pagina tre

13 febbraio 2020

L’elefante fossile di Cecita, una vergogna calabrese



Nel mese di dicembre del 2017, la Soprintendenza archeologica della Calabria presentò in pompa magna il ritrovamento di uno scheletro fossile completo di Elephas Antiquus, rinvenuto nel lago Cecita. Una specie estintasi circa 30.000 anni fa. Un vero tesoro archeologico. Nel corso del convegno fu dato un annuncio importante: il fossile estratto dal lago sarebbe stato mandato presso l’Università del Molise per essere studiato e datato con il carbonio 14. L’incarico fu affidato alla dottoressa Antonella Minelli. La regione Calabria promise un congruo finanziamento per coprire le spese sostenute per gli scavi, per lo studio e per il restauro dei reperti, i quali, infine, sarebbero dovuti tornare in Sila per divenire attrazione turistica. 
L'ex presidente della Regione Mario Oliverio, uomo della Sila, si mostrò molto soddisfatto per la scoperta del fossile, ritrovamento che avrebbe potuto arricchire l’offerta culturale del nostro territorio, che lui amministrava. Ma, a due anni di distanza dal ritrovamento, nessuno studio e restauro è stato effettuato sui fossili dell’Elephas. Gli studiosi e gli appassionati aspetteranno invano. Perché? Nessuna responsabilità deve attribuirsi alla Soprintendenza, né tantomeno all’Università del Molise, dove i reperti giacciono ancora impacchettati da oltre due anni. È la Regione Calabria ad aver mostrato come sempre poca serietà e interesse, poiché in tutto questo tempo NON HA EROGATO il finanziamento promesso e, dunque, nessuno studio si è potuto effettuare. Figuriamoci se si può finanziare una nuova campagna di scavi sul Cecita, dove il paleolago antico, oggi bacino artificiale, potrebbe rivelare molte altre meraviglie fossili. Pensate che una sola zanna fossile pesava 800 chili! Che meraviglia, che gigantesco mastodonte! Come sempre, noi calabresi, abbiamo un tesoro sotto i piedi e non siamo in grado di sfruttarlo.


