità. Costretto in modo subdolo dalla Curia cosentina ad abbandonare la gestione dell’istituto circa mezzo secolo dopo la sua fondazione, don Giulio si ritirò e il Papa Giovanni fu affidato a don Alfredo Luberto. Sotto la sua gestione si verificò il declino della struttura e la trasformazione della casa di accoglienza in “clinica degli orrori”, malgrado gli esosi finanziamenti che la struttura riceveva. Introiti consistenti provenienti dai beni personali dei malati e dai contributi che la Regione Calabria erogava per l’assistenza ai numerosi degenti dell’istituto, migliaia e migliaia di euro inghiottiti dall’avidità del prete che viveva in una lussuosissima casa. Impreziosita da disegni di De Chirico, di oggetti d’oro e d’argento, da una scultura di Manzù, da mobili di lusso, sauna e palestra in mansarda, la casa di Luberto custodiva anche stilografiche preziose e rare collezione di orologi. Il prete con la passione per le moto, nipote a sua volta di un sacerdote cosentino, non si preoccupò mai di lasciare per settimane intere i degenti in mezzo alla sporcizia, tra zecche e scabbia, letti malmessi e senza coperte, finestre rotte anche d’inverno, a fronte di una retta giornaliera per ogni ricoverato pari a circa 150 euro, di cui solo 10/15 euro venivano spesi realmente per i malati. Per questi motivi fu indagato e sospeso a divinis, arrestato nel luglio del 2007 con l’accusa di aver distratto centinaia di migliaia di euro dalle casse del Papa Giovanni. In primo grado fu condannato col rito abbreviato a sette anni di reclusione, in Appello si chiesero cinque anni, pena confermata in via definitiva dalla Cassazione per truffa aggravata, utilizzazione di diffuse fatturazioni per operazioni inesistenti, falsificazioni di documenti contabili e malversazioni contro i degenti della casa di cura psichiatrica di proprietà della Curia cosentina. Gli imbrogli di Luberto coinvolsero anche amministratori e personale della struttura, fu indagato perfino l’allora vescovo di Cosenza, Giuseppe Agostino, che avrebbe dovuto vigilare e che invece lasciò Luberto libero di disporre dei fondi dell’istituto, mentre anziani, paralitici, malati di mente, mutilati, povera gente spesso non voluta dalle famiglie era trattata senza umanità, tra sporcizia, fame, degrado.
Ma l’orrore va oltre. La magistratura si trovò presto di fronte a casi di sparizioni, morti sospette, lesioni gravi, forse anche un traffico di organi. Su queste aberrazioni si aprì un’inchiesta per far luce sulla scomparsa di una decina di ospiti, mai ritrovati. Che fine hanno fatto questi degenti? Si sono allontanati dall’istituto alla ricerca della libertà o sono stati fatti sparire – come hanno ipotizzato gli investigatori – perché qualcuno voleva appropriarsi dei loro beni o dei loro organi?
Non trascorse molto tempo che saltarono fuori le stranezze delle cartelle cliniche, compilate tutte allo stesso modo, con diagnosi uguali. Molte di esse, relative ad alcuni ammalati, non furono mai trovate e tanti decessi non vennero neanche registrati. Si ipotizzò che dietro a ogni decesso non registrato vi fosse l’ombra di un omicidio.
Il monsignore avido: Ma torniamo al sacerdote Luberto, costretto a dimettersi da presidente della fondazione Papa Giovanni dopo una serie di riscontri. Nei giorni precedenti all’arresto, circolavano voci su fatture per viveri ‘fantasma’, merce che non corrispondeva a ciò che realmente arrivava nei magazzini. La gestione personalistica dei fondi destinati all’istituto aveva arricchito il prete-presidente sulla pelle dei poveri degenti. Il sacerdote Luberto milionario e gli ammalati tra le zecche, il freddo, la fame.
In questa sconcertante storia ci fu un episodio che scosse l’opinione pubblica e che decretò la fine dell’istituto: lo sgombero della struttura disposta dalla Procura di Paola il 17 marzo 2009. In piena notte, oltre 300 ospiti del Papa Giovanni furono trasferiti in altre strutture sanitarie della provincia, all’improvviso, all’insaputa dei familiari e soprattutto senza un motivo. Anziani e ammalati furono costretti ad alzarsi dai letti e a lasciare l’istituto in pigiama, senza avere il tempo di prendere le loro povere cose, tra urla, terrore, lacrime. Le immagini dei telegiornali trasmesse il giorno dopo l’evacuazione rimasero impresse nella mente di tutti e aprirono uno squarcio sulla clinica degli orrori: nessuno poteva più ignorare cosa accadeva a Serra d’Aiello. Perché la Curia cosentina non impugnò l’ordinanza per evitare il trasferimento degli ammalati? Rimarrà uno dei tanti enigmi della vicenda.
Il mistero degli scomparsi: I riflettori, a questo punto, si accesero sui pazienti scomparsi e sulle morti misteriose. La Procura di Paola ordinò la riesumazione di settanta salme custodite nei loculi del cimitero di Serra d’Aiello per accertare, con l’esame del DNA, che corrispondessero agli scomparsi. Furono riscontrate diverse anomalie durante l’ispezione, tra cui la presenza in alcuni loculi di due bare, realizzate appositamente di una dimensione più piccola del normale per farle entrare in un unico loculo. Ad un successivo controllo effettuato nel febbraio del 2010, con l’apertura delle singole bare si trovarono più corpi all’interno della stessa bara o corpi tumulati e successivamente spostati da una bara all’altra. Le ricerche non sortirono gli esiti sperati, dei fantasmi del Papa Giovanni non vi era neanche l’ombra. Scomparsi nel nulla e l’ipotesi del procuratore di Paola, cioè la sepoltura clandestina dei degenti, rimase senza riscontri.
Gli inquirenti cercarono anche di far luce sulla morte misteriosa di sette pazienti, tra cui Giuseppe, senza giungere ad alcun risultato.  
I misteri permangono.


Cosenza, 16 agosto 2018
©Francesca Canino