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18 luglio 2019

Pappaterra presidente del Parco del Pollino e dell'Arpacal, un conflitto di interessi ai danni dell'ambiente


Un evidente conflitto di interessi si palesa nella figura di Domenico Pappaterra, fresco di nomina a direttore generale dell’Arpacal (Agenzia regionale per l'Ambiente), che dal 2007 riveste la carica di presidente dell'Ente Parco Nazionale del Pollino. Una nomina effettuata qualche settimana fa, nel corso di una riunione della Giunta regionale calabrese, presieduta da Mario Oliverio. 
Il presidente-neodirettore, in precedenza, è stato anche commissario straordinario dello stesso Ente Parco, assessore regionale all'Ambiente e Beni ambientali, Parchi e aree protette, Tutela delle coste e urbanistica e promotore dell’istituzione dell’Arpacal. In dodici anni di presidenza dell’Ente Parco, svolta senza alcun Piano Parco, ha svolto indisturbato una costante e documentata attività politico-clientelare, sperperando denaro pubblico (basti pensare all’eco-mostro di Campotenese) e dimostrando una comprovata incapacità gestionale, formalizzata più volte anche dal Collegio dei Revisori dei Conti. Dopo la tragedia del Raganello, Pappaterra non è stato rimosso dall’incarico e, nei primi di giugno, il presidente Oliverio lo ha nominato, senza alcuna procedura ad evidenza pubblica, direttore generale dell’Arpacal. 
Non è, però, solo una questione di incarichi: l’Arpacal esegue i controlli ambientali sull’intero territorio regionale, compreso il Pollino, e nel Parco è situata la centrale del Mercure (già di proprietà Enel, oggi del Fondo F2i) che la stessa Agenzia regionale aveva bocciato per motivi tecnici, ma fu imposta proprio da Pappaterra. L’Arpacal monitora sia le emissioni della centrale, sia i campi elettromagnetici (CEM) delle numerose linee di trasporto dell'energia elettrica di Terna (ramo di Enel) esistenti e costruende, potenzialmente cancerogeni per l'uomo. Ma non finisce qui, perché Pappaterra è anche presidente del Consiglio d’amministrazione dell’Osservatorio Ambientale sulla centrale del Mercure, sempre finanziato da Enel, al quale è demandato il compito di controllare gli effetti delle emissioni e pubblicare i risultati. 
Si è, dunque, in presenza di un assoggettamento alla politica di chi dovrebbe esercitare funzioni di controllo nel campo delle verifiche sull’ambiente e dinanzi a un emblematico caso in cui la figura del controllore e quella di controllato coincidono perfettamente. Ma al presidente Oliverio, in scadenza di mandato e già in campagna elettorale dopo le gravi vicende giudiziarie che lo hanno visto protagonista, sembra non interessare affatto.  

Approfondimento
La centrale a biomasse della valle del Mercure è un impianto che contiene tutte le enormi contraddizioni di questa fonte energetica pseudo-rinnovabile. Si trova nel cuore del Parco Nazionale del Pollino, la più grande area “protetta” d’Italia, che è anche una Zona di Protezione Speciale (ZPS) dell’Unione Europea (UE). La centrale è di elevata potenza (41 MWe), ma di scarso rendimento (25% circa); brucia 350.000 tonnellate l’anno di biomasse da legno vergine, trasportate da oltre 100 camion che ogni giorno vanno a congestionare una rete viaria, all’interno del Parco, già disagevole per il solo traffico locale, e ad impattare assai negativamente, con i loro gas di scarico, sulla qualità dell’aria. Non è fonte rilevante di occupazione (le poche decine di addetti ENEL sono stati trasferiti da altre centrali con maestranze in sovrannumero), ma, anzi, crea evidenti problemi alle attività cui il Parco è naturalmente vocato (turismo, produzioni agro-alimentari di qualità). Immette in atmosfera un carico inquinante dannoso per la biodiversità del Parco e rischia di danneggiare la salute delle popolazioni residenti. È avversata da chi abita nelle sue adiacenze, da istituzioni locali e associazioni locali e nazionali, ambientaliste e non solo. Titolari di ditte calabresi, fornitrici di biomasse, sono stati arrestati con accuse di 'ndrangheta”. Perché, allora, si continua a tenerla in funzione? Per gli incentivi economici pubblici. Nel 2016, anno di entrata in funzione della centrale – dopo una vertenza durata quindici anni – essa ha fruttato ad Enel 49 milioni di euro (come dichiarato dallo stesso Amministratore Delegato dell’Azienda elettrica), di cui solo 10 milioni di euro da produzione di energia elettrica e 39 milioni di euro da incentivi pubblici. La produzione, inoltre, non viene fatta secondo le richieste di energia del territorio, poiché si produce un’eccessiva quantità di energia – che supera di molto il fabbisogno energetico della Calabria – per cui si ha bisogno di una quantità smisurata di biomassa necessaria al suo funzionamento, spesso reperita sul territorio dell’Unione Europea, rischiando di importare specie contaminate da pesticidi, pericolosissimi per la biodiversità del parco e per la salute dei residenti. La centrale opera con autorizzazione scadute e proroghe della Regione Calabria, che sono state anche impugnate dalle associazione ambientaliste del territorio e manca uno studio ad hoc sul microclima della Valle del Mercure (quello fatto è stato impostato sui dati di una valle diversa) e l’assenza di una Valutazione d’Impatto sulla Salute. Nel giugno scorso, F2i ha acquistato l’intero portafoglio di impianti a biomassa vegetale del Gruppo Enel e ha avviato accordi con le amministrazioni locali e con Coldiretti per la raccolta di sfalci da lavorazione agricola, pulizia degli alvei dei fiumi e del territorio boschivo. Equivale a dire che raccoglie tutta la legna dei territori, mentre in Italia, da nord a sud, si assiste inermi ai tagli di un gran numero di alberi e a potature sconsiderate in città e nelle aree extraurbane, probabilmente eseguite per alimentare le fameliche bocche delle centrali a biomasse.
Cosenza, 17 luglio 2019
Francesca Canino