focus
L'Elefante di Campana

Questa è la storia di un elefante. Raccontarla non è semplice poiché inizia in un tempo molto lontano e sfida la memoria e la storiografia ufficiale. Ma ne vale la pena e ci proviamo anche se c'è ancora molto da scoprire.
In un’area denominata Incavallicata, sita nel comune di Campana (Cs), si erge un megalite di circa sei metri raffigurante un elefante. Di fronte ad esso è posto un altro megalite, denominato il Gigante o il Ciclope, raffigurante due gambe di quasi sette metri di cui manca la parte superiore, probabilmente crollata nel corso dei secoli.
Di grande impatto visivo ed emozionale, le Pietre dell’Incavallicata sono state oggetto di studio da parte di Domenico Canino, architetto e studioso cosentino, che, esaminando antiche monete, mappe del territorio e vecchi manoscritti, è riuscito a formulare alcune ipotesi sulla presenza dei due megaliti di Campana.
Dai primi mesi del 2003, da quando cioè l'architetto si è imbattutto nelle Pietre dell'Incavallicata, periodicamente gli organi di stampa locali e nazionali hanno dato spazio ai due megaliti, una vera e propria scoperta sebbene a Campana queste Pietre siano note da sempre.
Ma che ci fa un elefante nella Sila Grande?
Il pachiderma era conosciuto dagli indigeni sicuramente prima della venuta in Calabria di Pirro e Annibale, come attestano diverse monete coniate in epoche anteriori ai due condottieri sulle quali si riscontra l'effigie dei grossi animali. Terra di elefanti, dunque, ma con le zanne perpendicolari al terreno, particolare che esclude l’appartenenza al tipo africano e indiano. Si tratta, infatti, del loro progenitore, un Elephas Antiquus, tesi suffragata dai vari ritrovamenti fossili di questa specie a Reggio Calabria, nella valle del Mercure in Lucania e nei pressi di Castrolibero nel cosentino. Verosimilmente, gli antichi abitanti della zona vollero scolpire sulla pietra i grossi animali così come apparivano ai loro occhi, non si sa se per idolatrarli o per immortalare momenti significativi. L’elefante di Campana è rivolto verso Sud-Est, in direzione di Crotone, mentre il Gigante è rivolto verso Nord-Est, in direzione di Sibari. La posizione e l’orientamento di queste grandi pietre potrebbero avere un significato di natura astronomica, come tutti i grandi megaliti europei. L’elefante doveva avere in groppa un cavaliere, come si evince dalla presenza di due gambe monche sul suo dorso. Ciò spiegherebbe l’origine del toponimo Incavallicata. Ma c’è di più. Una zampa posteriore dell’elefante è scolpita in ‘movimento’, come se l’animale stesse avanzando verso il colosso che ha di fronte. Una battaglia, forse, alla base del toponimo ‘Cozzo di Callimaco’ o Calamacca (bella battaglia), con cui l’area è denominata già nelle antiche mappe del 1600, copiate dalle cartapecore aragonesi della seconda metà del 1400.
Vincenzo Padula, storico acrese, nel suo libro ‘’Calabria prima e dopo l’Unità’’ scritto intorno al 1876, parlando di Campana non può fare a meno di citare le Pietre dell’Incavallicata come punto notevole del territorio. Ne ribadisce l’origine antica e pelasgica, citando come possibili autori dell’opera i Pelasgi, ovvero i misteriosi popoli del mare che intorno al 1100 a.C. avevano combattuto contro i faraoni egiziani e che avevano navigato in tutto il Mediterraneo.
Nelle ricerche d’archivio sulle Pietre dell’Incavallicata è stata rinvenuta un'altra preziosa traccia: si tratta di un componimento del vescovo e poeta Francesco Marino, nativo di Campana, innamorato del suo paese, ma costretto a starne lontano per lungo tempo perché nominato vescovo di Isola Capo Rizzuto. Diversi gli scritti dedicati alla sua terra, tra i quali un sonetto in cui è citato un ‘gran Colosso’. Il riferimento alla pietra che oggi è denominata il Ciclope o il Gigante sembra evidente: era come tutti i Colossi dell’antichità una statua enorme rappresentante un essere umano, che crollò a causa di fortissimi terremoti, interpretati dallo stesso autore come punizione divina. Apprendiamo dalle fonti che nel 1600 a Campana si susseguirono tre terremoti: il primo il 27 marzo del 1638, fortissimo, poi altri due di minore intensità nel 1649 e nel 1659. Prima di allora il gran Colosso era, forse, ancora in piedi. È probabile che i tre terremoti verificatisi a Campana nel corso del 1600 abbiano distrutto la parte superiore del gran Colosso o il Gigante, come è denominato sulle mappe della Calabria già dalla fine del 1500. Quel che resta del Ciclope, oggi, sono le due gambe sino all’altezza del ginocchio, alte 7,50 metri: qui la statua si interrompe bruscamente, anche se ci sono due grossi frammenti in bilico sulla sua sommità. Rappresentava, probabilmente, una persona in posizione seduta, sia per via della barra che unisce le due ginocchia che per la curvatura particolare della parte posteriore delle gambe, curvatura che fa presupporre una torsione del tronco rispetto alla posizione delle gambe, come nei colossi egizi di Memnone.
E veniamo all'altra Pietra, quella raffigurante un elefante. In tempi recenti, molti scultori giunti sul sito hanno riconosciuto che è stata una mano umana a dar forma alle Pietre. Infatti, l’occhio dell’Elefante, sul lato destro, è stato nettamente scolpito con due colpi d’utensile tagliente dal basso e dall’alto. Le due gambe mozzate tronco-cilindriche dell’uomo a cavallo dell’elefante sono presenti sulla parte sinistra e su quella destra ed esclude che siano rocce naturali, poiché nessun vento scolpisce una roccia in perfetta simmetria su due lati. Inoltre, la zampa anteriore sinistra (la più consumata) è scolpita nell’atto del camminare, in un movimento in flessione ponderale che ricorda alcune sculture greche di epoca classica. E se si osserva con la dovuta attenzione, è visibile anche la zampa anteriore con un grande profilo cilindrico. La zanna destra, enorme, incurvata a sciabola verso il basso, fa escludere tutte le specie oggi esistenti di elefanti e fa pensare all’Elephas Antiquus che ha popolato la penisola italica sino a circa 3600 anni fa, cioè solo ottocento anni prima dell’avvento dei Greci in Calabria.
Realizzate in scala molto più grande del vero da una civiltà antica che sapeva lavorare la pietra con grande abilità, i due megaliti scolpiti risalgono presumibilmente a qualche millennio fa. L’interrogativo che queste meravigliose opere d’arte (preistorica?) ci pongono è: quale civiltà le ha scolpite? Forse gli abitanti dell’area orientale della Calabria che si affaccia sullo Jonio, ove esisteva, in epoca neolitica (3500 a.C.), una civiltà di uomini che viveva nelle caverne, definita Chones dalle antiche fonti greche, ovvero uomini delle caverne? Il nome Incavallicata, invece, si riferisce alla posizione sovrapposta delle pietre, cioè pietre accavallate. 
Le Rocce della ‘Ncavallicata sono sculture e non pietre erose dal soffio del vento, come qualcuno sostiene. Non c’è nessun vento capace di dare alle rocce la forma di due gambe umane (il Ciclope), di scolpire i caratteri stilistici di un elefante, di delineare una proboscide o una zanna in maniera quasi perfetta. Tuttavia, gli studi sulle arcane figure dell’Incavallicata sono appena iniziati, non si escludono, quindi, nuovi ritrovamenti che potrebbero avvalorare o meno le tesi fin qui sostenute. Dispiace, inoltre, che la Soprintendenza Archeologica della Calabria si sia mostrata indifferente dinanzi ai due megaliti, protagonisti di quella parte di storia calabrese ancora sconosciuta, ma non per questo da sottovalutare.

© Domenico e Francesca Canino




Nessun commento:

Posta un commento