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25 luglio 2016

Le lettere dei Fratelli Bandiera


25 Luglio 1844


 da Il Quotidiano della Calabria, 25 luglio 2012
“Tentai più volte un cantico come un sospir d'amore a voi sacrar”, sono i primi versi di una poesia di Goffredo Mameli dal titolo “Ai Bandiera”. La storia dei fratelli veneziani e dei loro compagni sbarcati in Calabria è risaputa ed è stata ripercorsa tante volte anche dai giornali. Non ve la racconteremo di nuovo, ma vi proporremo alcuni stralci delle lettere che Attilio ed Emilio Bandiera indirizzarono ai genitori, a Mazzini e ai giudici nei mesi in cui si erano rifugiati a Corfù e durante la loro prigionia nelle carceri cosentine. Non hanno bisogno dei commenti degli studiosi, dei giornalisti o dei critici, sono l'espressione di patrioti ferventi che non devono essere dimenticati. Solo i versi in corsivo di Mameli si alterneranno tra gli scritti dei martiri veneziani.

“Non è vero che l'Italia sia immatura pella libertà. Se su du essa getterassi uno sguardo superficiale s'incontreranno una nobiltà indolente, un clero intollerante, un popolo povero ed ignavio, ma se poco vogliasi approfondare l'investigazione, si sentirà che dalla Trinacria alle Alpi, oltre che la gloriosa rimembranza del passato, ferve dovunque un cupo mormorio che invano i tiranni si studiano di soffocare”.  Dallo Statuto dell'Esperia, società segreta fondata dai fratelli Bandiera.

“Giovare all'Italia è giovare all'umanità intera. Senza conoscere i vostri principi concordavamo con essi. Noi volevamo una patria libera, unita, repubblicana: ci proponevamo fidare nei soli mezzi nazionali, sprezzare qualunque sussidio straniero e gittare il guanto quando ci fossimo creduti abbastanza forti”.
Attilio Bandiera a Mazzini, marzo 1844.

“Mia madre non m'intende, mi chiama empio, uno snaturato, un assassino, e le sue lagrime mi straziano il cuore, i suoi rimproveri, quantunque non meritati, mi sono come punte di pugnale, ma la desolazione non mi toglie il senno; io so che quelle lagrime e quello sdegno spettano ai tiranni”.
Emilio Bandiera a Mazzini in occasione della visita della madre a Corfù.

“Signor Padre, dispero ch'ella voglia accettare questa mia. L'ira sua deve essere orribile, implacabile, il suo cuore non batterà che di sdegno e di esacrazione per i suoi figli; pure per l'amore di mia madre non distrugga questo, forse mio ultimo lamento.
Allorquando il tempo avrà dalla sua mano inesorabile raffreddato alquanto il bollore dell'odio suo, chi sa, ella potrebbe ricercarlo questo foglio in cui suo figlio versò tante lagrime e le più amare forse dell'orrendo calice che il destino gli serbava quaggiù. E forse questo momento potrebbe essere vicino. Quando un estraneo le dirà: Signore, il colpevole è sotterra, allora non le sarà contato a delitto ricordarsi che quel colpevole era suo figlio. Signore, una carriera opposta percorremmo, la percorremmo, oso dirle, con la stessa devozione, con la stessa nobiltà. La vostra era quella che rifulgeva del prestigio della potenza e voi l'onoraste e la vostra probità, l'elevatezza del vostro operato, giunsero a mettere anche in dubbio se da quella parte non fosse la giustizia: la mia era quella dell'Italia, d'una patria caduta, desolata avvilita. Padre mio, non perdonerete a vostro figlio di essersi fatto campione del debole e di aver sfidato l'orgoglio dell'ingiusto potente? Codesto perdono scenderebbe come balsamo sulle piaghe che mi addolorano il cuore, ma egli vi costerebbe troppo. Perdonato che aveste, ritornereste a vostro figlio il vostro amore e vi dorrebbe saperlo infelice, e allora, padre mio, alle mie afflizioni dovrei aggiunger quella d'aver alle lagrime di sdegno fatto succedere quelle più corrosive dell'affanno. Però, Padre mio, una grazia: sarà l'ultima e dopo questa non udrete più nulla di me, non vi chiederò più soccorso, consiglio o compassione. La miseria, gli stenti, gli affanni, i pericoli mi condurranno prestissimo ad una morte prematura e violenta: concedetemi che in quel supremo momento, in cui varcherò il ponte che mena là dove dovranno tacere gli odi ed i risentimenti, concedetemi, Padre mio, che io muoia prendendomi la vostra benedizione”. 
A. B. al padre.