04 luglio 2019

Carcioffolà, un canto popolare calabrese del 1700

Musica popolare calabrese
Sonatori calabresi del 1775

  
CARCIOFFOLA'
“La notte quanno dormo penzo tanto
E quanno penzo a buje mm’adormento
Vado ppe te parlare e non te siento,
Carcioffolà
Afflitti senzi miei martirizzati
Che un’ora di riposo non aviti,
Sono le mie speranze disperati
Vanno contra de mia le stelle uniti.
Amici non crediti a le Zitelle,
Quannu vi fanno squase e li verrizzi.
Ca sognu tutte quante trottatelle,
E pe ve scortecà fanno fenizzi,
Co lo ndà e ndà ndera ndà,
La falanca si è seduta
Non cammina, carcioffolà”.

CARCIOFFOLA' è il titolo di un canto popolare calabrese che, divenuto famosissimo in tutta Italia nel XVIII secolo, è oggi completamente sconosciuto.
Caduto nell'oblio già dal secolo successivo, aveva conosciuto una tale popolarità tanto da essere inserito nelle opere di Carlo Goldoni, uno dei padri della commedia italiana, e di Giovanni Paisiello, autore tra gli altri, de 'Il Barbiere di Siviglia'. Nel 1700, infatti, si sviluppò nel teatro napoletano 'l’Opera Buffa', un genere operistico costituito da storie popolari in cui i protagonisti erano ostesse e servitori. Spesso tratte dai canovacci della commedia dell’arte e musicate con arie semplici ed efficaci, gli autori usavano inserire nelle loro composizioni, canti popolari in voga, espediente che le rendeva ancora più gradite al vasto pubblico e permetteva di ottenere grandi ovazioni.
Il canto popolare calabrese 'Carcioffolà' ebbe varie versioni, poichè ogni suonatore lo variava e lo arricchiva: nella versione trascritta da Goldoni era un canto d’amore alla innamorata, mentre in quella più famosa usata da Francesco Cerlone e musicata da Paisiello nel 1770, era un canto di sdegno verso le donne.
A metà '800, l'aria di Carcioffolà viene ripresa dal grande Salvatore di Giacomo, che la tradusse in napoletano prima di essere riportata in un'opera musicata da Eduardo Di Capua. In questo contesto diventò un canto tra madre e figlia, con lo stesso ritornello, ma con il resto diverso dalla versione calabrese.
Il commediografo veneziano Goldoni lo inserì nel dramma giocoso in musica “La conversazione” del 1778, nella IV scena, in cui i due protagonisti don Fabio e Sandrino, sono 'vestiti da Calabresi col calascione' e cantano la Carcioffolà. I personaggi della commedia commentano alla fine dell’aria musicale: “Veramente è bizzarro il canto calabrese, possono divertir tutto il Paese”.
I 'sonatori calabresi' cantavano, come ci dice Goldoni, accompagnati dal 'calascione', specie di grosso liuto con manico lunghissimo, il cui pizzicato era usato come accompagnamento, e dagli archi della lira calabrese e della ribeca, strumenti popolari dal suono bellissimo. Dunque, i sonatori ambulanti calabresi, nel secolo dei Lumi, andavano in giro per tutta Italia, anche nei caffè di Venezia, a proporre i loro canti che divennero ben presto grandi successi, tanto da essere inseriti nelle opere teatrali.
Dal libretto originale di una rappresentazione tenutasi a Cosenza, nella primavera del 1778, per il governatore del re Tommaso Ruffo, si desume che il personaggio principale della commedia è donna Checca Spicadossa, donzella calabrese che spalleggiata dal fratello Vitantonio, cerca di fare imbrogli ed artifici per riuscire a sposare il ricco barone di Terra Asciutta, scontrandosi con la rivale Tonina, caffettiera Veneziana. Il contrasto tra la donna calabrese e quella veneziana, è anche musicale e mentre la Veneziana intona al barone canti con parole come 'musin, bucchin e putelo', la donna calabrese vince la sfida con un “Canto sulla chitarra alla Catanzarese” suonato in scena alla “chitarra battenno” (chitarra battente). Ma la parte musicale più importante è l’entrata in scena di Vitantonio, calabrese, fratello di Checca, che con la cetra (arpa portativa) appesa al collo, ha al suo fianco un piccolo ragazzo col violino e canta l'aria 'Carcioffolà'.
Oggi il testo e la partitura musicale sono custoditi presso il Conservatorio di S. Pietro a Maiella di Napoli. 

Cosenza, 4 luglio 2019
Domenico e Francesca Canino