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26 novembre 2018

I Fliaci e il primo teatro italico






QUANDO si parla di teatro antico vengono in mente la tragedia e la commedia greca, i grandi anfiteatri e le rappresentazioni drammatiche, ma c’è una forma particolare di teatro che è nata nell’Italia meridionale intorno al IV secolo a. C.: il teatro dei Fliaci. 
E’ il vero teatro italiano dell’antichità, l’archetipo massimo della commedia dell’arte, in cui lo sberleffo e la situazione comica provocavano sane risate di pancia. Qui nascono i tipi, le maschere comiche, i movimenti grotteschi e palesemente enfatici che daranno vita, nei secoli successivi, al teatro latino di Plauto e alla commedia dell’arte europea. In queste rappresentazioni gli Italici si prendevamo bellamente gioco dei Greci e della loro mitologia e, attraverso un canovaccio farsesco con costumi e maschere tipizzate, rimarcavano la loro diversità culturale dai coloni greci.
I Fliaci, dal greco φλύακες, Flyakes, cioè buffoni, chiacchieroni, erano compagnie girovaghe, quasi dei saltimbanchi, che si spostavano in tutta la Magna Grecia, da Sibari a Taranto o a Locri. Provenivano verosimilmente dalla Sicilia e, per il loro carattere nomade, erano soliti muoversi su carri che fungevano anche da spazio scenico.
Nella prima fase del teatro fliacico, gli attori non usavano testi scritti, erano improvvisatori abilissimi sulla base di canovacci popolari, sui quali accomodavano i diversi dialoghi. Su rozzi palcoscenici improvvisati, le loro rappresentazioni erano un richiamo continuo alle feste dionisiache, di cui ne esaltavano l'atmosfera gioviale e licenziosa. Gli spettacoli, improntati su una mimica a tratti esasperata, assumevano un significato magico e propiziatorio per l’agricoltura, anche se gli argomenti richiamavano i quotidiani conflitti dell’ambiente popolare o le parodie mitologico-eroiche. I personaggi erano maschere a tipo fisso (spesso di carattere fallico e osceno), infatti gli attori portavano maschere molto espressive e pesanti e indossavano costumi buffi: di solito una stretta camicia e rigonfiamenti posticci; per gli uomini il costume prevedeva anche un grande fallo, esibito o coperto.

La farsa fliacica fu codificata dal tarantino Rintone, nel III sec. a.C., che tentò di organizzarle in forma più compiuta, dettandone dei canoni precisi. Pochissime sono le fonti scritte sul teatro fliacico, ma esiste una vasta iconografia sui vasi antichi che mostra le maschere, le scenette di satira mitologica e di vita popolare, le strutture dei palcoscenici in legno. I musei archeologici della Magna Grecia sono ricchi di questi preziosi vasi, da cui si cerca di ricostruire le scene di quel tipo di teatro. Al British Museum di Londra c’è un vaso che rappresenta la scalata notturna data da un giovane alla casa della fanciulla amata.
La maschera più comune del teatro fliacico è rappresentata con la bocca enorme aperta, con il labbro inferiore pronunciato e rialzato, con l’occhio ammiccante sotto il sopracciglio arcuato, la fronte molto rugosa, i capelli disordinati sulla testa o raccolti in grosse trecce, naso grosso e ricurvo, spesso con grosse zanne al posto dei denti e abbigliati con pantaloni e tuniche. I Fliaci si accompagnavano con il tamburello in scena, dunque c’era una parte musicale molto ritmica, con danze dionisiache sfrenate, simili a quella che è stato un tempo la ‘sfessania’ napoletana e la tarantella più di recente. In molte scene i Fliaci danzavano in maniera buffa, portando in mano delle grosse torce infuocate, compiendo riti dionisiaci con la vecchia prostituta Konnakis. 

I tipi del teatro fliacico erano fissi: il servo astuto, l’anziano avaro, il fannullone, riproposti, poi, nella commedia dell’arte. Ma che nomi avevano le maschere di quel teatro, gli Arlecchino, i Pulcinella, i Pantalone di allora? Non lo sappiamo, ma un esempio di farsa fliacica è rappresentata su un calice-cratere denominato di 'Assteas', trovato a Nola, in cui la scena rappresenta un povero vecchio di nome Carino, che è aggredito da due ladri che vogliono portare via il forziere su cui Carino è sdraiato. Il ladro a destra, di nome Cosilo, afferra e strattona il mantello su cui è steso il vecchio, l’altro, di nome Gymnilos, afferra Carino per i piedi. Sulla destra uno schiavo imbelle di nome Carione, osserva terrorizzato senza intervenire a favore del padrone.
Era dominante, senza alcun dubbio, l’elemento osco-italico. Anche la lingua parlata  era l’osco, d'altro canto, presso gli Italici ed in particolare presso gli Oschi della Campania, furono coltivate forme di poesia e di rappresentazione scenica come le “Atellane”, così chiamate dalla città campana di Atella, improntate su una comicità popolaresca e mordace. Era una farsa con maschere fisse, ove gli attori improvvisavano le battute comiche in forma non dissimile dalla commedia dell'arte (sembra vi sia una certa continuità fra l'Atellana e le maschere popolari napoletane). Questa stessa comicità, l'Italum acetum, sarà trasportata su di un piano più alto di arte dal grande commediografo Plauto e sopravviverà ancora a lungo nella tradizione letteraria latina ed italiana.

L'inclinazione verso il realistico e il popolaresco della letteratura latina, che si manifesta sia nella sfera del comico, sia poi in quella più elevata della caratterizzazione del singolo individuo, deriva dalla primitiva struttura dell'Italia contadina di cui il teatro fliacico ne fu il fedele interprete. In esso erano presenti tutte le caratteristiche che ritroveremo nel teatro comico europeo dei secoli successivi e fu in assoluto la prima forma di teatro veramente comica, legata indissolubilmente alla personalità dissacrante e beffarda dei popoli italici del Sud.

Cosenza, 26 novembre 2018
© Domenico e Francesca Canino


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