Il 26 settembre
1813, Vincenzo Federici detto il Capobianco fu giustiziato a Cosenza. Vogliamo ricordarlo, a distanza di 205 anni, come
patriota risorgimentale che ha rappresentato la lotta e la speranza.
Patriota o brigante. Forse patriota-brigante in
un tempo in cui il valore semantico delle due parole si sovrapponeva e
confondeva e 'arrivotava' la storia del Sud.
Torrevetere
1813: l'antica caput Bruttiorum si riconfermava teatro di vicende umane sulla
scena del Risorgimento Italiano, ove un palco di morte era stato preparato in
un giorno di settembre, tra gli alberi acquatici che popolavano il colle. L'estate
era appena terminata, ma non aveva ancora portato via i venti caldi
delle sommosse che dal Savuto si erano propagati alla città della confluenza.
Un uomo, bianco di capelli, si avviava verso le forche innalzate durante il
giorno, maledicendo la razza tirannide, ovvero gli invasori francesi: “Che i
Calabresi vendichino il mio sangue” e rivoltosi ai carnefice gli si offrì dicendogli:
“Fate presto”. E tosto il suo volere fu fatto.
Era
la sera del 26 settembre e Vincenzo Federici, detto il Capobianco, giudicato
ribelle e traditore, mai più avrebbe 'cospirato contro il Governo della
Provincia di Calabria Citra in unione di gente armata'. Per le strade della
città né turbe, né moltitudini, 'raro, ma non ignobile contegno del popolo'
dirà qualche tempo più tardi Luigi Maria Greco: nessuno aveva voluto assistere
alla fine di un uomo che aveva rappresentato la lotta, la speranza, l'ideale
della libertà.
Il ribelle - 'Solerte massajo' dagli scarsi poderi, di non elevati
studi, ma attore precipuo nel Savuto di inizio '800, Vincenzo Federici nacque
ad Altilia nel 1772. Lo storico e letterato cosentino Luigi Maria Greco
lo descrisse come uomo “di tempra gagliarda, di avvenente vigoria, ma grave e
dagli occhi vividi e scintillanti; di vantaggiosa statura, sagacia e dirittura
di giudizio; persuasivo nel ragionare. Era senza ambizione; obbediente co' le
autorità, ossequioso e senza bassezze co' gli amici; cordiale, benevolo e senza
superbia co' gli inferiori; largo co' i bisognosi; senza jattanza, insofferente
però alle offese e pronto a punire di sua mano chiunque avesse osato offenderlo
o provocarlo senza ragione”. Era soprannominato Capobianco a causa della
precoce canizie iniziata quando non era ancora ventenne e che ne accentuò il
fascino ed il carisma. Forse il segno di un destino che lo avrebbe visto
ribelle carbonaro, paladino della libertà e combattente nelle terre natie ed
oltre, di indole impetuosa, ma tuttavia amante fedele e buon padre di famiglia,
come si addice al calabrese per antonomasia. E proprio la Calabria vide nascere
la prima vendita carbonara nel 1812, ad Altilia, un piccolissimo borgo che
'aveva tolto il nome all'altura' e che sotto la spinta del medico Gabriele de
Gotti, si propagò a Cosenza e nei paesi limitrofi ed in seguito nel
catanzarese.
I cugini, ovvero gli adepti alla Carboneria,
erano uomini di varia estrazione sociale e spesso di diverso orientamento
politico, accomunati dall'idea dell'unità e libertà della Patria. Essi si
raccolsero inizialmente nella vendita di Sparta, la Carboneria cosentina, sotto
il comando di Federici, uomo dal focoso temperamento che venne rubricato presso
la Gran Corte Criminale di Cosenza per delitti comuni e quindi perseguitato con
veemenza, prima della nomina a Capitano delle Guardie civiche del circondario,
nomina conferitagli dal generale Manhès anche per distoglierlo dalla sua
attività carbonara. Il generale, infatti, non annoverò Vincenzo Federici tra i
briganti.
