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21 gennaio 2018

Alarico e il tesoro che non c’è


Approfondite indagini della Guardia di Finanza TPA e dell’Ispra hanno escluso che la tomba di Alarico sia nelle grotte dell’Alimena
Alarico e il tesoro che non c’è
Nel novembre 2016 il Mibact si è pronunciato negativamente sulla ricerca del fantomatico tesoro

16 gennaio 2017
di FRANCESCA CANINO
UNA ricerca spasmodica. Cosenza cerca Alarico e il suo tesoro nei fiumi cittadini e nei dintorni della città, firma un protocollo d’intesa con la Soprintendenza per iniziare le ricerche della tomba del re visigoto, ma la direzione generale del Mibact e in seguito il Comitato tecnico-scientifico per l’archeologia dello stesso Ministero revocano, nel novembre 2016, il protocollo. E quando sembrava che sulla leggenda di Alarico fosse calato il sipario, una testata nazionale rilancia l'idea e consiglia di proseguire le indagini con l'aiuto di sponsor privati. L'area da prendere in considerazione è, oltre a quella della confluenza dei fiumi Crati e Busento, il ponte dell'Alimena, nel comune di Mendicino.
Ciclicamente ritorna la storia che vuole il tesoro di Alarico seppellito nelle grotte dell’Alimena, ipotesi formulata diversi anni fa da alcuni sedicenti appassionati di archeologia, che hanno dato sempre massima divulgazione alla loro idea e hanno cercato di coinvolgere il mondo accademico e politico nel tentativo di dare un fondamento scientifico alle loro tesi e di poter, così, scavare nell’area. Una passione associata al desiderio di guadagno, infatti, in relazione a ciò, il Mibact «dal 1998 riceve reiterate – si legge ancora nel parere del Comitato tecnico-scientifico per l’archeologia dello stesso Ministero – quanto indebite richieste di premio di rinvenimento sfociate in una causa civile».
Ma oggi, come in passato, la domanda da porsi è sempre la stessa: dove sono i ritrovamenti? Finora, è bene sottolineare, non è stato trovato alcun reperto riconducibile al tesoro di Alarico.
Nel 2008, la Guardia di Finanza, Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico (TPA), guidata dal colonnello Massimo Rossi, allora comandante del Gruppo TPA oggi soppresso, e l'Ispra, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, hanno condotto delle indagini di natura geologica nel comune di Mendicino, in località Ponte Alimena, ed è stata stilata una relazione, in data 7 ottobre 2008, in cui si legge: ‹‹Il 29 luglio del 2008 si è svolto un sopralluogo tecnico all’Alimena, alla presenza di funzionari del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico della Guardia di Finanza e del Servizio Geologico d’Italia-ISPRA. Lo scopo delle indagini è stata – riporta la relazione a firma dei geologi Roberto Graciotti, Raimondo Policicchio e dell’ingegnere Olimpia Spiniello - la caratterizzazione fisica di un sito di potenziale interesse archeologico. In particolare, è stato esaminato il substrato del fondo di una grotta, il cui imbocco è situato nella parete di una gola di origine fluviale, al fine di stabilire se tale deposito sia stato originato da opere di riempimento da parte dell’uomo o da processi di sedimentazione. Durante il sopralluogo sono state esaminate anche alcune incisioni presenti su un versante roccioso per determinarne le loro eventuali origini antropiche››.

