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09 marzo 2015

L'ultimo brigante: Francesco Acciardi di Aprigliano



  da ''Il Quotidiano della Calabria'', dicembre 2012

QUEI briganti del Sud che intimorivano la popolazione con fatti violenti o con  scellerate condotte contrarie alla morale e alla legge, spesso iniqua, sono diventati in alcuni casi il simbolo del coraggio virile che tanto ha affascinato donne e giovani. Eroi contro ogni convenzione, che ribellandosi al potere diventavano gli alleati del popolo, i difensori degli ultimi, i paladini di una giustizia che poco considerava i più deboli. Una sorta di nemesi che colpiva l'immaginario collettivo, anche di stranieri. Donne in particolare, che non furono immuni al fascino del brigante, come accadde nella vita di Salvatore Giuliano e, per altri versi, in quella di Francesco Acciardi, la cui vicenda intenerì la scrittrice olandese Nanny Klinkert, traduttrice del romanzo “Il Brigante” di Giuseppe Berto. La scrittrice venne in Italia per conoscere l'ergastolano Acciardi e intraprese una lunga battaglia per ottenere la grazia, chiedendo aiuto alla moglie del futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, allora Presidente del Consiglio e alla signora Reale, parente del ministro di Grazia e giustizia.


Meno noto di tanti altri briganti, Acciardi, detto 'Cicciu ‘e mare mare', nacque a Grupa di Aprigliano nel 1893. Condusse una vita normalissima fino a vent'anni, lavorando con il padre nei campi. Coltivavano un terreno confinante con la proprietà della famiglia Celestino, della cui giovane figlia, Ida, Acciardi si innamorò. Fu questo l’evento che segnerà tutta la sua vita.

Di temperamento sanguigno, i suoi problemi giudiziari dovuti a semplici liti con altri compaesani iniziarono nel 1914. Allo scoppio della prima guerra mondiale, Acciardi fu arruolato, ma disertò, sebbene per pochi giorni, perché voleva rivedere la sua fidanzata. Fu arrestato e posto dinanzi alla scelta di rimanere in prigione o essere arruolato nel battaglione d’assalto in prima linea. Scelse il fronte con gli arditi, come ha scritto Tonino De Paoli nell'opera più completa e veritiera sulla vita del brigante, dal titolo “Processo ai processi”, che ci permette oggi di raccontare la tumultuosa esistenza di Francesco Acciardi. Dopo il ferimento sul Piave fu decorato con la medaglia d’argento al valore e con i gradi di sergente e alla fine della guerra fece ritorno ad Aprigliano. In quegli anni il piccolo centro della presila cosentina si preparava a vivere una fase dolorosa e comune a quella di tanti altri paesi meridionali: l'emigrazione verso l'America del Nord e del Sud. Troppa fame spingeva la gente a cercare una vita migliore in altri paesi e per chi rimaneva le prospettive non erano rosee.

In questo contesto sociale Acciardi fu accusato di aver assassinato il compaesano Domenico Abbruzzini, un ricco possidente. Accusa mai provata, ma ricaduta su di lui per l'acquisto di un fucile nei giorni precedenti l'omicidio e per il fatto che la vittima aveva da tempo iniziato una relazione amorosa con la cugina di Acciardi, ostacolata dalla famiglia della giovane perché Abbruzzini era un gran donnaiolo. Acciardi si dichiarò innocente, aveva un alibi di ferro: nell’ora del delitto si trovava a Cosenza, in casa di Ida Celestino, la donna che amava. Ma ella, che non si presentò in aula, sostenne  in una deposizione giurata che non lo frequentava da tempo, tanto più la sera del delitto. Acciardi fu condannato sulla base di semplici indizi a circa 17 anni di carcere, ridotti poi a sette dai Regi Decreti. Scontò la pena nel carcere di Cosenza e in quello di Pozzuoli. Tra i suoi avvocati figuravano Nicola Serra e Luigi Filosa che non riuscirono a dimostrare ciò che alcuni testi dichiararono in seguito, cioè che la Celestino aveva confermato loro l'alibi di Acciardi, ma che non lo aveva espresso per paura dei fratelli. La stessa tesi fu sostenuta da alcuni testimoni oculari che videro Acciardi a Cosenza la sera del delitto. Il fratello di Abbruzzini scrisse una lettera in difesa di Acciardi, incapace, a suo parere, di un crimine del genere. Alcuni oggi sostengono che in punto di morte un compaesano confessò di essere stato l'autore del delitto per dare una lezione ad Abbruzzini che aveva fatto una proposta indecente alla propria figlia.