Ma un fremito d'ira stringeam il core, ma soffocava il pianto sulle mie labbra il canto.(G. Mameli)

“Convenimmo correre la sorte. Fra poche ore partiamo per la Calabria. Se giungeremo sani e salvi, noi faremo il meglio che si potrà, militarmente e politicamente. Ci seguono altri diciassette italiani, la maggior parte emigrati: abbiamo una guida calabrese. Ricordatevi di noi, e credete che, se potremo metter piede in Italia, di tutto cuore ed intima convinzione saremo fermi nel sostenere quei principi che, riconosciuti soli atti a trasformare in gloriosa libertà la vergognosa schiavitù della patria, abbiamo assieme inculcato. Se soccombiamo dite ai nostri concittadini che imitino l'esempio, poiché la vita ci fu data per utilmente e nobilmente impiegarla, e la causa per la quale avremo combattuto e saremo morti è la più pura e la più santa che mai abbia scaldato i petti degli uomini: essa è quella della Libertà, dell'Eguaglianza, dell'Umanità, della Indipendenza e dell'Unità Italia”.
E. B. a Mazzini, giugno 1844.

“L'insurrezione comincia a succedere in Italia ad una lunga e difficile cospirazione. I vostri figli corrono a prendervi parte. Probabilmente soccomberemo, ma
saremo benedetti da tutti i buoni, compatiti dagli indifferenti, vilipesi dai tristi. Voi, nostro padre, sarete inesorabile a perseguitarci con la vostra maledizione? Oh no, voi non siete capace di odiare nessuno e non vorrete odiare due figli che, se hanno errato, lo fecero per troppo vibrato sentire. Non mi estendo di più. Ho tutto detto quando dico che la benedizione di mio padre mi renderebbe sopportabile qualunque esistenza e placida la morte”.
E. B. al padre, giugno 1844.

“Mio caro padre, tra poche ore, se non ci è impedito, partiremo per la Calabria, dove altri prodi figli d'Italia hanno proclamato la rigenerazione della patria. Secondo ogni apparenza, soccomberemo, ma l'esistenza non ci fu forse data per bene impiegarla? La nostra memoria suonerà benedetta tra quelle dei generosi che si dichiararono fautori dell'umanità e della patria. Già questa benedizione da ogni parte ci piove addosso, dovunque ci si esalta come magnanimi. Ma questo applauso da Lei è preso come infame. L'infamia deriva dalle azioni proprie e non dalle altrui voci appassionate. Alla famiglia preferimmo l'umanità e la patria, e noi credemmo d'aver fatto il nostro dovere. E con noi sta il consenso universale: chi statuisce di sacrificare i maggiori interessi ai minori è sempre un egoista. Temperi il suo rammarico dunque, e resistendo alla sua piena cessi di essere ingiusto verso di noi. Le somme cure che mi assediano in questi momenti decisivi mi impediscono d'intrattenermi con Lei come bramerei. Non Le ho scritto dopo le mie da Sira perché seppi che, non più che accordarci il di Lei amore, Ella non vuol più sentirci nominare. Mi ridoni il di Lei affetto in questo supremo momento”.
A. B. al padre, giugno 1844.

PROCLAMA AI CALABRESI

Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Unità.