La Carboneria calabrese, desiderosa di ottenere
una forma di governo rappresentativo, fu in un primo momento decisamente ostile
al Governo Borbonico e aderente al Governo dei Francesi, che considerò questa
prima fase non come l'operato proprio del brigantaggio, ma come un'azione
diretta ad ottenere un regime più libero. Già in questo periodo, però, il re
Gioacchino Murat, riferendosi ai carbonari quando li denominò 'patrioti',
presagì il pericolo futuro e dubitò delle loro idee, allorchè il 25 febbraio
1809 scrisse impensierito a Napoleone che 'le fila dei patrioti si ramificavano
in tutta Italia'. L'identificazione tra la denominazione di carbonaro e quella
di patriota era così entrata nell'uso comune del tempo.
La sommossa - Vincenzo Federici cercò dapprima un
accordo con i Carbonari di Sicilia perchè la Calabria insorgesse e tentò una
rivolta in occasione della fiera del Savuto, il 15 agosto 1813, da cui
si levò il grido di libertà che avrebbe dovuto far sollevare anche i Comuni
vicini. Qualche settimana più tardi, Aprigliano e Scigliano insorsero e
piantarono i loro alberi della Libertà, ma immediata fu la risposta del
Comandante della Provincia Giuseppe Iannelli, che soffocò la rivolta ed
arrestò numerosi carbonari. Tra questi era anche il Capobianco che, per ordine
del generale Manhès, fu rimesso in libertà. L'atteggiamento del generale
francese, inviato in Calabria per sterminare i briganti, aveva un duplice
scopo: redimere Federici e convincerlo a sostenere la monarchia. Bisognava
“fare ben comprendere a quello sciagurato, che si è voluto trarre in errore sì
grossolano, a quali pericoli positivi va ad esporsi, ascoltando i perfidi
suggerimenti di coloro che, vili per propria natura, espongono lui a bersaglio
di tutto lo sdegno delle autorità, ed alla esecrazione pubblica” e convincerlo
a presentarsi al quartier generale da dove “appena la criminosa effervescenza
che tempesta lo spirito dei suoi compatrioti, sarà calma, egli rientrerà
tranquillo nei suoi focolari”.
Federici fu convocato a Cosenza, qui promise di
obbedire all'ordine di Manhès e di recarsi al quartier generale di Campo
Calabro. Convinti dei buoni propositi del Capobianco, gli uomini di Manhès festeggiarono l'avvenimento con un banchetto a cui
presero parte le autorità della Provincia, gli ufficiali della Guardia civica
di Cosenza ed il generale Garnier. Intanto, il sacerdote carbonaro Carlo
Bilotta di Carlopoli, avvisò Federici di interrompere momentaneamente le
attività rivoluzionarie, senza abbandonare la nobile causa dell'indipendenza.
Era necessario attendere tempi migliori. Al termine del convivio, il Capobianco
abbandonò Cosenza con uno stratagemma e si rifugiò con i suoi fedelissimi nella
Rocca di Altilia.
Scattò immediatamente un ordine di cattura: il Comandante
Iannelli si diresse verso Altilia con un eccezionale spiegamento di forze
militari e non riuscendo nell'intento, ordinò, per ritorsione, di saccheggiare
il paese. Federici scampò alla cattura ed organizzò gli affiliati per sferrare
l'attacco finale: la forza pubblica fu disarmata, i rivoltosi si appropriarono
di convogli di polveri, bruciarono i registri dei tributi e assediarono Cosenza
dopo aver piantato alberi della Libertà in ogni paese da cui erano passati.
Le autorità presenti a Cosenza si rifugiarono
all'interno del Castello svevo con una guarnigione al comando del cavaliere De
Martigny; Federici aveva invece ordinato ai Carbonari di dividersi in due
drappelli, uno fu inviato nel distretto di Catanzaro, l'altro, sotto il suo
comando ed insieme ad una compagnia raccolta da Pasquale Rossi, si spinse sulle
alture di Torrevetere. Era il 18 settembre, i Carbonari di Federici tentarono
invano di impadronirsi del Castello e di far insorgere gli abitanti dei Casali
contro i Francesi.