La grotta esaminata nel corso del sopralluogo è la stessa indicata dai soliti appassionati di archeologia come il luogo di sepoltura di Alarico e del suo tesoro, a causa della presenza di un manufatto che potrebbe rappresentare un altare. ‹‹La grotta - continua la relazione - si trova nel comune di Mendicino, in sinistra idrografica del fiume Caronte, nei pressi del Ponte degli Alimena, con imbocco situato a circa 530 metri s.l.m. Nella parte centrale del piano calpestabile della grotta è stato praticato uno scavo di circa 2,50 metri di profondità da parte di ignoti. Un elemento di sicura origine antropica presente nella grotta è un “sedile” o “altare” scavato nella parete rocciosa sul lato destro, il cui studio e la valutazione da un punto di vista archeologico si rimanda agli organismi scientifici. Per quanto riguarda il deposito posto sotto il piano di calpestio della grotta, visibile nello scavo operato da ignoti, gli elementi descritti nella presente relazione non sono compatibili con l’ipotesi di un riempimento della cavità di origine antropica››.
Nessuno scavo, dunque, per seppellire qualcuno e/o qualcosa è stato effettuato nella grotta.
Non finisce qui, poiché dalla parte opposta del fiume, molto lontano dalle grotte, si erge una collina su cui è visibile la cosiddetta “croce di Regarde”. I soliti appassionati di archeologia, con molta fantasia, hanno ipotizzato che fosse una croce runica, incisa per indicare che di fronte, nella grotta dunque, si troverebbe la tomba del barbaro.
Sempre nella relazione leggiamo: ‹‹Successivamente è stato effettuato un sopralluogo presso il costone roccioso collocato nel versante opposto a quello della grotta ispezionata, alla quota di circa 590 metri s.l.m., per verificare la natura di una incisione a forma di croce che presenta un elemento orizzontale di circa 20 metri ed uno verticale di circa 15 metri. In particolare, è stato possibile osservare direttamente che il presunto braccio verticale della croce è in realtà un solco di origine carsica, ad andamento irregolare e profondità variabile da pochi centimetri al decimetro, originato dal dilavamento concentrato delle acque di percolazione. Per quanto riguarda il braccio orizzontale dalla base della parete si è potuto osservare la presenza di un piccolo gradino da riferire probabilmente ad un giunto di strato o ad una linea di fessurazione. Si tratta quindi di forme di erosione carsica e strutturali, tipiche e diffuse sui costoni carbonatici››.
In altri termini, gli elementi della struttura “a croce” presente nel versante opposto a quello della grotta si configurano come forme di erosione carsica, dunque non riconducibili all’opera dell’uomo. La relazione fu trasmessa alle Autorità di vertice del MiBACT e sue derivazioni periferiche sul territorio, alla Procura della Repubblica di Roma, all'uopo interessata per gli aspetti correlati alla presenza - nella cavità ruinica di Mendicino - di scavi clandestini, poi rivelatisi episodici e comunque aventi per oggetto la medesima ricerca.  
Alarico non si trova qui e probabilmente nemmeno nel Busento, basterà ora la relazione scientifica a mettere la parola fine a una ricerca priva di fondamento?

I VERI TESORI DELLE GROTTE SULL'ACHERONTE 



L’OSCURO antro degli Alimena (dal latino ‘ad limina’, cioè ai confini) è balzato agli onori della cronaca per l’ipotesi di localizzazione del tesoro di Alarico in una delle grotte situata sul costone roccioso, contenente un piccolo altare di pietra. Sembra, invece, che di notte qui si svolgano riti esoterici, come testimoniano i resti di candele, torce e strani oggetti votivi lasciati in loco dagli officianti. In realtà, questi gruppi esoterici non sono affatto interessati a trovare la sepoltura di Alarico o il suo prezioso tesoro e le sue armi, ma un solo oggetto, frutto della razzia compiuta nel sacco di Roma del 410 d.C.: la sacra coppa del Graal, in cui, secondo il racconto biblico, Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue di Gesù sotto la croce. Si narra, infatti, che i Romani a loro volta lo avessero rubato nel tempio di Gerusalemme alcuni secoli prima del 410 d.C., quando Alarico devastò e saccheggiò Roma, si impadronì di un tesoro inestimabile e portò con sé il bottino. Fermato a Cosenza dalla malaria, la leggenda vuole che qui sia stato sepolto con tutto il suo oro, quindi il bottino di Roma. Non sappiamo se in questo bottino ci fosse anche il sacro Graal, ammesso che esista, ma da quel momento in poi iniziò una ricerca che dura tuttora. Di tutte queste leggende, però, non c’è ad oggi nessun serio riscontro archeologico, nonostante nel corso dei secoli l’interesse sia stato sempre alto, tanto che prima della seconda guerra mondiale, Hitler, fanatico e dedito all’esoterismo, in pieno delirio di onnipotenza, inviò a Cosenza il suo luogotenente Himmler per trovare il sacro Graal.
Le grotte nell’area dell’Alimena sono decine, abitate in epoca preistorica e poi medioevale, in esse sono state ritrovate molte ceramiche dell'età del bronzo, il corredo funerario di un monaco con un reliquiario, dei chiodi e una croce stranissima che al posto delle tre braccia dritte ha tre spirali che richiamano i disegni di Gioacchino da Fiore. Purtroppo, molti hanno interpretato questo oggetto come idolo esoterico. 
Molti anni fa, fu ritrovata da un contadino, in una tomba vicino alle grotte, una statua in marmo di circa 28 cm, mutila di testa e gambe, indossante uno strano ‘exomis’ di pelliccia, cioè una tunica/canotta a una spalla, molto comune tra i pastori di epoca greca e romana. Il "pastore" di Menekine (antico nome di Mendicino) è una copia romana in marmo di un originale greco in bronzo risalente probabilmente al I sec. d.C.