Calabresi!
Al grido de' vostri fatti, all'annunzio del giuramento italiano che avete giurato, Noi, attraverso ostacoli e perigli, dalla prossima terra d'esilio siam venuti a schierarci fra le vostre file, a combattere le vostre battaglie, ad ammirare la bandiera dell'Italia che avete coraggiosamente sollevato! Vinceremo o moriremo con voi Calabresi! Grideremo come voi avete gridato, che scopo comune è di costituire l'Italia e le sue isole in nazionalità libera, una, indipendente: con voi combatteremo quanti despoti ci combatteranno, quanti stranieri ci vorranno schiavi ed oppressi. Calabresi, non è epoca rimota quella in cui avete distrutto sessantamila invasori condotti da un italiano, il più grande capitano di Napoleone. Armatevi dell'energia di allora e preparatevi all'assalto degli austriaci che vi riguardano lor vassalli, vi sfidano e vi chiamano briganti. Continuate, o Calabresi, nella generosa via che con splendidi successi avete dimostrato volere unicamente percorrere, e l'Italia resa grande ed indipendente chiamerà la vostra la benedetta delle sue terre, il nido della sua libertà, il primo campo delle sue glorie.
In nome degli esuli sbarcati in Calabria, Attilio Bandiera, Niccolò Ricciotti, Emilio Bandiera. 
“Annunciateci, ve ne preghiamo, tutta la verità; ed innanzi a Dio ed innanzi agli uomini non potrete fare opera più meritoria. Colui che vi scrive queste poche righe sa che immancabilmente è consacrato ad una prossima morte. Il sogno delle sue notti era di spirare sul campo di battaglia, combattendo chi non permette che l'Italia diventi nazione al pari delle altre e riacquisti i propri diritti! Ah! non saranno le baionette tedesche, saranno le palle italiane bensì, che lo ricongiungeranno a Dio! Quale disinganno! E quale dolore? Essere sconosciuto ed oppresso da tale che si stimava fratello! Da quello, di cui in terra straniera, quantunque a torto talora, non si tollerava mai che l'onore calpestato venisse deriso”.
A.B. al procuratore, giugno 1844.

“E la bandiera tricolore, trovata fra i nostri arnesi, imputate, rispettabili signori, a punto di accusa ed a base di condanna? L'averla portata con noi fu naturale conseguenza della presa risoluzione e delle esagerate notizie ricevute. Noi credevamo avviarci verso un paese commosso, credevamo vedere sventolare sulle sue torri lo stendardo della Patria e, volendo mostrarci drappello del nuovo Patto italiano, volevamo innalzare lo stesso vessillo, il quale poi, nè a San Giovanni in Fiore, nè altrove fu inalberato. Se la bandiera italiana fosse stata spiegata, gli Urbani di quella città fratricida o sarebbero stati respinti o avrebbero trovato Emilio Bandiera cadavere accanto ad essi”.
E.B. ai giudici, giugno 1844.

E non ardì il mio genio sui venerandi avelli dei martiri fratelli voce di schiavo alzar. (G. M.)

“Mio caro padre, due sole righe perché sono impedito dal fare di più come vorrei perché i ferri mi stringono le mani e m'impediscono di adoperarle in nessuna maniera. Domani raccoglieremo, Emilio ed Io, le vele nel porto Supremo, entreremo nella Città beata dove non sono tiranni e là pregheremo per Voi ed aspetteremo, perché Dio gode di unire ciò che gli uomini vollero disgiungere. Consci di aver fatto più bene che ci era possibile ed inoltre di aver più sofferto che goduto, noi siamo sereni e tranquilli e riguardiamo alla morte come al fine di una prova difficile. La nostra pena può essere confessata crudele, ma mai infamante. Separiamoci dunque da forti e in modo degno di noi”.
A.B. al padre dopo la sentenza.

“Mia cara Mamma,
Sopportate con rassegnazione questa amara prova, questo acerbo dolore. Ricorrete a Dio e statene sicuri che ottenuto il suo perdono noi pregheremo per Voi, e per i cari che Vi circondano e che non voglio nominare perchè la mia predilezione non sia per esse soggetto di persecuzione. Attestate al mondo intero che Nicola Ricciotti non ebbe alcuna parte alla sciagurata determinazione che ci condusse a morte. Giunto appena a Corfù e diretto da tutt'altra parte, cedette ad una amicizia breve di tempo, ma veemente d'affetto; invitato da noi, con noi volle dividere gloria e pericolo. Beneditelo, miei cari, perché i vostri figli saran morti nelle sue braccia, col solo dolore, ripeto, di avergli domandata una tanto triste fratellanza. L'ultima prova che vi addrizziamo si è di far risonare più che sia possibile questa solenne verità”.
E.B. alla madre dopo la sentenza.

La mattina del 25 luglio 1844, nel Vallone di Rovito presso Cosenza: “Tirate pure -  gridarono al plotone esitante - siamo soldati anche noi e sappiamo che quando s'ha un ordine s'ha da eseguire”.
Fino all'ultimo gridarono “Viva l'Italia”.

L'inno dei forti ai forti, quando sarem risorti sol vi potrem nomar. (G. M.)