L'Intendente Iannelli contro di loro fulminava il
seguente bando: “Abitanti della Provincia, Capobianco con 30 briganti sta
cercando di far seguaci e turbare la
pubblica tranquillità percorrendo le campagne. Ma i Comuni che lo
riceveranno e lo lasceranno passare sul rispettivo territorio, saranno subito
militarmente trattati. Già numerose colonie marciano contro queste orde”.
Ma un equivoco intervenne nello svolgimento del
piano che segnò il fallimento della sommossa e Federici si ritirò nei pressi di
Aprigliano, dove era atteso da moltissimi amici. Braccato ormai dal generale Manhès,
il Capobianco comprese che doveva rifugiarsi in un luogo distante da Cosenza e
si diresse a Grimaldi, dal fidato amico De Rose.
Il tradimento - Il generale Manhès, intanto, giunse a
Cosenza e durante un banchetto nel palazzo della Baronessa Mauro, organizzò il
piano per la cattura del Capobianco. Fu un affiliato alla Carboneria, Carlo
Mileti di Grimaldi, che trovandosi presso il fratello Raffaele, Vicario
generale del vescovo di Nicastro, gli riferì che il Capobianco si trovava a Grimaldi, in casa De Rose.
Il Vicario informò subito il generale Manhès con una lettera recapitatagli
proprio da Carlo.
Il rifugio del ribelle era ormai svelato e sul
cadere del 25 settembre, Manhès organizzò un drappello di ufficiali delle
Guardie civiche della Calabria Ultra, guidato da Carlo Mileti, che aveva
l'ordine di catturare Federici. Essendo il Mileti suo amico, non avrebbe
destato sospetti: infatti, egli giunse facilmente dal capo carbonaro che trovò
solo e seduto vicino alle sue armi. I traditori gli buttarono un cappotto sulla
testa e soffocando le sue grida lo legarono ed uscirono da una porta segreta,
lo caricarono su un cavallo come un fascio di fieno e lo trasportarono a
Cosenza. Fu condotto alla presenza di Manhès, dinanzi al quale tenne un
comportamento fiero.
Si concludeva così il primo Moto carbonaro del
Risorgimento.
La Condanna - Fu subito nominata una Commissione
militare che riunita nel Palazzo Mauro giudicò in tutta fretta il Federici. Il
generale Manhès gli pose queste terribili domande: “Perchè inalberasti
stendardi di ribellione? Perchè invitato con mio foglio non mi raggiungesti?”.
Federici rispose: “Non so leggere”.
Nominato d'ufficio un difensore nella persona
dell'avvocato Gaetano Greco, che implorò una condanna di deportazione a vita,
il Capobianco fu tuttavia giudicato colpevole di ribellione e tradimento. Il
Relatore della Commissione militare, alla lettura della sentenza commosse le
milizie e dispose anche che il fisco si sarebbe dovuto impossessare dei beni
del condannato e che, ma questa è una parte controversa, l'intera famiglia del
Federici 'avrebbe avuto bando dal reame'. La sera del 26 settembre alle falde
del colle Vetere, 'vecchio' sito romano e via d'accesso alla città per chi
proveniva dal Savuto, il Capobianco fu giustiziato.
Scrisse Luigi Maria Greco: “La notte viene vinta
da innumerevoli fari che illuminano l'oscuro luogo nel quale il triste
sacrifizio fu appieno consumato, col ridursi in cenere quelle misere spoglie e
col disperdersi quelle ceneri al vento”. Tutti i traditori di Federici furono
in seguito uccisi dai Carbonari e la commemorazione del Capobianco fu celebrata
nelle vendite d'Italia.