Scontata la pena Acciardi fece ritorno ad Aprigliano, dove nel 1929 fu accusato di tentato omicidio ai danni dell’ex fidanzata Ida Celestino e quindi condannato ad altri mesi di carcere, in seguito ai quali fu sottoposto alla più rigida obbedienza per il suo stato di sorvegliato speciale. Le sue disobbedienze, però, indussero i Carabinieri ad assegnarlo a una colonia agricola. In questo periodo, estate del 1931, sposò la sedicenne Emilia Savaglio, detta Miliella. Segnalato come soggetto pericoloso, il Giudice di Sorveglianza gli impose una cauzione di quattromila lire o in alternativa due anni di colonia agricola. Non riuscì a trovare la somma e la sua posizione fu aggravata per aver procurato lesioni a un compaesano e per aver minacciato un carabiniere. Consapevole della sua situazione, per sfuggire alla galera si diede alla macchia, seguito a breve dalla moglie. Di giorno lavoravano duramente e di notte dormivano nei campi, sotto un gelso. Un contadino, Salvatore Musso, diventò amico fidato dei due coniugi fino alla notte tra il 22 e il 23 luglio del 1932, quando Francesco e Miliella, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, fecero ritorno al loro gelso e a sera caddero in un sonno profondo, interrotto solo dalla frescura della notte. Francesco, innamorato e premuroso sposo, si svegliò e coprì la moglie con la sua giacca per poi riprendere sonno, ma due colpi di fucile lo svegliarono. Si rese subito conto che era stata colpita Miliella e che la vittima designata era lui. Per quegli strani casi del destino, la giacca che avrebbe dovuto proteggerla dal freddo l’aveva esposta al pericolo supremo. Scambiata per Francesco, Salvatore Musso la uccise selvaggiamente. Era incinta di cinque mesi. Acciardi, nel tentativo di salvarla, aveva gridato la sua resa ai Carabinieri, pensando fossero stati questi a uccidere la moglie. Ma intorno era il silenzio, allora intuì che l’autore del misfatto era qualcuno che abitava nella casa vicina. Fu preso da una vera e propria monomania omicida che lo indusse a uccidere, nei giorni 24 e 25 luglio, Ida Celestino, i suoi genitori e altre quattro persone. Alla strage fece seguito, il giorno dopo, il ferimento di due carabinieri. Poi fuggì e si nascose nelle vicinanze, qualche settimana più tardi si costituì volontariamente. Il processo si svolse nella Corte d’Assise di Castrovillari alla presenza di un numerosissimo pubblico giunto da ogni parte della regione per guardare negli occhi Acciardi, assassino ed eroe vendicatore nello stesso tempo che era diventato bandito per amore. L’accusa sostenne che l’insano gesto del Musso era scaturito da un sentimento di rivalsa contro Acciardi che lo aveva sottomesso e obbligato a eseguire i suoi comandi. La difesa, invece, ritenne che il Musso fosse stato allettato dalla taglia posta per la sua cattura e da una sorta di impunità  della quale credeva di potersi avvalere per la sua collaborazione con la giustizia. Alcuni paesani raccontarono che il Musso, dopo una violenta rissa con il fratello, fu arrestato e guadagnò la libertà in cambio della promessa di consegnare Acciardi vivo o morto, poiché i Carabinieri, nonostante le forze impiegate, non riuscivano a catturarlo.