© FRANCESCA CANINO


15 marzo 2016

Il Moto cosentino del 15 marzo 1844


I due gruppi di uomini si fermarono l'uno di fronte all'altro,

incrociarono gli sguardi carichi di speranza: parlavano la stessa
lingua e identica era la loro gestualità. Tratti somatici comuni ad
entrambi; forse anche i loro pensieri risultavano simili, diverse
erano solo le loro vesti. Da una parte uomini in divisa, dall'altra
gente del popolo senza uniforme: i primi obbedienti alle autorità, i
secondi ribelli alla stessa. Attimi di silenzio, poi un breve
confronto pieno di passione e speranza: “Non usiamo le armi, siamo
fratelli!”. Parole che appena pronunciate scatenarono una micidiale
sparatoria, caddero gendarmi e insorti, altri rimasero feriti sullo
spiazzo del Palazzo dell'Intendenza a Cosenza. Era il 15 marzo del
1844.
L'antefatto - Il moto cosentino del 1837, soffocato con una violenta
repressione,  non placò gli animi dei ribelli, anzi aumentò la
diffusione delle idee mazziniane e i contatti con la Giovine Italia.
Il quadro calabrese negli anni successivi, si presentava vario e
pronto ad esplodere: Reggio, nonostante fosse considerata dai Borboni
la città più calma, vide la nascita di un comitato rivoluzionario che
in breve instaurò contatti con i ribelli di Napoli tramite il
cosentino Domenico Frugiuele. Cosenza, invece, era in pieno fermento
rivoluzionario: da un incontro svoltosi in casa del carbonaro Raffaele
Laurelli, scaturì il piano per una insurrezione nella città dei Bruzi.
Erano state predisposte due bande che avrebbero dovuto attaccare i
centri del potere cittadino, una di esse si era riunita alla Querce di
Frugiuele, l'altra alla Porta di Ferro, mentre alcuni gruppi armati
erano stati sistemati nelle vicinanze delle case abitate dagli
ufficiali della gendarmeria e dei funzionari governativi, affinché si
impedisse il loro intervento.
La notte del 23 ottobre 1843, data scelta per lo scoppio della
rivolta, la città fu colpita da una forte tempesta che impedì ai
rivoltosi di raggiungere i punti concordati. L'azione fu quindi
rinviata, ma la polizia, che aveva avuto notizia della ribellione, si
mise sulle tracce degli autori. L'Intendente di Cosenza, Battifarano,
decise tuttavia di lasciar correre, poiché aveva ricevuto minacce di
morte nel caso in cui avesse perseguitato i cospiratori.
Nei mesi successivi, i patrioti si riunirono, esattamente nel febbraio
del 1844, in casa di Paolo Scura, alla presenza di Antonino Plutino,
personaggio di spicco del Risorgimento reggino, che propose di
rimandare a dopo l'Unità d'Italia la liberazione dallo straniero.
Durante la riunione in casa di Scura, una parte dei presenti si
pronunciò in favore di una rivolta immediata; altri, più prudenti,
ritennero che sarebbe stato opportuno prendere tempo per evitare gli
errori del passato. Si arrivò ad un accordo: il 15 marzo la città
sarebbe insorta.
L'insurrezione - Il Moto delle Idi di marzo sarebbe dovuto scoppiare
contestualmente a quello delle altre province calabresi, ma poichè la
notizia si era divulgata anche tra gli ambienti della polizia, alcuni
rivoltosi come Plutino, manifestarono l'intenzione di rimandare la
ribellione. Frugiuele e i cosentini, invece, si opposero al blocco
dell'azione e decisero di mettere in atto il piano, ma i ribelli che
avrebbero voluto il rinvio dell'azione, sparsero notizie false per
fermare la rivolta. Così a Settimo di Montalto, uno dei luoghi
prescelti per l'incontro di una delle bande dei cospiratori, la notte
del 14 marzo giunsero pochissimi uomini, mentre l'altra compagine si