Il Moto carbonaro del 1813 capeggiato da Vincenzo
Federici, non è riportato sui libri di testo scolastici, né su tanti altri
volumi di storia. Eppure, così come i Moti napoletani del 1820 o quelli
piemontesi dell'anno successivo, l'insurrezione nel cosentino mirava a liberare
la Calabria dallo straniero ed a riportare sul trono Ferdinando IV di Borbone,
se questi avesse concesso una Costituzione. La figura del Capobianco divenne,
tuttavia, così leggendaria da ispirare diversi scrittori, da Mary Shelley, la
scrittrice di 'Frankenstein', che dedicò un intero capitolo del suo libro di
viaggi tra Germania e Italia al 'Capo Bianco', ad Alexandre Dumas padre che lo
ricordò ne “I Borboni di Napoli”. Anche Giovanni Verga, dopo aver conosciuto il
figlio di Vincenzo Federici, Francesco, che gli raccontò le gesta del padre,
scrisse il suo primo romanzo “I carbonari della montagna”, ispirato ai fatti
della Carboneria calabrese.
Intervista alla pronipote del Capobianco
Nel programma delle celebrazioni in occasione del
150° anniversario dell'Unità d'Italia, una targa commemorativa in onore di
Vincenzo Federici è stata apposta a Cosenza vecchia. Intanto apprendiamo alcuni
aspetti sconosciuti sulla vita del Capobianco, grazie ad una sua discendente, Tamara
Ferrari, giornalista di Altilia che oggi vive e lavora a Milano. La sua
famiglia custodisce alcuni documenti e soprattutto un patrimonio di notizie
tramandate oralmente da padre in figlio che ci consentono di ampliare il quadro
su uno dei protagonisti del primo moto carbonaro del Risorgimento italiano.
Chi
era Federici?
«Un
patriota sul quale, dopo la morte, sono state scritte tante inesattezze.
Sarebbe ora di fare chiarezza».
Ci
faccia qualche esempio.
«Il Capobianco
non era un né “solerte massaio” né un “maniscalco”, come molti hanno affermato.
Vincenzo Federici era un ricco proprietario terriero. Infatti, era figlio di
Giovan Angelo, designato sui documenti del Catasto onciario come 'Magnifico',
un titolo riservato a chi era un discreto possidente. Il vero cognome era
Federico, ma nell'Ottocento fu trascritto con la “i” finale. Nacque ad Altilia,
precisamente in località Fornace ed abitò in una casa vicina a quella del
medico Gabriele De Gotti, di cui sposerà la zia Maria Angelica. Avranno otto
figli, quattro maschi e quattro femmine. Dopo il matrimonio, accrebbe i beni di
famiglia anche con l'acquisto di una pregevole casa appartenuta alla famiglia
del letterato Pirro Schettini, che vi abitava nel '600. Federici fu sindaco di
Altilia tra il 1806 e il 1808, come si evince da un documento tuttora in mio
possesso, in un periodo molto complesso nella storia del paese, che prima fu
assaltato dai briganti di Malito e poi contò diversi omicidi probabilmente
legati agli aspri contrasti tra contadini e borghesia terriera. Di un omicidio
fu accusato lo stesso Federici, successivamente amnistiato, ma forse proprio
sulla scia di questi avvenimenti il Federici abbracciò gli ideali della
Carboneria».
Come
si spiega la diffusione della Carboneria nella piccola Altilia?
«In
quel periodo i paesini della valle del Savuto, come Altilia e Grimaldi, erano
dei veri e propri centri culturali, i rampolli delle famiglie più ricche
studiavano a Napoli. Anche il nipote del Capobianco, Gabriele De Gotti, studiò
medicina a Napoli, entrò in contatto con la vita sociale e politica dell'allora
capitale del regno e divenne amico di Pierre-Joseph Briot, l'ex deputato
giacobino, intendente a Cosenza dal luglio 1807 al settembre 1810, che importò
gli ideali della carboneria nel Regno di Napoli. Ideali che trovarono subito
terreno fertile nel Federici, che già nel 1799 aveva partecipato ai moti
rivoluzionari della Repubblica partenopea. Dopo l'arrivo dei francesi nel 1806,
Federici all'inizio credette alle loro promesse libertarie e fu filo-francese:
firmò l'appello del baroncino di Pietramala per invadere la Sicilia e poi aderì
all'appello dei francesi per ripulire le campagne calabresi dai briganti.