Memorabile fu l'arringa dell'avvocato Gennaro Cassiani: “Acciardi negli anni '20 subisce una condanna e grida la sua innocenza, ucciderà in seguito i Celestino perché la figlia Ida non volle testimoniare nel processo di Assise di essere stata con lui nell'ora del delitto: un alibi che significava una sentenza di assoluzione. In conseguenza della condanna è sottoposto a vigilanza speciale. Dopo qualche tempo è denunciato per una volontaria trasgressione agli obblighi della sorveglianza. Dove ha peccato Acciardi? Se ha peccato ha trovato pure la sua riabilitazione sposando una giovane ragazza di sedici anni e intanto viene chiesta la cauzione di buona condotta di quattromila lire. C'è dunque una miseria umana capace di inchiodare la miseria degli uomini sulla croce del delitto? Sì, c'è questa giustizia, perché il Giudice di Sorveglianza ad Acciardi dice: ‘O la cauzione o la colonia’. Acciardi chiede, cerca, invoca, finalmente pare abbia trovato, va a Cosenza, ma è troppo tardi, deve essere inviato in colonia. Alla sua mente infiammabile si presenta una sola via di scampo, la via della campagna. La moglie vuole seguirlo, ha paura dei Carabinieri che ogni sera bussano alla sua porta e segue il marito. Girano insieme, vagando. I Carabinieri sono sulle piste di Acciardi, ma cosa ha fatto il brigante Acciardi? Nulla... gli hanno chiesto quattromila lire e non le ha potute pagare. Il Giudice di Sorveglianza ha voluto dare alla miseria il nome di delitto, e Acciardi è al bando. Non c'è contro di lui un mandato di cattura, non potrebbe esserci ed egli intanto batte la campagna come un bandito. E poi la sera del 23 luglio... è questo il momento in cui il destino di un uomo può diventare l'urlo possente di una raffica donde scaturisce sangue, vendetta, disperazione e tutto travolge la mente di quell'uomo e tutto in lui cede il posto a una forma tipica di monomania omicida. Acciardi inizia la corsa alla follia. Ecco il valore del delitto Musso. Ecco il significato vero del danno che ne è significato ad Acciardi. Che altro sono i delitti di Acciardi se non una conseguenza immediata dell'uccisione della giovane moglie.

Il dramma è nella realtà: la miseria di un uomo inchiodata sulla croce del delitto, la carabina di uno sciagurato che spegne due vite innocenti, l'una fiorita, l'altra dischiusa, il dolore che sanguina, il dolore che uccide, il dolore che benda gli occhi e fascia la mente...”.

Fu chiesta la pena di morte, ma la Corte mutò la richiesta, condannando all'ergastolo Acciardi, con l’aggiunta di quattro anni di isolamento. Una pena di 18 anni fu inflitta a Musso.

Un articolo del marzo del 1947 apparso su ‘L’Europeo’, così descrisse gli eventi di quella notte: “… la popolazione, nonostante le uccisioni e il terrore che ispirava la figura del bandito, sentiva in un certo senso di poterlo giustificare col movente passionale. La patetica fine di sua moglie, poi, commuoveva in modo particolare e il ricordo del primo processo, in cui l’Acciardi era stato condannato si pensava su semplici indizi, la condotta della sua ex fidanzata che non aveva voluto confermare l’alibi, tutto questo induceva gli animi a sentimenti di compassione e di indulgenza. Insomma la fantasia popolare stava già creando la leggenda del vendicatore, dell’eroe che, in un momento di aberrazione, uccideva e faceva strage dei nemici reali o presunti per salvare l’onore e la memoria della donna amata”.

Acciardi fu rinchiuso nel carcere di Ponza, che all'epoca era duro e amaro: “Ogni giorno era un lungo giorno, in pochi mesi si era piegati”, soleva ricordare in paese.

Evase nel '44 in seguito ai bombardamenti e fuggì al Nord, dove fu arrestato dai tedeschi e deportato in Germania. Fu tra i pochi fortunati a far ritorno ad Aprigliano a fine conflitto, credendo che la guerra avesse definitivamente cancellato la sua condanna. Si trovò un lavoro in un’impresa boschiva, ma girava sempre armato, tanto da allarmare i Carabinieri che decisero di tendergli un tranello per riportare una certa tranquillità nelle campagne apriglianesi. Gli chiesero aiuto per la cattura di un pericoloso latitante che si nascondeva nelle montagne e Acciardi, che conosceva bene quei luoghi, accettò. Ma appena iniziata la battuta, i Carabinieri lo immobilizzarono e lo riconsegnarono alla giustizia. Tornò in carcere, prima a Porto Azzurro e poi a Procida, da dove uscì il 27 agosto 1966 in seguito a un Decreto di Grazia del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Gli fu imposto, però, un periodo di cinque anni di libertà vigilata. Pochi mesi più tardi sposò Emilia Schiavo e trovò un lavoro presso una casa editrice di Cosenza. Nel 1976 si accesero di nuovo i riflettori su di lui: nel mezzo di una discussione esplose un colpo contro la cognata che fortunatamente rimase illesa. Di nuovo il carcere, anche se solo per un breve periodo. Durante l’attesa del giudizio, nel carcere di Cosenza a Colle Triglio, tentò, senza riuscirci, il suicidio. Fu assolto e tornò libero. Morì due anni dopo ad Aprigliano, il 24 settembre 1978.