ritrovò a Monte Chierico, alle spalle di Portapiana. All'alba,
tuttavia, il gruppo innalzò il Tricolore e marciando per le vie della
città, raggiunse l'Intendenza.
Un considerevole numero di ribelli proveniva dai paesi albanesi, tra
questi era Domenico Mauro, intellettuale stimato e attivo, che si mise
a capo della sfortunata sommossa cosentina antiborbonica al grido di
“Italia e Costituzione”.
Arrivati dinanzi allo spiazzo antistante il Palazzo, i rivoltosi
trovarono il portone sbarrato ed iniziarono a scaricarvi fucilate e
colpi di ascia per sfondarlo, ma si trovarono subito circondati da uno
squadrone di soldati a cavallo comandato dal Capitano Vincenzo
Galluppi, figlio del filosofo Pasquale. Lo scontro fu fatale per
gendarmi e ribelli, rimasero a terra Galluppi e un altro gendarme e
tra gli insorti Francesco Salfi, Michele Musacchio, Emanuele Mosciari,
Giuseppe de Filippis e molti altri rimasero feriti.  Il Patriota Salfi
aveva appena fatto in tempo a sventolare il Tricolore, quello stesso
che oggi è conservato presso il Comune di Cosenza come uno dei più
antichi d'Italia. Nel frattempo, il gruppo riunito a Portapiana, aveva
sentito gli spari e accorse in aiuto, ma si disperse non appena seppe
del fallimento dell'azione.
Le conseguenze - Fu subito inviato a Cosenza un Commissario Regio con
un battaglione che, occupata la città, istituì una Commissione
militare per giudicare i tanti arrestati. Il processo, conclusosi il
10 giugno, condannò a morte ventuno ribelli, altri dieci furono
condannati a trent'anni di carcere duro, tredici di loro a venticinque
anni anni, tra cui Frugiuele, mentre tanti altri rimasero in carcere
senza processo. Infine, la condanna a morte fu confermata solo per sei
di essi che condotti nel Vallone di Rovito, furono giustiziati
all'alba dell'11 luglio al grido di 'Viva l'Italia', alla presenza di
una folla commossa. La città rimase attonita per molti mesi, anche
perché pochi giorni dopo, un'altra esecuzione di grande impatto
emozionale si compì nello stesso luogo, quella dei fratelli Bandiera.
Vista la situazione in cui versava la città e i cittadini, i reali
decisero di far visita all'antica capitale dei Bruzi, ma non trovarono
alcuna accoglienza tanto che Ferdinando II propose di far perdere a
Cosenza il ruolo di capoluogo di provincia. Dissuaso dai reali
consiglieri, dovette presto recedere dalle sue posizioni in ragione
del fatto che un atto così eclatante avrebbe potuto fomentare altre
ribellioni. Intanto, i fratelli Bandiera, ignari che la rivolta fosse
finita nel sangue, si mossero da Corfù per appoggiare i ribelli di
marzo. Vincenzo Padula nel dramma “Antonello Capobrigante calabrese”
la ricorda così: «Uomini del 15 marzo si dissero coloro, che al 1844,
fecero in Cosenza contro il borbonico governo la celebre sommossa, che
iniziò l'indipendenza e l'unità politica d'Italia. Promotore impavido
ed ordinatore solerte di quell'eroica ed audacissima impresa fu il mio
compianto amico Domenico Mauro, che nato in uno dei nostri paesi
albanesi, si valse principalmente per operarla del braccio degli
albanesi, ajutato in ciò dai fratelli Petrassa e Franzese da Cerzeto e
Mosciaro da San Benedetto Ullano e dal cosentino Francesco Salfi,
ch'esercitava la professione di notaio in quest'ultimo paese.
L'impresa fallí, il Salfi cadde nel conflitto, e degli altri,
variamente e crudelmente condannati, la fama pietosa ed ammiratrice,
che volò oltralpe, ed oltremare magnificata più del vero dai giornali,
persuase i fratelli Bandiera, ed i loro generosi compagni ad
intraprendere ciò che da tutti è conosciuto».

