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31 ottobre 2014

Halloween, streghe e magare in Calabria tra passato e presente


 

 

 

 

STREGHE, maghi, filtri e formule magiche non appartengono solo alla saga di Harry Potter o alla notte di Halloween, ma affondano le loro radici in un mondo antichissimo.
La parola 'Halloween' è una variante scozzese del nome completo 'All-Hallows-Even', che tradotto significa 'la notte prima di Ognissanti' e rappresentava il momento più solenne di tutto l’anno druidico, ricorrenza che presso i Celti segnava la fine dei raccolti e l’inizio dell’inverno, cioè il cambiamento radicale della vita nei mesi successivi. Per un popolo essenzialmente agricolo come i Celti, l’arrivo dell’inverno era associato all’idea della morte e si credeva che gli spiriti esercitassero il loro potere sui raccolti dell’anno nuovo. Secondo i Celti, infatti, il 31 ottobre era una notte piena di magia, durante la quale si assisteva a una temporanea sospensione delle leggi che governavano spazio e tempo: solo per una notte, l'aldilà poteva fondersi col mondo dei vivi e gli spiriti vagare indisturbati sulla Terra. Notte delle streghe, dunque, come spesso è stata definita.
Importata negli ultimi anni in Italia, la festa di Halloween è sentita ancora come una tradizione estranea, anche se alcuni simboli si ritrovano nella tradizione calabrese. Nelle campagne intorno a Cosenza, precisamente a Donnici, le zucche decorate di Halloween erano già usate nel secolo scorso per tenere lontano i malintenzionati e i predatori notturni dai prodotti ricavati dalla terra. I contadini del luogo, infatti, sistemavano alcune zucche scavate, con una fonte luminosa all’interno, vicino ai raccolti per impaurire e allontanare ladruncoli e bestie. Nulla di magico e occulto, solo uno stratagemma utilizzato per proteggere i frutti del proprio lavoro, anche se nella società rurale del Sud il ricorso alle pratiche magiche costituisce una costante della sua storia.
Halloween a parte, magia, magare, spiriti e credenze hanno popolato il passato della nostra regione. Rigurgiti di una cultura pagana che si è sovrapposta e frammista con la religione, producendo l'insieme di riti, carmi e superstizioni di cui la Calabria è ricchissima. Addentrarsi in tale realtà significa entrare in un mondo sconosciuto e sorprendente, un po' come Harry Potter che dalla stazione di King's Cross di Londra, tramite un passaggio magico, raggiunge il binario 9 e 3/4 da cui parte l'Espresso per Hogwarts. Anche il nostro viaggio, seppure parziale, nel mondo della magia calabrese inizia da un passaggio. Si tratta, in questo caso, di un passaggio di credenze che dall'antica tradizione orientale, improntata sull'astrologia e la cabala, approdarono nell'Ellade, poi nella Magna Grecia e infine a Roma. Un vero patrimonio di credenze magiche che si perfezionò nel Medio Evo con un rifiorire delle scienze occulte, di streghe e stregoni, ma anche di caccia alle streghe.
Di matrice antichissima, credenze e superstizioni sono figlie di una cultura alta: i numeri e la loro divina magia, gli influssi della luna, gli auspici tratti dalle viscere degli animali, gli scongiuri e le fascinazioni sono il filo rosso di una tradizione che è stata capace di attraversare i secoli, disciplinando la vita degli uomini e vivendo a fianco della religione cristiana. L'insegnamento di Pitagora e quello di Cristo sono frammenti di una storia che conserva tracce dell'umanità primitiva e che svela analogie con popoli lontani. Il popolo meridionale, mantenuto nella più supina ignoranza nel corso dei secoli, ha ereditato da ogni invasore le credenze tipiche e strane che colpivano la rozza fantasia delle classi inferiori. Nelle menti più grossolane, un inveterato corredo di pregiudizi è sopravvissuto al corso del tempo, costituendo un baluardo in opposizione alla penetrante cultura scientifica moderna.