Ad Aprigliano ancora ricordano che non ci fu mai un giudizio unanime su Acciardi, alcuni lo descrissero come un uomo sanguigno e forte, ottimo tiratore di fucile, altri come un prepotente, altri ancora come una persona normale che solo le ingiuste vicende subite avevano trasformato in uno spietato criminale. Non furono tanto i delitti a dargli la denominazione di brigante, quanto il romanzo di Berto e il film di Castellani girato a Scandale. Berto apprese la storia da un articolo pubblicato sull’Europeo e il suo romanzo, tradotto in dodici lingue, divenne un best seller negli Usa, mentre duecentomila copie furono vendute nell’ex URSS. Nel 1961, dal romanzo fu realizzato un film dal regista Renato Castellani che fu presentato alla Mostra cinematografica di Venezia. ‘Il Giorno’ del 31 agosto 1961 scrisse: “E’ a nostro parere un film da Leone d’oro”. La storia del brigante, dopo il Decreto di Grazia, negli anni ’60, fu trasmessa a puntate sulla radio nazionale.

Si ringrazia Tonino De Paoli per le foto e le notizie
 
9-3-2015
©Francesca Canino

 

 

 

 

08 marzo 2015

Cosenza, quale sanità?


I Puntata
NELL'INDIFFERENZA delle Istituzioni e dei cittadini incede e si consuma la tragedia dell'Annunziata. Dilaniata dai morsi famelici del sistema sanitario regionale – laddove per sistema è da intendersi la regia che muove le risorse, destinandole in gran parte nelle tasche di registi e commedianti da questi assoldati – e defraudata di tante sue funzioni per invidia o ripicca o indolenza, l’ospedale di Cosenza soffre oggi per gli sprechi, per le scelte sconsiderate e per il clientelismo estremo che subisce ormai da molti anni. A pagare, questa volta, non sono come sempre 'solo' i cittadini - ai quali deve essere riconosciuto il grande demerito di disinteressarsi delle sorti del proprio ospedale - ma sono anche i medici che subiscono sulla propria pelle le conseguenze di un sistema malato. Terminale. Subissati da una richiesta di salute che proviene da tutta la provincia, costretti a lavorare in numero ridotto e a fronteggiare le pecche strutturali del vecchio ospedale, i medici temono che una siffatta situazione possa a breve diventare la scaturigine di tragiche vicende.  
 Come quella del sangue infetto, per esempio.

«Ottobre 2012: un pool di ispettori ministeriali evidenziò all'interno del Centro trasfusionale dell'Annunziata di Cosenza gravi criticità: scarse condizioni igieniche e gravi problemi di ordine strutturale. Gli ispettori romani rilevarono 65 irregolarità, 17 delle quali indicate come gravi. All'Azienda ospedaliera di Cosenza furono concessi 15 giorni di tempo per risolvere i problemi meno gravi e 30 per quelli più critici. Nell'agosto del 2013, dopo il decesso di un settantacinquenne rendese a causa di una trasfusione di sangue infetto, giunse a Cosenza Giuliano Grazzini, direttore del Centro nazionale sangue che, munito di mandato ministeriale, riscontrò il permanere delle criticità, rilevando anche che gli interventi compiuti non erano stati risolutivi».

La protesta della Tenda blu

«I medici dell'Annunziata protestano da gennaio 2014, hanno manifestato sotto una tenda per oltre un mese, sono scesi in piazza, hanno incontrato più volte i vertici della sanità cosentina e regionale, il Prefetto, il sindaco e la commissione consiliare sanità di Cosenza, l'ex sottosegretario alla salute. Hanno organizzato una manifestazione provinciale il 12 aprile del 2014 e sono stati sostenuti dai quotidiani cittadini, ma nulla si è mosso. Anzi, l'ex presidente della Giunta regionale calabrese e commissario ad acta Giuseppe Scopelliti ebbe ad affermare nei mesi scorsi con un tweet che “bisognava ribellarsi prima, quando a Cosenza assumevano portantini, uscieri e amici dei mafiosi. No?”. I sanitari si chiesero perché il presidente attribuiva a loro responsabilità che erano invece della politica e perché, soprattutto, gli errori di tale politica dovevano ricadere sui cittadini, in questo caso anche ammalati. I problemi dell'ospedale non sono stati determinati né dai medici, né dai cittadini, ma coloro i quali hanno voluto questa situazione, quando devono curarsi ricorrono alle cliniche svizzere o del nord Italia».

Da cosa sono causati, in massima parte, i problemi ospedalieri a Cosenza?