Francesca Canino
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26 gennaio 2016

PIANO A SUD

Piano a Sud


INTRODUZIONE - Dopo il fallimento dei progetti industriali che nel corso degli anni sono stati destinati al territorio calabrese, è necessario ora volgere lo sguardo altrove. Se l’industrializzazione non è riuscita ad attecchire in Calabria dal dopoguerra ad oggi, nonostante i fondi stanziati, le energie profuse, ettari di terre sacrificati in nome di uno sviluppo che non c’è mai stato, forse la causa di ciò risiede nel fatto che si era intrapresa la via sbagliata. L’economia calabrese, da sempre basata sull’agricoltura, ha subito un’involuzione da quando sono stati proposti modelli diversi, purtroppo mai attuati. Di contro si è realizzato l’abbandono dei campi nella prospettiva di veder decollare un sistema industriale fallito sul nascere. Le conseguenze sono tristemente note visto che la regione non sfrutta più le sue risorse naturali, non intraprende piani di sviluppo industriale, subisce una disoccupazione tra le più alte in Europa, vede giovani emigrare in massa e soprattutto è la ‘patria’ di un sistema di delinquenza organizzata che trova facile manovalanza tra i disoccupati stessi. Un circolo vizioso che bisogna rompere creando benessere per tutti e se la Calabria è una terra a vocazione agricola, allora si ritorni al passato per migliorare il presente e preparare basi solide per il futuro, investendo energie e risparmiando denaro. E’ noto, infatti, che gli aumenti dei prezzi dei beni alimentari sono dovuti ai troppi passaggi intermedi che i prodotti subiscono per arrivare dal campo alla tavola, ecco perché sempre più consumatori scelgono la cosiddetta 'filiera corta', fare la spesa, cioè, direttamente dagli agricoltori. A questa logica risponde il progetto “Km 0” promosso da Coldiretti per concorrere alla salvaguardia dell’ambiente inquinando di meno. L’obiettivo è promuovere l’acquisto e il consumo di prodotti nel medesimo ambito territoriale in cui vengono coltivati. I prodotti sono spesso commercializzati attraverso i GAF, gruppi di acquisto famiglie o tramite i mercatini dei produttori che vendono direttamente ai consumatori. I vantaggi ambientali del progetto “Km 0” ricadono direttamente sull’ambiente, con un minor consumo di energia, meno inquinamento e  traffico sulle strade. Inoltre consente alle imprese sul territorio di prevenire il dissesto idrogeologico con una costante attività di manutenzione. Si pensi alla desertificazione o allo stato dei fiumi, emergenze per le quali è fondamentali il contributo dell’agricoltura. Queste nuove soluzioni commerciali di offerte e diffusione dei prodotti favoriscono nuovi investimenti nelle zone, creano occupazione e contribuiscono al mantenimento delle risorse ambientali da cui l’agricoltura dipende strettamente. La loro attuazione in un territorio colpito dal dissesto idrogeologico come quello calabrese potrebbe contribuire a migliorarne le condizioni. Senza tralasciare la positiva ricaduta nel settore occupazionale degli investimenti sulla 'terra', in un momento in cui la disoccupazione è ai suoi massimi livelli e non si intravedono vie d'uscita per il prossimo futuro.
Nel territorio del comune di Cosenza sorgono tre frazioni circondate da terre fertili, dalla forte connotazione agricola, preservate dalla cementificazione e abbandonate, purtroppo, a se stesse. Si può partire da qui per realizzare un programma diverso, pienamente confacente alla tradizione dei luoghi suddetti e sperare che non segua il destino dei piani predisposti in passato per lo sviluppo del Mezzogiorno.


Quadro generale - A Sud del centro storico di Cosenza sorge un vasto sistema collinare su cui sorgono le frazioni di Donnici Superiore e Inferiore, Borgo Partenope, Sant’Ippolito. Di grande valore ambientale e paesaggistico, le colline mostrano da sempre un carattere di forte identità rispetto alla città e a tutta la Valle del Crati; la loro connotazione agricola, mista a una limitata presenza di zone boschive, convive integrandosi con fenomeni di antropizzazione, soggetti a variazioni intervenute in conseguenza all’emigrazione verso altre nazioni o verso la città. Ciò ha contribuito a depauperare il territorio, tanto che il sistema collinare periurbano è in una fase di forte declino. Solo nuovi modelli per uno sviluppo compatibile con la tutela e la valorizzazione delle risorse ambientali potranno far rivivere ambiti abbandonati da tempo e ridurre fenomeni di decadenza e spopolamento. La forte frammentazione della proprietà fondiaria e l’esclusione delle colline da programmi economici e produttivi ne hanno mantenuto la propria identità. Tali aree sono soggette a tutela paesaggistica per la difesa delle caratteristiche naturali, estetiche e culturali in aree omogenee e, se visti nel loro quadro d’insieme, esprimono un concetto evidente di identità del territorio che scaturisce dalla ricognizione dei propri caratteri fisici. Se la pianificazione territoriale per queste aree si è mossa nella direzione dello sviluppo sostenibile, approntando politiche e strumenti che hanno accolto il concetto di preservazione del paesaggio, allora diventa urgente, in un discorso di salvaguardia ambientale, agire secondo la logica della protezione dei luoghi, della ricostituzione delle componenti ambientali e dei connessi equilibri. Morfologicamente le zone a Sud di Cosenza presentano i caratteri tipici delle aree collinari, con pendenze accentuate. Il degrado è da attribuire a fenomeni di erosione e franosità causato dalla mediocre qualità dei terreni e dalle condizioni climatiche. La vegetazione è tipicamente mediterranea, caratterizzata da una massiccia presenza di uliveti, vigneti, querceti e alberi da frutto, con spazi aperti inframmezzati da arbusti e piante erbacee. L’edificazione si concentra in massima parte lungo gli assi viari principali, con tipologie propriamente rurali, caratterizzate da semplici volumi. Il rimanente territorio presenta una scarsa edificazione. La zona è ricca di diversi corsi d’acqua utili per l’agricoltura. Basti pensare ai numerosi mulini ad acqua o a cilindri che in passato sorgevano sul territorio.

