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03 febbraio 2017

Il brigante Pietro Corea di Albi

La rivolta dei cafoni:
la storia del brigante Pietro Corea di Albi

di DOMENICO e FRANCESCA CANINO

Pietro Corea di Albi
 da "Il Quotidiano della Calabria", agosto 2013
«Il tempo è mancato e non la volontà». Con queste parole il brigante Pietro Corea confessò i delitti di cui si era macchiato, e che avrebbe ancora voluto compiere, prima di essere mandato al patibolo.
Corea, la sua terribile banda e le violente azioni svolte insieme alla bella amante Rosaria Mancuso erano note in tutta la Calabria post-unitaria. Sembrava inafferrabile poiché, nonostante gli oltre cento delitti commessi, nessuno era mai riuscito a catturarlo.
Pietro Corea era stato sbandato da Garibaldi e ritornato al mestiere di contadino ad Albi, suo paese natio, visse le passioni, l'odio e i sentimenti di vendetta che si erano diffusi tra la popolazione. L'improvvido ordine del General Fanti, Ministro della guerra, che chiamava alle bandiere gli sbandati, eccitò il malcontento e pure l'animo di Corea che, rifugiatosi in campagna, fu per tre anni il terrore del Cosentino e della Calabria media nella sanguinosa 'Rivolta dei cafoni'.
Corea era il capo della 'banda degli Albesi', costituita da Meliti Carmine, Marchese Giuseppe, Bianchi Pietro, Perrelli Pasquale, 'Cirino' Pasquale, Dardano Pasquale e Antonio di Albi - detti rispettivamente “Tabacchera” e “Zaccarella” - e Scavo Giuseppe di Cicala. Avevano dapprima cominciato con le razzie, nel 1861, delle mandrie di Guglielmina e della chiusa di Baracco di Crichi. A dar loro la caccia erano gli squadriglieri di Muraca di Cerva, i Carabinieri, la Guardia Nazionale Mobile, la prima compagnia del 29° Reggimento Fanteria di stanza a Crichi. In seguito erano diventati feroci assassini a causa della povertà e della rabbia provata per il nuovo/vecchio potere costituito e nei confronti di latifondisti, giudici, avvocati. 
Rocco Casalinuovo,
capobanda di Catanzaro

Fedele Strongoli,
capobanda di Mongiana
Favorito dalla natura selvaggia della regione, e dai fedeli manutengoli tra cui il padre, il contadino Francesco Corea, la banda di Pietro, nel maggio del 1865, sequestrò il giudice Savino, il deputato Gallucci e due avvocati che stavano andando in diligenza verso il capoluogo. La fama del bandito, dei suoi complici e delle "gesta" che compiva, sempre accompagnato da Rosaria Mancuso, si diffusero rapidamente.
Ma l’8 dicembre del 1865 fu scovato a Gagliano, in periferia di Catanzaro. Questa la cronaca ripresa dal rapporto dei Carabinieri: “Dopo lunghe indagini e la meticolosa costruzione di una rete di confidenti, il vicebrigadiere Pietro Leone ricevette la soffiata giusta. Alcuni pezzi grossi della banda si nascondevano alla periferia di Gagliano (Catanzaro) dove lui comandava la stazione dei Carabinieri. Leone non perse tempo: con tutti i suoi uomini e con una pattuglia di bersaglieri accerchiò la casa sospetta. Con cautela organizzò l'irruzione nella casa che appariva completamente disabitata. Proprio mentre Leone si apprestava a dare l'ordine di lasciare la casa, il carabiniere Pietro Bonetto scoprì una pietra circolare posata sul pavimento”.
Pietro Gallo,
capobanda di Catanzaro

I Carabinieri si accinsero a spostare la pesantissima pietra. Bonetto fece appena in tempo a smuovere il sasso che una scarica di fucileria lo uccise sul colpo. La botola venne immediatamente circondata, anche se fu subito chiaro che non sarebbe stato facile portare fuori i banditi dal loro rifugio: andare a prenderli era impossibile, estremamente rischioso aspettare una resa per fame. Fu allora che a qualcuno venne l'idea di affumicarli. Si legge ancora dal rapporto: “Fu trovato un sacco di zolfo, gli si diede fuoco e lo si lanciò nella botola. Quando i briganti si videro piombare addosso quella massa ardente e fumigante, tentarono di spegnerla e di resistere. I loro polmoni cominciarono a bruciare, gli occhi a lacrimare, l'aria cominciò a mancare e in pochi minuti furono costretti alla resa”.
Pietro Bianchi di Catanzaro