«In buona parte dalla rete territoriale, ovvero l'ASP, che non funziona adeguatamente. Circa un anno fa, è stato scoperto un giro di consulenze d'oro che i vertici dell'Azienda avrebbero affidato ai loro amici, sembra con il placet di tutto l'establishment regionale, senza rispettare le procedure previste. Intanto, i cittadini per curarsi, quando possono, ricorrono alla sanità privata, spendendo fior di quattrini, quando non possono si mettono in lista d'attesa per mesi e mesi o si tengono i malanni. A fronte di tanto disinteresse per i malati, che cosa sono stati due mesi di interdizione per un direttore generale che avrebbe elargito migliaia di euro a un avvocato amico, sottraendoli ai cittadini/pazienti che pagano le tasse? E soprattutto: non sarebbe l'ora di adottare altri provvedimenti nei confronti di chi ha fagocitato la sanità calabrese?».

Siamo di fronte a una politica che ha annullato i diritti e aumentato i profitti.

«Basta pensare alle convenzioni: una stipulata con l’Umberto I e l'altra con il Bambin Gesù di Roma. Con quest'ultimo si è voluto creare nel nosocomio catanzarese una qualificata équipe di chirurghi pediatrici per limitare l'emigrazione sanitaria dei calabresi verso le altre regioni. Prima di apporre la firma, però, a qualcuno è sfuggito che l'accordo prevedeva l'esecuzione di interventi chirurgici a bassa complessità sui minori. E' sfuggito anche che l'UOC di Chirurgia pediatrica dell'Annunziata esegue, oltre agli interventi chirurgici più comuni, anche quelli più rari e ad alta o altissima complessità. Qui, inoltre, confluiscono casi sanitari pediatrici da tutta la regione e al suo attivo ci sono ben 1300 interventi annui, tutti attestati sul sito dell'Azienda ospedaliera. A cosa è servita, dunque, la Convenzione con il Bambin Gesù? A sostenere una spesa extra di due milioni di euro per interventi chirurgici che di routine vengono eseguiti a Cosenza? Sembra che l'ospedale pediatrico romano versi in grosse difficoltà finanziarie e la possibilità di drenare pazienti da altri nosocomi è fonte notevole di entrate. Tra l'altro il Bambin Gesù è un ospedale situato nello stato Vaticano e pertanto non è sottoposto ad alcun controllo da parte delle autorità italiane».
«C'è anche Nativity, un progetto accompagnato da una scia di polemiche. Benché sconosciuto a molti medici è giunto alla sua seconda edizione nel 2014. Rivolto ai ragazzi delle scuole elementari e medie e alle loro famiglie per apprendere i rudimenti della prevenzione sanitaria e le regole della corretta alimentazione attraverso attività ludiche, è stato voluto dall'ex presidente Scopelliti per portare in Calabria il meglio della pediatria. Nell'ambiente sanitario c'è stata molta avversione verso l'iniziativa, poiché l'esperimento è stato fatto a Roma e sembra che sia stato un fallimento. In conseguenza a ciò, il progetto è stato proposto alle regioni meridionali. Dalle poche notizie circolate, sembra che il costo dell'iniziativa si sia aggirato intorno alle 200.000 euro e che siano stati utilizzati i fondi destinati alla formazione del personale. Solo sprechi mentre all’ospedale di Cosenza manca l’essenziale».

E l’elisoccorso?

«Due anni senza stipendio per i medici dell'elisoccorso perché l'Azienda ospedaliera di Cosenza ha interrotto i pagamenti, a differenza dei loro colleghi in servizio presso gli altri ospedali della regione. L’ex direttore dell'Ao di Cosenza, Paolo Gangemi, ha dato una interpretazione personale al Decreto regionale 94/2012. Secondo l’ex dg, a pagare il servizio di elisoccorso doveva essere l'Asp, considerato che il servizio fa capo al 118. Il decreto, da quel che ne sappiamo, non è nemmeno in vigore. Ma per Gangemi è, invece, in vigore e lo applica. Da dove si evince la malafede? Dal fatto che per sostenere questa sua tesi l’ex dg ha chiesto per circa due anni continui chiarimenti alla regione. Nelle altre province i medici che sono regolarmente pagati dall'ASP o dall'AO, cioè dall'ente di appartenenza. La Regione deve dare ai vari enti di appartenenza una quota pari circa a 2.160.000 euro. Questi fondi negli anni scorsi a chi sono stati dati?».

Questo il resoconto del 2014, nella prossima puntata esamineremo il 2015. Intanto da mesi la sanità regionale non è governata perché non si riesce a nominare un commissario… e come se non bastasse è stato disposto lo sgombero del Mariano Santo.

8-3-2015
©Francesca Canino