Federicì partecipò in prima persona alla caccia contro i briganti Bizzarro e
Lorenzo Benincasa. Non è un caso che il suo nome compare nell'elenco dei
patrioti carbonari del Meridione d'Italia stilato dal re Gioacchino Murat in
una lettera inviata a Napoleone il 25 febbraio 1809. Due anni dopo il De
Gotti fondò ad Altilia la prima vendita carbonara. In seguito tra i due uomini
nacquero dei dissidi, forse legati alla
leadership della vendita, che fu assunta dal Capobianco, noto e stimato in
paese perché possidente, ex sindaco e dotato di maggior carisma. Dissidi
divenuti inconciliabili quando il Federici improvvisamente divenne
antifrancese».
Per
quale motivo?
«Federici
si rese conto che i francesi non avrebbero mai assecondato gli ideali di
libertà e quando venne a sapere che in Sicilia gli inglesi avevano concesso la
costituzione, prese contatti con Lord William Bentinck: sperava di raggiungere
lo stesso risultato in Calabria. In quel periodo il Capobianco era molto amico
del generale Manhès, dalla cui moglie, Carolina Pignatelli, figlia del principe
di Cerchiara, prendeva lezioni di francese. Ciò dimostra chiaramente che non
era analfabeta, come si proclamò al momento della condanna. L'amicizia col ,
come si evince da una corrispondenza epistolare, giustifica non solo la sua
incredulità alla scoperta che il Capobianco era diventato antifrancese, ma
anche tutti i suoi tentativi per convincerlo a fargli abbandonare gli ideali di
libertà: prima di mettere una taglia sulla sua testa, Manhés tentò in tutti i
modi di salvarlo. E dopo la condanna a morte, fu proprio il Manhès a proteggere
la moglie e i figli del Capobianco, come lui stesso racconta nelle sue
memorie».
Ha
detto di essere una discendente.
«Degli
otto figli di Federici (Giovan Angelo, Gaetano, Caterina, Sebastiano,
Clementina, Francesco, Filippina e Maria Rosa Clerice), che dopo la sua morte
furono allevati dalla moglie Maria Angelica nel rispetto della figura paterna,
tanto che alcuni di essi ne seguirono le orme, l'unica a sposarsi fu Filippina,
che andò in moglie ad Antonio Maria Ferrari, un ricco proprietario terriero.
Dalla loro unione nacque il mio bisnonno, Michele Luigi Ferrari.
Degli
altri figli del Capobianco, Gaetano ebbe da una relazione con la cameriera
Caterina Fezza un bimbo che chiamò Emmanuele. Un figlio illegittimo
riconosciuto pochi giorni dopo la nascita perché assicurasse la continuazione
della stirpe. Purtroppo morì in giovane età in campagna, dove fu sbranato dai
cani.
Un
altro figlio del Capobianco, Francesco, che fu a sua volta patriota e giudice
della Corte Costituzionale, ebbe un figlio illegittimo dalla sua cameriera e
convivente Candida Costanzo, che nominò erede nel suo testamento e che
parteciperà poi alla divisione dei beni, come si evince dagli atti della causa
ereditaria. La maggior parte dei beni della famiglia del Capobianco furono
ereditati dal mio bisnonno Michele Ferrari, figlio di Filippina, ecco perché la
mia famiglia possiede importanti documenti sulla vita di Federici. Ma il
patrimonio più grande è costituito da quanto oralmente ci è stato tramandato
sul Capobianco: già da piccoli, molti erano i 'fatti' che la mia famiglia ci
raccontava sul nostro antenato e sulle vicende del paese e del Savuto nel primo
decennio dell'ottocento».