Uno alla volta, con le mani alzate, risalirono alla luce dove li attendeva un cerchio di armi spianate. Erano soltanto in quattro, ma tutti temutissimi: Antonio Trapasso, Pasquale Dardano, Pietro Corea e, ultima a uscire vestita da uomo, Rosaria Mancuso, la bellissima amante di Corea. Strettamente legati, i quattro vennero tradotti in cella. Quella notte, quando giunse la notizia che a Gagliano era stato catturato il famoso e temuto capobanda Pietro Corea con altri due banditi e la sua druda, nessuno andò a dormire. Un'onda di popolo rigurgitò verso il borgo per vedere l'uomo che aveva seminato il terrore nelle campagne calabresi. Era un'ora di notte quando arrivò il brigante in manette in mezzo a un formidabile apparato di soldati. Centocinque furono i delitti imputatigli. Gli fu chiesto di difendersi dalle accuse, ma imperturbabile rispose: «Signore, fui richiamato al militare; non volli perché avevo giurato di servire il mio Re. Mi decisi perciò a fare il brigante, come lo si deve fare. L'ho fatto, e mi duole solo di essermi mancato il tempo a compierlo come l'avevo desiderato. Io ho fatto quanto mi accusate; ma volevo farne di più. Il tempo è mancato e non la volontà».
Dinanzi alla cinica confessione del giovane uomo di 27 anni, tutti, ma specialmente gli ufficiali, restarono fortemente impressionati. Dopo pochi giorni fu allestito il patibolo nella piazza principale di Catanzaro. Non fu celebrato alcun processo, solo emesso una condanna a morte. Il giovane brigante barbuto avanzò verso la ghigliottina, impassibile anche davanti alla morte, dinanzi alla quale rimase freddo e deciso. Si avviò verso il supplizio a piè fermo e occhi bassi, guardando l'immagine di un santo che qualcuno gli aveva messo nelle mani legate. Indossava un abito di colore verde, orlato di strisce di velluto, trine e laccettini di seta; il giustacore della medesima stoffa era chiuso in mezzo da un ordine di bottoni e terminava con una pancera guarnita da tre fila di piccoli bottoni d'argento a forma di una esse capovolta.
Eduardo Trapasso,
brigante di Catanzaro

Dopo l'esecuzione, le sue mani, la testa e il cuore furono inviati a Firenze, allora capitale del Regno. Bonetto ebbe una medaglia d'argento alla memoria.
Questo fu solo uno degli episodi accaduti durante la terribile repressione piemontese all'indomani dell'Unità d'Italia, che diffuse il terrore nelle popolazioni meridionali. Tutti coloro che avevano un familiare o un parente brigante che si era ribellato all’invasione dei Savoia vivevano nella paura e nella vergogna. Molti contadini che avevano combattuto con Garibaldi per avere la terra furono vilipesi e traditi e fatti passare come briganti.
Con la famigerata legge Pica del 1863 si rese un inferno il Sud, realizzando un genocidio con un milione di morti, mezzo milione di arresti, cinquantaquattro paesi rasi al suolo, azzeramento dell’apparato industriale, saccheggio sistematico di tutte le ricchezze e venti milioni di emigranti in trent’anni, fenomeno inesistente fino al 1860.
E fu così che da briganti diventammo emigranti.

3 febbraio 2017
© Domenico e Francesca Canino 

4 commenti:

  1. Domenico e Francesca Canino, il presente servizio è a mio avviso chiaro conciso e veritiero. Complimenti.

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  2. ci sono delle imprecisioni su Pietro Bianco (no Bianchi) da Bianchi (CS) e non da Catanzaro e soprattutto era capobanda come dimostrano gli innumerevoli atti.

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