Non meraviglia, dunque, se fino a qualche decennio fa, prosperava la genìa delle 'cummari', una sorta di fattucchiere tenute in grande considerazione specialmente nelle campagne, che usavano 'carmi' miracolosi per 'carmare' le varie malattie. Derivati dai 'carmina' dei Latini, i carmi del popolo erano delle formule verbali ritenute magiche, di alto valore curativo e accompagnate da riti misteriosi e plateali, alle quali, per effetto del cristianesimo, erano state adattate e inframmezzate preghiere e voti ai Santi. Sono versi spesso monchi e a volte inconcludenti per il passaggio di bocca in bocca, spropositati per le aggiunte e modifiche personali o locali. Poco importa al popolino comprendere il significato del 'carmu', anzi una formula oscura lascia più attonito l’ascoltatore che rimane suggestionato. Praticate da anziane donne che li avevano appresi in condizioni particolari di giorni e luoghi per goderne il privilegio, i carmi sono la fusione di preghiera e di minaccia, di invocazione e spesso maledizioni, ibride fusioni in cui si colgono influssi dell’astrologia orientale. Le malattie da curare con il carmu comprendevano l’affascinu, la verminazione nei bambini, i morsi degli animali velenosi, i mal di testa, di stomaco, l’itterizia, le oftalmie.
Quando una persona mostrava segni di indisposizione generale, senza alcun dubbio la diagnosi ricadeva sull’affascinu, cioè l’azione malefica del fascino o jettatura che alcune persone si pensava emanassero per cattiveria, invidia, vendetta o involontariamente con gli occhi (‘u maluocchio) e con le parole (‘u picciu). Le donnicciole credevano addirittura che si potesse non solo ‘affascinare ppe mali’, ma anche affascinare 'ppe bene'; il fascino era sempre possibile quando gli occhi di una persona restavano fortemente colpiti dai pregi fisici di un'altra, specialmente dei bambini. Queste le ragioni per cui quando si guarda un bambino e si parla della sua bellezza si pronunciano frasi del tipo: for’affascinu, fora mal’uocchiu, benedìca, quasi a volere allontanare i cattivi influssi. Per evitare l’affascinu si usavano diversi oggetti 'contraffascinu': dalla manina che fa le corna, al ferro di cavallo, alla 'petra du truonu', piccola scheggia di silice scura incastonata nel metallo, ritenuta di provenienza celeste e giunta sulla terra con il tuono, che invece si trovava naturalmente nel terreno. Per allontanare i cattivi spiriti dai neonati, si usava 'l’abitiellu', un sacchettino quadrato rosso contenente un frammento di stola sacra, ulivo benedetto, cera d’altare, un pizzico d’incenso e tre granelli di sale. Sale, elemento di stregoneria, tre, misterioso numero dispari che insieme a oggetti sacri costituivano potenti amuleti in grado, secondo la creduloneria del popolo, di allontanare le anime dannate, gli spiriti, le streghe. Di notte essi si divertivano a spaventare la gente, tradizione ripresa da quella latina delle 'Lamiae' di cui Orazio cita nella 'Lettera ai Pisoni', delle 'Larvae', dei 'Lemures', coorti erranti assetate di sangue. Baluardo insormontabile presso i più piccoli sarà il 'crivu', il setaccio, che terrà lontato gli spiriti della notte, cioè l’auguriellu da casa, u monachiellu, ovvero il Lare o Genius dei Latini, il daimon dei Greci, a volte buono e scherzevole, a volte capriccioso e tormentatore. E quando, nonostante amuleti e talismani, il bambino piagnucolava senza un motivo o era irrequieto, una era la diagnosi: era'affascinatu' e si doveva procedere allo 'spascinu' per annullarne gli effetti. Qui entrava in scena 'u carmu' recitato per tre volte, nella stessa seduta, dalla cummara che sbadigliava e recitava formule incomprensibili, imperniate sui seguenti scongiuri: “Chin'è statu chi t'ha affascinatu? Su' stati l'uocchi, 'u core e la mente. Passa affascinu, c'ud'è nnente” o “Escitinni affascinu tuttu, ca chissu è locu brutto, ca chissu picciriddu è assai bruttuliddu”.  