Ce
ne racconti qualcuno.
«Sembra
che la figura del Capobianco non se ne sia mai andata da Altilia, poiché gli
anziani del luogo raccontano ancora oggi strani avvenimenti che si verificavano
nella sua casa ogni volta che veniva spostato un quadro raffigurante il nipote
Emmanuele Federici, l'ultimo discendente del Capobianco a portare il suo
cognome. Era una tela molto rovinata, ma si dice che ogni volta che veniva
toccata, nel palazzo Federici si udiva un infernale rumore di catene e poi
tutta la casa tremava così forte da terrorizzare il paese. Si raccontava anche
del fantasma di Federici che ogni notte appariva nel soggiorno del suo palazzo
e del mistero dei numerosi sottopassaggi che attraversano il paese, un vero e
proprio dedalo sotterraneo utilizzato forse come vie di fuga dai ribelli,
perché, si dice, tutti sfociano nelle terre che erano di Federici. Anche nella
mia casa ce n'era uno, che in seguito fu murato, non prima di aver tentato
un'ispezione: una volta un giovane si calò con una corda, ma si spaventò tanto
che non riuscì a completare l'impresa. Non sappiamo se ebbe paura del buio
fitto o se vide qualcosa che lo spaventò. In seguito mio padre murò il
passaggio per evitare che noi figli, ancora piccoli, tentassimo di replicare
l'impresa».
E
oltre la leggenda?
«Ad
Altilia sentiamo vicinissima la presenza del Capobianco, tanto che è parte
integrante della nostra vita. Oltre, però, i racconti di paese, ci stupisce
invece che non abbia avuto la giusta rilevanza nella storia calabrese,
soprattutto perché la storia ufficiale riconosce come primi moti risorgimentali
quelli del 1820, nessun accenno viene fatto all'insurrezione del Savuto ad
opera del Capobianco. Val la pena ricordare che il moto scoppiò il 15 agosto
1813, mentre era in atto la fiera del Savuto, importante appuntamento che si svolge
ancora oggi».
Rimangono
alcuni misteri sulla fine del Capobianco?
«Sì,
alcuni hanno scritto che Federici fu impiccato, ma dai documenti della figlia
Filippina che mi sono pervenuti, è riportato chiaramente che fu fucilato, come
si conveniva per i reati di cospirazione. Ai familiari, che non erano presenti
all'esecuzione, contrariamente a quanto disposto dalla sentenza di morte, non
furono confiscati i beni. La moglie e i figli del Capobianco non furono
espatriati, come prevedeva la condanna, ma rimasero per volontà del Manhès ad
Altilia protetti dal fratello di Federici, Sebastiano, che era un sacerdote. Fu
lui che, durante l'assedio del paese ad opera dei francesi che volevano
catturare Capobianco, trasferì la moglie e i nipoti del Capobianco a Maione per
evitare che venissero usati come ostaggio dai francesi. Altri misteri restano
ancora su alcuni momenti della sua vita, che finora non sono riuscita a
ricostruire. Di certo i miei trisavoli non ebbero mai una tomba su cui
piangere: forse non esiste perché è vero che il suo corpo fu bruciato e le ceneri
sparse al vento, come prevedeva anche il giuramento dei Carbonari: “Alla gloria
del Gran Maestro dell'Universo, io Vincenzo Federico, giuro e prometto sopra
gli stabilimenti dell'Ordine in generale e sopra questo ferro punitore degli
spergiuri di custodire gelosamente tutti i segreti della rispettabile
Carboneria... Giuro di soccorrere i miei Buoni Cugini per quanto comportano le
mie facoltà e di non attentare all'onore delle loro famiglie. Se divengo
spergiuro, sono contento che il mio corpo sia fatto a pezzi, indi bruciato e le
mie ceneri sparse al vento... Così Dio mi aiuti”».
Cosenza,
26 settembre 2018
© Francesca
Canino
Nessun commento:
Posta un commento