A Sud di Cosenza

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Donnici - Già agli inizi del ‘900 era fiorente l’industria dei fichi, del vino, dell’olio, della pasta e una fabbrica di liquori che, con la sua premiata specialità denominata ‘Amaro tonico silano’, sosteneva una distilleria e una raffineria di alcool. Dal 1980, Donnici accoglie in autunno migliaia di persone dai dintorni per la Sagra dell’uva, festa popolare in grado di coinvolgere tutto il circondario. E' la terra di Bacco, ricca di antichi vitigni che danno il rosso ‘cerasuolo’, riconosciuto vino Doc dal ’71. L’assenza, tuttavia, di uno sforzo comune in tutto il settore agricolo ha causato l’abbandono delle terre, intensamente coltivate in passato tanto da rifornire la città di prodotti ortofrutticoli, vista la fertilità dei luoghi ‘invasi’ dalla superba macchia mediterranea. Fu preservata negli anni ’70 dal Piano Regolatore Vittorini, che destinò il Sud della città a zone agricole, ma non si è mai realizzato uno sviluppo agricolo in grado di mutare le sorti della frazione. Oggi si auspica un progetto per l’agricoltura biologica e lo sfruttamento in termini industriali delle acque dello Zumpo, tra le migliori d’Europa. Donnici offre anche un paesaggio ‘verde’ che alcuni del posto vorrebbero utilizzare come richiamo turistico mediante la realizzazione di un agriturismo. Manca, tuttavia, un piano ad hoc in grado di sviluppare le risorse naturali e umane.

Borgo Partenope - Adagiato sulle pendici presilane, il borgo presenta caratteristiche rurali intatte nonostante i terreni siano ormai incolti; ciò ha spinto la popolazione a emigrare verso la città o addirittura verso altre nazioni alla ricerca di lavoro, determinando una sostanziale riduzione del numero degli abitanti. Gradualmente si sono, così, allentati i tratti distintivi del luogo, basati su una rudimentale e tradizionale agricoltura praticata dalle famiglie. Smembrati dall’esodo verso la città, i nuclei familiari hanno tralasciato le secolari occupazioni agricole con conseguente abbandono delle terre, che sempre più spesso, nei periodi estivi, sono minacciate da violenti incendi. Oggi la frazione conta pochi abitanti e nessuna attività, fatta eccezione per il panificio che rifornisce anche la città. E’, però, un quadro arcadico, dove il verde degli ulivi e delle grasse foglie dei fichi d’India delimitano viuzze tortuose tra campi abbandonati, dove animali domestici vagano sulle vecchie aie, dove, fino a qualche decennio fa, i contadini facevano la spola tra vecchie case e campi, mentre donne con le sporte sulla testa si recavano negli orti o alla fontana pubblica. Abbandonata l’operosità degli anni andati, la frazione è attualmente ferma, manca, infatti, una politica specifica in grado di risollevarne le sorti senza sconvolgerne la tradizionale vocazione agricola. 
 