La statua è conservata nella chiesa di S. Pietro a Mendicino. Nelle vicinanze ci sono ‘le grotte dei forni’, una serie di antichi forni costruiti a forma di cupola perfettamente emisferica, con pietre e "sanso", una particolare argilla usata come malta.


Cosenza, 21 gennaio 2018

© DOMENICO E FRANCESCA CANINO











06 gennaio 2018

LE ORIGINI CALABRESI DI OTTAVIANO AUGUSTO, PRIMO IMPERATORE ROMANO Domenico Canino




Ottaviano Augusto da giovane si faceva chiamare Octavius Thurinus. Suo nonno proveniva da Thuri, la città fondata sulle rovine di Sibari. Sono molte le fonti latine, tra cui Svetonio, Marco Antonio e Orazio, che confermano questa sua origine.
Svetonio scrisse: “Quando era neonato gli fu imposto l’appellativo di Thurino, in memoria dell’origine degli avi, o perché il padre Ottavio aveva combattuto con buona fortuna in quella regione contro gli schiavi fuggiaschi”, che, aveva già scritto prima il biografo, erano bande superstiti delle rivolte di Spartaco e di Catilina.
Sappiamo da Svetonio che l’origine thurina di Cesare Ottaviano Augusto si ricava dalla genealogia richiamata da Antonio, il quale, segnalando la sua discendenza, intese dire che non poteva accampare alcuna origine senatoria: “Avus, funarius, pater argentarius, ipse thurinus”, con riferimento al fatto che era di umile origine e non poteva vantare discendenza senatoria. Il nonno, dice l’epigrafe, era costruttore di funi, un umile cordaio, forse ex-schiavo, il padre banchiere, egli stesso Thurino, nativo di una città periferica. Marco Antonio aveva fatto incidere questa frase sulla statua di Ottaviano, quando, come suo avversario politico, era riuscito a proscriverlo da Roma con decreto del Senato. Augusto non si curò della scritta e quando rientrò a Roma, dopo aver sconfitto il suo irriducibile avversario Antonio, lasciò che l’epigrafe campeggiasse ancora ai piedi della sua statua.
Inoltre, il poeta Orazio, già compagno di studi di Ottaviano ad Atene, in una sua Ode, la III, 9, raccontò di una rivalità in amore per la bella Lidia con un potente chiamato Thurino; ebbene questo è un altro indizio che Augusto si faceva chiamare in gioventù Thurino. Quando divenne imperatore, Augusto fece coniare delle monete (denari) con il simbolo del toro cozzante di THURIOI, fondata nel 444 a.C. da Pericle, e che ai tempi di Augusto era ormai una colonia romana, in cui si venerava ancora un’antica statua in bronzo del toro cozzante. Nel dritto della moneta c'è il busto di Augusto e nel rovescio c'è il toro cozzante, usato da Augusto come riferimento alla sua origine THURINA, che non gli dispiaceva affatto, visto che la città calabrese poteva vantare di essere stata fondata dal grande statista ateniese Pericle, figura di prestigio per il primo l’imperatore di Roma.

6-1-2018
© Domenico Canino