Nella provincia di Cosenza un tempo erano note le 'magare di Pittarella', frazione nel comune di Pedivigliano da cui si sparsero per tutta la Calabria. Nel 1871, Vincenzo Padula nell'opera 'Protogea' riferì l'etimologia di Pittarella alla lingua ebraica, in particolare all'arte divinatoria: «Le donne di Pittarella han magici sguardi,  magiche parole, han diabolico riso; parlano con la luna e coi venti, conoscono l'arte di Circe e di Medea. "Tu sei una magara di Pittarella" è quanto di peggio può dirsi a una donna in Calabria. 'Pethor' significa in ebreo 'Interpretazione dei sogni' e da Pethor si fece Petorel, e in bocca nostra Petorella, e Pittarella al modo che il fiume Gazar di Luzzi diventò Gazrel, ossia Gazzarello: colà doveano condursi i nostri padri semitici per chiedere alle sue sacerdotesse l’esplicazione di loro visioni notturne. Le brave ragazze di Pittarella, che ne sembrano le discendenti, fanno maggiori miracoli che non colui, che dava la parola ad un asino».
I 'maggiori miracoli' di cui scrive il Padula erano opera della magara, una sorta di   fattucchiera-sapiente chiamata in causa quando i rimedi della scienza non sortivano gli effetti desiderati dopo giorni di cure mediche. Il popolo non accettava l'idea dell'inguaribilità o dell'ostinatezza di alcuni morbi, tanto da pensare che il malcapitato fosse stata vittima di una 'magarìa', cioè di una fattura. Anche il paese di San Fili, vicino Cosenza, contava un buon numero di magare, temute, ma anche rispettate, di esse si provava ribrezzo, ma nessuno le allontanava per timore di essere colpito da qualche malìa. E ciò rafforzava il loro potere, perpetuandolo nel tempo.
La magara calabrese era (è?) ritenuta in grado di far ammalare la gente e produrre disgrazie attraverso le erbe, i filtri, le imprecazioni, le fatture, strumenti potentissimi per eccitare gli animi di odio o amore e conoscere le cose occulte. Circondata di gran mistero, di animali, di strane polverine, pronunziava oscure invocazioni con i capelli rigorosamente sciolti, tracciando cerchi, triangoli e altri segni cabalistici per impressionare il povero cliente. Nessun medico avrebbe mai potuto guarire una magarìa: contro una magara si doveva ricorrere ad un'altra magara, conoscitrice dei segreti e degli antidoti magici. Un business infinito basato sulla promessa di sciogliere la fattura fatta all'infermo, di solito molto potente poiché da essa dipendeva il compenso. Impostori a cui non furono inflitte le dovute punizioni affinché si perdesse la voglia di ingrassare sfruttando la buona fede e i patimenti del prossimo.
Storia, mito, leggenda, tutto si compenetra e si fonde in una sopravvivenza spesso incompleta e mista a mitologie pagane e a influssi cristiani, risultato delle sovrapposizioni che le diverse civiltà hanno indotto nella coscienza delle masse.
Ma esistono ancora le streghe? Sì, esse esistono ancora e non solo nella notte delle streghe per antonomasia o in qualche sperduto paesino, ma anche durante tutto l’anno e nelle grandi città. Tengono in pugno la vita di tante persone, sono speculatori e speculatrici che sfruttano la disperazione e la creduloneria di tanta gente per arricchirsi di fama e denaro, a danno degli stessi clienti che molto spesso sono stati rovinati proprio da chi avrebbe dovuto aiutarli. Non solo streghe dagli oblunghi cappellacci neri e dai bastoni sormontati da zucche sghignazzanti che vanno in giro per le strade a far baldoria la notte del 31 ottobre, accanto a ciò prolifera un fenomeno più complesso, in cui veri imprenditori dell'occulto producono un fatturato esorbitante, servendosi anche della pubblicità e dei mass-media.
31-10-2014
© Francesca Canino

3 commenti:

  1. Complimenti per il bellissimo articolo. Nel mio romanzo "Come una folgore nel cielo" anch'io ho fatto riferimento a una "magara" calabrese trisavola del protagonista, alle arti magiche operate da streghe e sciamani e al famoso libro del Cinquecento. Ma, come dici, bisogna stare molto attenti a speculatori e nuove "magare" che lucrano ancor oggi sulle disgrazie e sulla disperazione di tante persone.

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