Sant’Ippolito - Nel 2003 era tutto pronto per la nascita di un parco naturalistico a sud della città, tra Borgo Partenope e Sant’Ippolito, come annunciato dall’allora assessore al verde in collaborazione con il WWF. Il progetto prevedeva la valorizzazione di una pineta di proprietà della Forestale situata tra le due frazioni e la creazione di diversi sentieri naturalistici. Un ricordo ancora vivo nella gente delle due frazioni, riguarda, invece, la lunga e triste faccenda dei rifiuti, che dalla fine degli anni ’70 agitò i tranquilli ritmi di vita a causa di una discarica ricavata su un terreno di proprietà privata tra Sant’Ippolito e Pietrafitta. Tre anni più tardi si pensò di bonificare l’ex discarica e nel 2003 il WWF chiese al Comune di Cosenza di valorizzare la pineta e creare il parco naturalistico. Ma niente è stato fatto.


strategie per la valorizzazione del prodotto e del territorio – Uno studio accurato delle zone a sud, con l'individuazione dei terreni coltivabili, sarebbe il punto da cui partire per sensibilizzare i proprietari terrieri alla creazione di imprese agricole, anche familiari, con l'obbligo di rispettare l’ambiente, la salute pubblica e gli animali dell’habitat. La creazione di posti di lavori per la gente del luogo è una necessità non più procrastinabile, da attuarsi anche mediante il consolidamento di attività già esistenti e con la cooperazione tra le imprese.
L'obbligo di produzioni biologiche, la promozione dei prodotti tipici delle frazioni e la vendita diretta al consumatore potrebbe realizzare nuovi modelli di economia, basati sulla tradizione, ma da attuare in linea alle nuove esigenze. Il benessere generale deve essere garantito con la commercializzazione di cibi sani, informando il consumatore sulla sicurezza del prodotto tipico locale. La genuinità del prodotto è l'obiettivo da raggiungere insieme alla sua commercializzazione in ambiti ristretti. Gli incentivi per l’agricoltura attraverso i fondi europei sono una realtà che potrebbero avviare un percorso nuovo e vantaggioso per l'ambiente e per i disoccupati.
Serve un'inversione di rotta visto che da oltre quarant'anni mancano nuove forze nell'agricoltura e se si guarda al futuro ci si chiede quale sarà lo scenario. Si può cominciare promuovendo il ruolo sociale del contadino: in America si finanziano università e organizzazioni no-profit per formare i contadini del futuro. Le facoltà di agricoltura e i corsi di agraria per chi non intende laurearsi sono sempre più frequentate da giovani che vedono la campagna come un lavoro sicuro, non precario come accade nel settore terziario. E' anche in crescita la domanda di prodotti sani dopo anni di cibo precotto o conservato. Un esempio da seguire per salvare il territorio e incrementare l'economia.

Perché un piano per l’agricoltura - Sempre più studiosi affermano che “Il XXI secolo sarà contadino o non sarà”. Assume fondamentale importanza, quindi, il ruolo dell’agricoltura che deve essere promossa previa un’attenta disamina delle caratteristiche intrinseche al sistema agricolo odierno, non solo per realizzare un’efficace difesa del suolo e favorire le prestazioni ambientali, ma anche per ridurre l’esodo della popolazione a causa della mancanza di lavoro.
Il ritorno all’agricoltura consentirebbe di ottenere effetti benefici legati alla produzione e all’ambiente in generale (rigenerazione dei suoli, prevenzione degli incendi, sfruttamento ottimale delle risorse idriche) e può divenire modello espressivo dell’identità territoriale, poiché è in grado di certificare il rapporto diretto tra alimento e territorio. La crescita del consumo di prodotti di origine controllata e protetta e il mutamento delle abitudini alimentari che tendono al consumo di cibi di provenienza locale, ottenuti con processi rispettosi dell’ambiente, evidenzia come l’attività agricola sia da sempre parte integrante del territorio e del paesaggio.
Oggi sono previsti incentivi prevalentemente comunitari per promuovere un modello di agricoltura sostenibile, di cui possono beneficiare gli agricoltori che osservano le norme ambientali e le disposizioni riguardanti la salute pubblica, il benessere degli animali e il mantenimento dei terreni agricoli in condizioni agronomiche soddisfacenti.
Un piano per le terre a Sud di Cosenza, attraverso la creazione di imprese agricole, potrebbe promuovere l’agricoltura non intensiva a basso impatto ambientale e senza l’impiego di OGM, recuperando i semi di specie ortofrutticole quasi scomparse, sacrificate dalla grande distribuzione. Le zone sono rinomate per la produzione di vino, pane, olio, fichi, prodotti da collocare con la vendita diretta, evitando intermediazioni commerciali e aumenti dei prezzi dovuti anche ai passaggi  che i prodotti subiscono prima di arrivare sulla tavola.

12-2-2012
©Francesca Canino